NELLA PELLE DI UN ALTRO

Di Delphine Horvilleur, traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

31 MAGGIO 2024

 

 

 

Quando studiavo a Gerusalemme, negli anni '90, viaggiavo molto spesso tra Francia e Israele. Ricordo che all'epoca dicevo spesso che il posto al mondo in cui mi sentivo più a casa era l'aereo. Per me la casa era questo luogo di mezzo, questo momento che mi collegava a questi due spazi, due geografie, due società, e che mi permetteva di vederli un po’ da lontano.

 

Questa settimana, in un certo senso, l'ho sperimentato di nuovo. Per la prima volta dal 7 ottobre ho preso l'aereo che collega questi due Paesi. Non tornavo da circa un anno. Ho avuto però l'impressione che in realtà fossero passati secoli dall'ultima volta che avevo messo piede lì perché, evidentemente, il mondo è cambiato e gli eventi ci costringono ad accettare ciò che non è più e che non sarà mai più lo stesso.

 

È come se, a partire dal mese di ottobre, dovessimo contare il tempo diversamente, non come il calendario civile che ci dice che siamo nel 2024, non come il calendario ebraico che dice che è l'anno 5784, ma a partire da questa data nelle nostre vite che ci hanno portato in un altro tempo. Forse dovremmo proprio dire che è il 237° giorno dell'anno 0 del nuovo e terrificante mondo.

Oppure dire, come suggeriscono molti israeliani che ho incontrato, ebrei o non ebrei, che sia ancora (e sempre) il 7 ottobre. Un giorno che non passa, anzi una notte che continua all'infinito. Sarebbe quindi il 7 ottobre 2023, 237 giorni fa.

 

In effetti, e l’ho visto lì, è come se il tempo si fosse fermato, immobilizzato o fermato di colpo in un dolore infinito che si riverbera in tutta la regione, dolore israeliano e dolore palestinese, lutto israeliano e lutto palestinese, l’impossibile consolazione israeliana e l’impossibile consolazione palestinese. La rabbia degli uni e degli altri, la disperazione degli uni e degli altri...

E ancora e ancora metterò delle e, qualunque cosa dicano, qui o là, coloro che vogliono vedere o percepire solo il dolore di un campo, di una parte, di un mondo, e che minimizzano, relativizzano o negano apertamente il dolore dell'altro.

 

Ci sono così tante cose che vorrei raccontarvi di questo viaggio emozionante che ho appena fatto. Una drasha non sarà sufficiente.

Quindi in poche parole: questa settimana sono stata ufficialmente invitata al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme e ho potuto tenere conferenze anche a Tel Aviv e ad Haifa. Soprattutto, ho avuto la possibilità e l’onore di incontrare ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, di condividere momenti commoventi con le famiglie i cui figli sono ancora tenuti in ostaggio a Gaza, ho potuto parlare con genitori i cui figli sono morti in combattimento, che sanno che non si riprenderanno mai dal loro dolore, ho potuto dialogare con arabi israeliani la cui famiglia è sotto le bombe a Rafah o altrove, persone che non hanno notizie dai loro cari e si aspettano, ogni minuto, il peggio, e si trovano divisi tra il loro radicamento nella società israeliana e il loro attaccamento al sogno palestinese.

 

Ho incontrato artisti, cantanti, attori, scrittori, poeti, coreografi, ho incontrato intellettuali, pensatori e rabbini, e ho pregato con loro per il ritorno degli ostaggi, per la pacificazione delle famiglie in lutto, e anche per i bambini palestinesi... perché no, contrariamente a quanto alcuni vogliono credere, la società israeliana che ho incontrato non è del tutto insensibile al dolore degli altri. Ci sono, come in ogni stato in guerra, persone che, dal profondo del loro dolore o della loro rabbia, non riescono più a pensare all'altro. Ma ci sono anche persone che, come candele nel buio, hanno deciso, anche lì, di inviare altre luci, per rifiutarsi di perdere la propria dignità o di negare all'altro la sua piena umanità.

 

Ho incontrato persone che pensano una cosa e altre che la pensano esattamente al contrario, persone che si interrogano sul senso del combattere e altre che lo ritengono necessario, persone che pensano che la vendetta sia necessaria e altre che sanno che la vendetta non porta mai da nessuna parte e che finisce per trascinarti nell’odio e nel ciclo della violenza.

Ho parlato con persone che sostengono l’operazione militare e altre che ne mettono in dubbio il significato oggi.

