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IL DIFFICILE MERITO DI ESSERE EBREI, di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 15 febbraio 2025
Da 498 giorni viviamo questo incubo che sembra non finire più.
La tregua a Gaza sembra barcollare e la prosecuzione della liberazione degli ostaggi è in grande pericolo.
Ma di fronte a questo infinito sgomento si fa strada la notizia dell'imminente incontro tra Putin e Trump e la dichiarazione di volere iniziare le trattative per interrompere la guerra con l 'Ucraina e un immediato scambio dei prigionieri.
Qualcosa si sta muovendo?
Tutti noi, e non solo il papa, speriamo che il buon senso prevalga sulla follia selvaggia del terrorismo palestinese e sulla irrefrenabile voglia di imperialismo russo, e che le armi tacciano una volta per tutte; ma affinché non risulti un mero e inutile slogan per la pace non si possono accomunare tutti i protagonisti sullo stesso piano, al di là delle facili speranze e delle parole.
Siamo forse a un punto di svolta che non sappiamo dove ci porterà: soprattutto a Gaza, Hamas, galvanizzata dai cinici show mediatici durante il rilascio degli ostaggi, minaccia di interrompere la prosecuzione della prima fase della tregua con il relativo rilascio graduale e parziale degli ostaggi accusando Israele di violazioni della tregua.
L'opinione pubblica mondiale, e l'Italia non fa eccezione, non si è indignata, non ha protestato come avrebbe potuto e dovuto di fronte allo scempio delle torture inflitte agli ostaggi in mano a Hamas. Silenzio totale e di massa.
È una indifferenza atavica sempre più sfacciata e senza freni inibitori.
A nessuno, o a troppo pochi, è mai interessato che da oltre un decennio piovano missili sulle città israeliane, come fosse la cosa più normale del mondo.
L'unica cosa che si sente, in qualsiasi palco politico o istituzionale, è la soluzione "due popoli due stati" oramai diventata una parola d'ordine senza senso perché fuori tempo: concetto nobile espresso però comunemente da coloro che non conoscono fino in fondo la reale situazione e le dinamiche effettive di quei territori.
Ma d'altra parte noi non possiamo eludere questa situazione, abbiamo il dovere di esprimere in ogni caso il meglio di noi stessi. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato per fare capire che la nostra ferrea volontà è quella di volere vivere in pace, anche con la moltitudine che ha pregiudizi nei nostri valori e con chi osteggia Israele da vicino.
Questo deve essere il nostro grande merito: essere ebrei è responsabilità non solo nei confronti dei nostri figli e delle generazioni future, ma anche un esempio per il resto dell'umanità. L'impegno quotidiano nell'osservare i precetti deve stimolare gli ebrei a un comportamento morale ed etico travolgente, cosmico.
Il periodo difficilissimo che stiamo vivendo non deve farci perdere di vista la traccia di umanità che l'ebraismo ha sempre lasciato al resto della collettività.
A noi ebrei va sempre ricordato che la nostra identità e l'appartenenza al popolo ebraico non è un peso, una zavorra, ma è un merito dovuto alla possibilità di poter contribuire allo sviluppo virtuoso, morale e tecnologico del mondo.
Il maledetto 7 ottobre 2023, in una situazione disperata, quasi impossibile da affrontare, ha invece prodotto l'effetto di compattare Israele; la solidarietà della grande famiglia ebraica nel mondo nei confronti dello Stato ebraico ha risvegliato, riscoperto, non solo l'identità ma anche e soprattutto l'appartenenza a un grande popolo. Si è creata una grande coscienza collettiva.
L'antisemitismo a macchia d'olio, Hamas, l'Iran e Hezbollah hanno paradossalmente rafforzato questo senso di appartenenza che molti, troppi ebrei avevano smarrito: ci siamo ritrovati più vulnerabili ma più uniti.
La tregua, a nord con Hezbollah in Libano e a sud con Hamas, con il progressivo rilascio parziale degli ostaggi e la contemporanea liberazione di centinaia di terroristi anche ergastolani che si sono macchiati di atrocità nei confronti di civili, ha determinato non solo la gioia di avere riportato a casa qualcuno in vita, ma anche una sensazione di speranza per una situazione che sembrava inestricabile. Al sollievo però si sovrappone un dolore collettivo che si aggiunge a quello dei familiari.
Quello che è accaduto e che purtroppo non si è ancora concluso deve rappresentare un monito a non lasciarsi sopraffare dal dolore, ma a trasformare questa angoscia, questa ferita che non rimargina, in una capacità di ricostruzione interiore e mantenere viva la speranza di una società migliore.
Dal miracolo di Hanukkah al 7 ottobre, dalla guerra al rilascio parziale degli ostaggi il nostro merito deve essere quello di non spegnere mai la luce della speranza.
Il popolo ebraico ha sempre rispettato e onorato la sua Storia.
Lo farà anche questa volta.
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L’AMORE di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 04 gennaio 2025
La Parashà di Vayshev (Genesi) offre ottimi spunti di riflessione sulla complessità dell'Amore nella tradizione ebraica: questo importante capitolo della Torah affronta direttamente e indirettamente tutte le sfumature e le accezioni di questo sentimento che spesso non riusciamo a definire e a spiegare.
L'amore preferenziale di Giacobbe per Giuseppe genera l'odio nei suoi fratelli; se non è saggio e bilanciato l'affetto e l'amore possono creare gelosie e rancore fino alle estreme conseguenze.
In Vayshev la gelosia dei fratelli di Giuseppe arriva fino al