Ho parlato con persone che mi hanno spiegato perché sostengono il governo e altri che mi hanno detto perché non perdoneranno mai i loro leader per averli portati a questo, e perché ora chiedono nuove elezioni.

Ho parlato con persone che hanno perso la fiducia negli altri e non credono più nella pace, ma anche con altri che, più che mai, sono pronti a battersi per una soluzione a due Stati, affinché – mi si perdoni l’espressione – dal fiume al mare, ci sia spazio per gli altri, pacificazione, rispetto, riconoscimento, dignità per tutti.

Forse è questo che dovrebbe significare questo slogan, diversamente da tutto ciò che gli abbiamo fatto dire.

 

Piuttosto che quello che tutti vedono esposti sui muri delle nostre città europee, sulle piazze delle università americane o nelle manifestazioni dove si scatenano tante passioni; e qui, dove agitiamo parole, grida, in modo così manicheo e spesso senza cultura del territorio, della storia del conflitto, o più precisamente senza una reale preoccupazione per chi lì vive e dovrà convivere lì.

 

Perché la situazione si potrebbe riassumere così, in fondo in un modo molto semplice: oggi non ha senso dirsi filo-israeliani o filo-palestinesi. L’unica posizione degna, secondo me, l’unico impegno utile, è quella di essere per la pace, per il futuro comune, per il riconoscimento che deve esserci spazio per tutti.

 

Dal Medio Oriente dove ho ascoltato parole diverse, voci complesse, disaccordi esposti davanti a me, a volte in modo estremo, ho assistito da lontano allo spettacolo di ciò che i media mi hanno trasmesso dalla scena europea. E devo dire che mi cadevano le braccia.

 

Ho guardato le immagini di questi cartelli per le strade di Parigi che dicevano “Morte ai sionisti”, che denunciavano un “genocidio”, gli appelli al boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, tutto ciò che cerca di mettere in caricatura il conflitto, di non vedere il dolore da una parte e la brutalità dall’altra, immaginare che il lutto sia da una parte e la barbarie dall’altra, che si possa disumanizzare un campo impunemente, e dire come ha detto questa settimana un funzionario eletto della Francia ribelle che “ No, non apparteniamo alla stessa specie umana”.

 

Questa settimana ho ripensato a una frase che ho ripetuto molte volte dal 7 ottobre e che ripeterò ancora e ancora: posso capire che in Medio Oriente l’immenso dolore e il lutto degli israeliani e dei palestinesi impediscano loro di sentire o di pensare alla sofferenza altrui, aumenta la loro indifferenza o il loro spirito di vendetta, ma non perdonerò e non troverò nessuna scusa valida per chi, oggi, qui, a migliaia di chilometri, è incapace di empatia con tutti, incapace di riconoscere l’immensità del lutto, della sofferenza, del trauma e dell’ingiustizia che ognuno subisce.

 

Questa settimana al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme, ho pensato molto al potere e alla promessa eterna della letteratura. Ciò può sembrare molto fuori luogo e insignificante di fronte al dolore dei bambini di Rafah e delle madri israeliane che non vedranno ritornare i propri figli. Ma ho pensato a cosa permettono la scrittura e la lettura: mettersi, anche solo per un attimo, nei panni di un altro, di un personaggio la cui storia, mondo, cultura e dolore non sono i nostri, ma con cui ci è dato di empatizzare. E mi sono detta che questa capacità era senza dubbio ciò che più mancava all’umanità intorno a noi e che dovevamo provare a ritrovare.

 

Mi scuso per avervi esposto in questo sermone e un po' in generale i miei sentimenti di questa settimana in Israele.

Mi rendo conto che alcuni avrebbero preferito che io parlassi, come faccio ogni settimana o quasi, dell'episodio della Torah che leggiamo in tutte le sinagoghe, di questo brano del Levitico che leggiamo in questo Shabbat e che costituisce ciò che chiamiamo parasha della settimana.

 

Ma invece di questa lettura di parasha, vi invito a pensare a cosa significa anche la parola parasha in ebraico. Non designa soltanto il brano della Torah che leggiamo nelle sinagoghe. In ebraico, è al cuore di un'espressione che designa un “crocevia”: in ebraico chiamiamo un incrocio ‘parashat drakhim’, la parasha delle strade, il luogo dove le strade si incrociano e dove si presentano a noi più strade, diverse strade che ci è possibile prendere.

 

Siamo, mi sembra, nel luogo della parasha, nel parashat drakhim, all'intersezione tra molti percorsi possibili. E il percorso che prenderemo, sia qui sia là in Medio Oriente, con le nostre azioni o con le nostre parole, determinerà il futuro.

 

Ci troviamo in un tempo sospeso tra mondi, esattamente come ci troviamo su un aereo tra paesi. E questo 237esimo giorno dopo il disastro potrebbe, se vogliamo, anche essere il primissimo di un altro tempo. Per fare questo basta scegliere insieme un po’ più di intelligenza, moderazione, dignità, cultura storica ed empatia.

 

Shabbat Shalom

[Drasha pronunciata dal rabbino Delphine Horvilleur il 31 maggio 2024 durante il servizio kabbalat shabbat del JEM, Parigi].

 

 

RISVEGLI, di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv - 26 maggio 2024

 

Sono a Ramat Ahaial, quartiere di uffici e start up e mentre in Europa – divisa e stretta nella morsa di un antisemitismo crescente e con due guerre, ai suoi confini est e nel suo mare sud orientale – si dibatte e si discute in merito alla soluzione “due popoli, due stati” (sempre che non si tratti di un semplice slogan), questa mattina, all’ora di pranzo, e dopo più di quattro mesi di pausa e di silenzio,  nuovi razzi sono stati lanciati da Rafah verso il centro di Israele. Rivendica Hamas: “Grande attacco missilistico su Tel Aviv”.

 

La raffica di razzi è stata lanciata verso il centro di Israele, attivando il sistema di difesa Iron Dome.

Sirene d'allarme hanno risuonato a Herzliya, Kfar Shmaryahu, Ramat Hasharon, Tel Aviv, Petah Tikva e in diverse comunità più piccole.

 

Dei razzi sparati da Hamas, uno solo è riuscito a sfuggire alle maglie della contraerea israeliana. Si è abbattuto su Herzliya, città sulla costa a nord di Tel Aviv. Le schegge del razzo hanno investito il tetto di una casa, ferendo leggermente una donna che era all'interno.

Il servizio di ambulanze di Magen David Adom ha invece affermato che due donne che sono rimaste leggermente ferite dopo essere cadute mentre correvano verso i rifugi antiaerei.

Molte altre persone hanno ricevuto cure per l'ansia, ma non ci sono feriti gravi.

Con la ripresa (forse) dei negoziati sul rilascio degli ostaggi e le pressioni dopo la decisione dell'Aja, Israele sta modificando la sua operazione a Rafah. Lo ha detto una fonte israeliana a Times of Israel.

L'Idf - ha spiegato - continuerà a operare ma lo farà per ora in modo relativamente contenuto.

Ci sentiamo sconcertati, per usare un eufemismo, e oscilliamo tra l’ansia e la necessità di mantenere i nervi saldi – per noi, per i nostri cari, per i bambini, che ci guardano, per i nostri soldati al fronte ed io penso che si stia vivendo il momento storico più difficile dalla nascita dello Stato d'Israele.

Mille domande trafiggono la mia anima e, per ciascuna di esse, mille risposte – o nessuna.

Intanto, ieri sera, la polizia di Tel Aviv è intervenuta per disperdere un gruppo di manifestanti che aveva organizzato un sit-in in piazza della Democrazia, bloccando il traffico sulla vicina via Kaplan.

I manifestanti, riporta Times of Israel, chiedevano un accordo sulla liberazione degli ostaggi e la rimozione del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Nella serata avevano marciato lungo via Begin per unirsi alle famiglie degli ostaggi. Uno striscione recitava: 'Il governo si è arreso (sugli ostaggi). La gente li riporterà a casa'.

Domenica scorsa il ministro per gli Affari della Diaspora e la Lotta contro l'antisemitismo del governo Netanyau, Amichai Chikli, intervenendo sul palco della kermesse di Vox al palazzo Vistalegre, fra le bandiere israeliane dispiegate sullo sfondo, ha detto che “l'offensiva israeliana a Gaza è una battaglia per il futuro della civiltà occidentale” e che “Israele non ha alternativa che combattere e vincere”.

Chikli non ha lesinato elogi a Santiago Abascal, “l'unico leader di un partito che ha visitato lo Stato di Israele dopo il 7 ottobre”.

E, ha aggiunto, l'unico cosciente dei rischi che corre l'Europa “sul punto di scomparire”.

“Non abbiamo altra opzione che lottare e vincere per il bene dei nostri figli e del mondo libero”.

All’Europa e al mondo intero, ma soprattutto all’Europa, Chikli ha detto: “Non dimenticate come è iniziata questa guerra”.

 

E mentre mi chiedo e mi interrogo (anche) sul destino degli Accordi di Abramo, su dove siano finiti, due ore dopo il lancio dei razzi, i bambini sfilano per strada, sotto casa mia, per Lag BaOmer.  Cuccioli resilienti e ostinati Figli di Israele.

Tra ferite vecchie e nuove, dopo il brutale attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023, lo schema degli Accordi di Abramo, che doveva presto culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele, è entrato in crisi. Congelato, indebolito, posticipato da una guerra dai confini ancora imprevedibili.

Tuttavia, tornare sui propri passi rispetto a Israele sarebbe una sconfitta troppo grande, un segno di debolezza politica interna e regionale, poiché rimetterebbe in discussione le strategie di politica estera.

Penso che gli Accordi di Abramo siano nell’occhio del ciclone di una guerra (forse) inaspettata: rappresentavano una relazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi, Bahrein e Stati Uniti, e dunque costituivano un successo di espansione geopolitica ma anche il riconoscimento formale della sovranità di Israele.

Il nuovo conflitto scoppiato tra Hamas e Israele ha segnato un duro contraccolpo a questi Accordi, che avrebbero dovuto sancire la stabilità delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Israele.

Un tempismo tutt’altro che casuale, considerando che Hamas è un gruppo terroristico (riconosciuto come tale dall’Unione Europea e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE, 4 febbraio 2022, L 25) che da solo non avrebbe potuto accedere alle risorse necessarie per sferrare l’attacco e che invece assume il ruolo di “cavallo di Troia” di altri attori internazionali, tra cui l’Iran.

Non mi conforta pensare che, tempo fa, ero stato un facile profeta: gli scenari geopolitici mutano rapidamente, con la possibile conseguenza di una polarizzazione delle alleanze nella regione del Medio Oriente, dove ciascuno invoca il principio di legittima difesa collettiva.

Soldati israeliani sono stati catturati, uccisi e feriti, durante l'operazione di resistenza avvenuta sabato pomeriggio nella Striscia settentrionale di Gaza: erano stati attirati in un tunnel nel campo profughi di Jabaliya, ma, questa sera, si grida alla strage e al massacro per il nuovo raid israeliano su Rafah.

In realtà nessun luogo è sicuro, né di qua né di là, e mi accorgo che esiste davvero una espressione massima del male, che è un male banale, un male che si esercita non per avere un vantaggio diretto ma semplicemente perché non tolleri che un altro esista. Ecco, questo tipo di male secondo me è il più pericoloso che esista.

Tra informazione e contro-informazione, tra propaganda e contro-propaganda, nessuno è innocente – o, forse, l’età dell’innocenza è ormai svanita, per tutti.

Sabato sera a Tel Aviv, tra speranze e contraddizioni. Di Giuseppe Kalowski corrispondente da Tel Aviv – 18 maggio 2024

 

Tel Aviv, 18 maggio – La piazza che conduce al museo di Tel Aviv non è mai stata un punto caldo della città. Ma oggi tutti la conoscono per essere divenuta l’epicentro del movimento a sostegno delle famiglie degli ostaggi detenuti da Hamas, dal 7 ottobre scorso.

Il Forum delle famiglie è un gruppo che si è creato spontaneamente l’8 ottobre; gestisce le attività nella piazza, ribattezzata il 24 ottobre dal consiglio comunale “Piazza degli ostaggi”.

Qui ora viene gente da tutto il Paese, a volte anche dall’estero. Tra bancarelle che vendono vari articoli, i volontari guidano gruppi, scuole, visitatori, li presentano ai parenti degli ostaggi. La piazza offre uno spazio alle famiglie per condividere le loro storie, agli artisti per esporre le loro opere, è un luogo libero per ogni attività di solidarietà: pullman di persone da tutto il Paese vengono qui per incontrarci, per vedere cosa succede qui, per identificarsi con le famiglie ed è per questo che è così importante per noi. Il nostro obiettivo è essere con le famiglie, stare con loro ed essere sempre nella mente e nel cuore della gente, in ogni momento. È importante, è rassicurante, vedere persone, ricevere abbracci, sentire frasi come ‘siamo con voi, non dimentichiamo, veniamo alle manifestazioni, per sostenervi’… È molto rassicurante.

 

Questo sabato sera siamo qui, come tutti gli altri sabato sera dopo il 7 ottobre, e si respira un’aria tesa, dolente e contraddittoria. Il vento umido che soffia dal mare agita lentamente le nostre bandiere, ma i cartelli con i volti dei nostri ostaggi sono fermi e bene issati. I loro volti ci guardano, sereni e sorridenti, dai cartelloni, ma i volti delle persone che mi circondano esprimono dolore e incredulità, sconforto, e sono tesi – mentre il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, annuncia in conferenza stampa che i militari hanno recuperato il corpo di un altro ostaggio: Ron Benjamin, ucciso il 7 ottobre, vicino a Mefalsim, e il cui corpo era stato portato in ostaggio a Gaza.

Quasi contemporaneamente, il ministro senza portafoglio Benny Gantz fissa l’8 giugno come scadenza per il piano di Gaza e minaccia di lasciare il governo se le richieste non verranno soddisfatte… e l’ufficio di Netanyau risponde un’ora dopo con un ultimatum. Gantz sostiene che si deve scegliere tra sionismo e cinismo, tra unità e divisione, tra responsabilità e negligenza, tra la vittoria e il disastro.

 

… Ma i nostri ostaggi non hanno la tranquillità necessaria per aspettare fino all’8 giugno che si decida se riportarli a casa o meno…

 

E su tutto questo l’affermazione, in merito a Gaza, di Itamar Ben Gvir,  ministro della sicurezza, e leader di destra radicale: “È morale, razionale, giusto, è la Torah ed è l’unico modo. E sì, è anche – ha aggiunto, il leader di ‘Potere ebraico’ – umanitario”, e invoca la cacciata di Benny Gantz (e di Gallant) dal gabinetto di guerra.

 

Tre settimane per cambiare strategia, alla scadenza di otto mesi dal 7 ottobre, altrimenti alla guerra si aggiungerà la crisi politica. È l’ultimatum che il centrista Benny Gantz ha dato ieri a Benjamin Netanyahu. La richiesta si articola in sei punti: restituire gli ostaggi; demolire Hamas e smilitarizzare la Striscia di Gaza; fornire un’alternativa di governo “americano-europeo-arabo-palestinese” nella Striscia, che “non sia Hamas e il presidente dell’autorità palestinese”; riportare i residenti del nord entro il 1° settembre e riabilitare il Negev occidentale; promuovere la normalizzazione con l’Arabia Saudita; creare un servizio nazionale israeliano standardizzato…

Queste mosse, che potrebbero aggravare la tensione politica ai più alti livelli di governo, ci inquietano – naturalmente – e appesantiscono gli animi, perché la nazione dovrebbe sentirsi protetta con uno spirito buono e forte e dare ai combattenti al fronte la sensazione di essere sostenuti da un destino condiviso.

 

Viviamo momenti di grande emozione quando sui maxi schermi scorrono le immagini in diretta, in collegamento, con gli interventi dell’ambasciatore austriaco, dell’ambasciatore tedesco, dell’ambasciatore inglese, dell’ambasciatore americano e di Hilary Clinton – a nome anche del Presidente Biden.

L’Ambasciatore austriaco colpisce favorevolmente per la sua totale partecipazione alla tragedia che stiamo vivendo; e ammette senza mezzi termini che l'antisemitismo si è di nuovo affacciato brutalmente in Europa e in Austria dopo il 7 ottobre.

L’Ambasciatore tedesco invece, parlando in un ebraico quasi perfetto, sostiene la necessità di un accordo e di un cessate il fuoco e l’importanza di sostenere con aiuti  umanitari la popolazione di Gaza, che non è Hamas. Per lui non ci sono alternative per liberare gli ostaggi. Ha detto che a Berlino c'è una Piazza degli Ostaggi analoga a quella di Tel Aviv

L’Ambasciatore inglese legge un messaggio di Cameron, attuale ministro degli esteri. Esprime la totale partecipazione al dolore dei parenti degli ostaggi e a voce alta rassicura il pubblico e Israele: “Non vi abbandoneremo, non vi lasceremo soli. Mai!”.

L’Ambasciatore americano ricorda che: “Dal 7 ottobre stiamo quotidianamente cercando una soluzione per il rilascio di tutti gli ostaggi. Gli USA sono con voi. Serve assolutamente qualcosa che sblocchi la situazione”.

(È chiaro l'intento non detto della necessità di un accordo e non di un'azione militare).

Hilary Clinton invia un messaggio dagli Usa, breve ma significativo: “Totale vicinanza, sono sconvolta dagli avvenimenti del 7 ottobre”. Lei e Biden chiedono il rilascio immediato di tutti gli ostaggi, ricordando che hanno più nazionalità e sono di più fedi religiose.

 

Prima della Hatikva, si esibisce per la prima volta in Israele da quando è tornata dall' Eurovision,  Eden Golan, che canta la sua canzone nella versione originaria non accettata “October rain”.

Le sue parole e quelle della Hatikva ci leniscono gli animi, anche il vento si è calmato ed è scesa la notte, scura e profonda.

Dalla Redazione di Torino mi scrivono, in diretta: “Troveremo solo corpi, alla fine…”; “Esattamente…”, rispondo.

Poi ci dispiace di esserci scritti queste parole: “Fintanto che nell'intimo del cuore freme l'anima ebraica e l'occhio guarda a Sion, là nell'oriente lontano, non è ancora perduta la nostra speranza, due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme” – così recita la Hatikva. Ma, per questa notte, ci permettiamo il lusso di essere politicamente scorretti. Domani, ricominceremo a sperare.

 

OltreMare di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv

 

 

Sono sul lungomare di Tel Aviv, e mi concedo una pausa prima di partire per Gerusalemme, in compagnia di un bicchierone di cappuccino e di due rugelach, oziosi e invitanti.

Il mare è agitato, questa mattina, e una lieve foschia si appoggia all’orizzonte. Lo guardo – questo mare – e mi viene da pensare quanto sia in realtà breve questo tratto d’acqua che ci separa, alla sua estremità orientale, dai confini sud dell’Europa: poco più di tre ore di volo, poco più di mille miglia nautiche e, invece, la distanza, in questi giorni mi appare siderale.

Lottiamo per confutare le bugie che in questi mesi hanno descritto e descrivono il conflitto in corso, ma cosa accade veramente in Israele? Noi per primi cerchiamo di capire, e di porci delle domande, per non subire l’onda della propaganda, ascoltando e leggendo le notizie che quotidianamente ci riguardano e non è sempre facile.

 

Il governo arranca a seguito degli avvenimenti degli ultimissimi giorni e la popolazione è arrabbiata e affranta allo stesso tempo, soprattutto dopo avere visto il filmato del 7 ottobre delle giovanissime osservatrici in TV. Bisogna precisare che quelle povere 5 ragazze sono le  uniche sopravvissute... e che altre 15 erano già state uccise poco prima senza pietà... Quel video è un peso enorme sull’anima e si fa fatica a respirare, guardandolo.

Che cosa fare? Questo è quello che si chiedono tutti, qui.

È impossibile avere il polso della situazione perché ci sono molte, troppe opinioni al riguardo.

Una cosa è sicura, secondo il mio parere: il governo che arranca, che prende tempo sull'attacco a Rafah, riflette esattamente il mood della gente, cioè divisione, indecisione, rabbia, paura.

Dopo la visione del filmato fa ancora più rabbia la delirante accusa del procuratore dell'Aja ed ex avvocato del figlio di Gheddafi che chiede l'arresto di Netanyahu e di Gallant.

La conclusione del procuratore è, di fatto, un premio ad Hamas e all'Anp, che non ha mai preso posizione contro lo scempio del 7 ottobre e che all'80 % appoggia Hamas...

Addirittura il giorno dopo, l'Irlanda la Norvegia e la Spagna  si accingono a riconoscere la Palestina come stato sovrano, autonomamente. Ma dove è – oggi – questo stato-from-the-river-to-the-sea, chi è il suo capo di stato, dove ha sede la sua capitale?

Viviamo tutto come una beffa, un oltraggio, dopo aver visto il filmato delle ragazze rapite, e mentre apprendiamo che i corpi di altri 3 ragazzi – che erano stati rapiti, da morti – sono stati recuperati dall’IDF e riportati in Israele.

In tutto questo, Israele, con il suo governo, deve prendere delle decisioni, per quanto dolorose possano essere; ma l'unica cosa che non può fare è rincorrere gli avvenimenti.

 

Il Corriere della Sera del 22 maggio 2024, a proposito dell’avvocato britannico Karim Khan, il Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, che chiede l’arresto del Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu, del Ministro della Difesa di Israele Joav Gallant e di tre appartenenti di Hamas, rileva che, come avvocato, difese l’ex dittatore liberiano Charles Taylor, distintosi per il ricorso ai bambini soldati, agli stupri e alle uccisioni di massa; che è stato consulente di Sauf al -Islam, figlio di Gheddafi, tornato alla ribalta grazie ai mercenari della Wagner; che “il vero capolavoro giuridico è stata la sua assistenza legale a William Ruto” dittatore e Presidente del Kenya, accusato di massacri, il quale Ruto “si è dimostrato molto riconoscente, perché nel 2021 il nome dell’avvocato britannico è apparso un po’ all’improvviso nella lista dei candidati alla presidenza della Corte Penale Internazionale”. E sarebbe arrivato all’Aja per indagare su personalità esterne all’Africa e al Global South, come per esempio Benjamin Netanyahu. Ha battuto, per il posto che occupa, la concorrenza di Italia, Irlanda e Francia.

 

Intanto, da Torino, tempio della laicità, mi raccontano che nella cornice di manifestazioni quotidiane e di atenei occupati da oltre dieci giorni dall’«intifada studentesca» dei pro Palestina, è esploso il caso della presenza dell’Imam Brahim Baya a Palazzo Nuovo, tra le sedi occupate nell’Università di Torino.

Ad ascoltarlo una trentina di manifestanti e fedeli, molti di origine straniera. Il video è stato interamente pubblicato su internet con il titolo “Cosa ci insegna la Palestina” e ha suscitato posizioni di condanna da parte di alcuni professori che hanno parlato di un «inno alla Jihad». Mi scrivono che le sue parole stanno facendo discutere, in Italia, e che «l’imam in preghiera all’Università di Torino è un altro triste capitolo della “cancel culture” e di quel sentimento di “cupio dissolvi” in cui trovano rifugio una parte delle nuove generazioni».

 

E io, che cerco la Vita nelle cose che accadono, io, Ebreo praticante, leggendo che a un Imam è stato concesso di elevare la sua preghiera nei locali dell'Università di Torino, mi permetto di ricordare che, anni fa, a Joseph Ratzinger fu impedito di pronunciare una lezione all’Università La Sapienza di Roma, con la motivazione che l'università è laica.

Ma tant’è…

 

La foschia sul mare sembra, per una frazione di secondo, essere calata anche su di me: mi sembra di vedere mio padre, Abram, seduto sul lungomare, vicino a me, che mi guarda, in silenzio.

Vorrei dirgli: - Vedi, cosa è successo. Vedi, cosa sta succedendo…

Vorrei chiedergli cosa ne pensa… Lui, sopravvissuto al ghetto di  Łódź e al campo di sterminio di Auschwitz.

Ma Abram tace, come ha taciuto per tutta la sua vita, mentre mi guarda con occhi colmi di amore e poi scompare nella foschia.

Già, l’amore.

Mi raccontano che, a Gaza, come qui, in Israele, le persone continuano a innamorarsi, a sposarsi, a mettere al mondo dei bambini.

E sì, non faccio fatica a crederlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al Teatro Habimah di Tel Aviv è stato uno Yom HaZikaron molto sentito e molto temuto da un punto di vista politico per le pressioni interne (i movimenti che guidano le famiglie dei rapiti) e per le pressioni esterne (gli USA in primis), in particolare con Biden che continua a "chiamare una tregua che non esiste". E la vede solo lui, per evidenti ragioni elettorali.

 

 La guerra non va bene, Israele è tornata a combattere a Jabalia dove si pensava fosse finita... Arrivano razzi a Beer Sheva e stamattina ad Ashkelon un razzo ha colpito una casa dopo tanto tempo ferendo tre persone.

Temo, con i debiti scongiuri, che la pressione su Rafah faccia arrivare razzi a Tel Aviv...

 

Una cosa che mi è balzata agli occhi è stato vedere pochissime bandierine con la stella di Davide sui finestrini delle macchine rispetto agli anni scorsi... c'è poca voglia di festeggiare ma sono sicuro che alla fine, dopodomani, lo spirito di resilienza vincerà lo sconforto.

 

Un Memorial Day sentito come non mi era mai capitato di vivere. E mi ha fatto commuovere vedere coppie anche di una certa età abbracciarsi forte e piangere durante i 2 minuti della sirena di ieri sera... mentre, più in là, i bambini piccoli guardavano perplessi i loro genitori… e al Cimitero di Ashdod Ben Gvir era contestato da alcuni e poi difeso da altri...

Anche questa è Israele.

 

Quando nel 1951 fu istituito Yom HaZikaron, il Giorno della memoria israeliano per i soldati caduti in guerra e le vittime di atti di terrorismo, fu deliberatamente inserito nel calendario il giorno prima di Yom HaAtzmaut, il Giorno dell'Indipendenza di Israele.

Sebbene l’accostamento dei due giorni richieda un drammatico passaggio emotivo dal lutto alla celebrazione, la scelta comunica anche un messaggio chiaro: questi soldati e vittime del terrorismo non sono morti invano, e non possiamo celebrare la creazione dello Stato di Israele senza il riconoscimento del suo prezzo in vite umane.

Quest'anno, mentre le sirene suonano in tutto Israele, dal tramonto al mattino, il loro suono penetrante ricorda le vite di coloro che sono stati uccisi nel corso dei 76 anni di Israele e di quelle perse  solo negli ultimi 7 mesi.

Una risposta alla domanda “come possiamo cantare?” questo Yom HaZikaron potrebbe essere la musica emersa in Israele negli ultimi sei mesi. Queste canzoni non solo catturano il polso di gran parte della società israeliana, ma ci danno uno strumento per attingere alla rabbia, al dolore e alla disperazione di quest’anno, così come alla speranza.

Un’altra opzione è quella di celebrare le due giornate ricordando le espressioni di gentilezza, grazia e amore degli ultimi 7 mesi che offrono speranza, comunità e resilienza di fronte a traumi continui e prolungati.

Vedere la Terra d’Israele non come un’eredità passiva (morasha) ma come un fidanzamento (meorasa) per il quale dobbiamo lavorare, su cui investire e verso cui sognare.  

Queste fonti di speranza cui ci aggrappiamo possono essere il momento per ritornare ai sogni precedenti, su ciò che Israele può e dovrebbe essere. Queste idee, ideali e valori, ci ricordano qual è la posta in gioco e perché persistiamo nella lotta per l'anima e la sopravvivenza di Israele.

Iniziare a re-immaginare ciò che Israele può essere moralmente, culturalmente e spiritualmente. Chiedendo agli ebrei di sfidare la storia e ricostruire una casa che possa essere condivisa. Ogni pezzo rimane un progetto ambizioso per un futuro migliore. Servono a evocarci e spingerci a impegnarci nuovamente a favore dell’Israele di oggi e di domani.

 

"Magash Hakesef" (Il piatto d'argento), è una poesia scritta da Nathan Alterman durante la Guerra d'Indipendenza del 1948, fu negli anni '50 e '60 la lettura più comune per le cerimonie di Yom Hazikaron.

La poesia raggiunse uno status quasi simile al discorso di Gettysburg di Lincoln nella cultura statunitense.

Fu pubblicata su un giornale ebraico nel 1947 prima della fondazione di Israele e non parlava dei caduti nelle guerre israeliane, ma di una previsione delle morti che sarebbero avvenute nelle prossime guerre per la libertà e per lo Stato di Israele.

 

Di seguito è riportata una traduzione di questa poesia emotivamente paralizzante.

Il piatto d'argento

Traduttore: David P. Stern

…E la terra si calmerà
Cieli cremisi che si offuscano, si appannano
Lentamente impallidiscono di nuovo
Sulle frontiere fumanti
Mentre la nazione si alza
Lacerata nel cuore ma esistente
Per ricevere la sua prima meraviglia
In duemila anni
Mentre il momento si avvicina
Sorgerà, l’oscurità di fronte

Stai dritto al chiaro di luna

Con terrore e gioia
Quando di fronte escono
Verso di esso camminando lentamente

In bella vista di tutti

Una giovane ragazza e un ragazzo
Vestiti con abiti da battaglia, sporchi
Scarpe pesanti di sporcizia
Sul sentiero si arrampicheranno
Mentre le loro labbra rimangono sigillate
Per cambiare abito, per asciugarsi la fronte

Non hanno ancora trovato il tempo

Ancora stanchi per i giorni

E per le notti trascorse nei campi
Pieni di infinita fatica
E tutti prosciugati di emozioni
Eppure la rugiada della loro giovinezza
Si vede ancora sulle loro teste
Così come statue essi rimangono
rigidi e immobili senza movimento e nessun segno che mostri se vivono o sono morti
allora una nazione in lacrime
e stupita di questa faccenda chiederà: chi siete?

E i due allora diranno
Con voce sommessa: Noi –
Siamo il piatto d'argento

Su cui è stato presentato oggi lo Stato ebraico
Poi ricadranno nell'oscurità
Mentre la nazione guarda stordita

E il resto può essere trovato

Nei libri di storia.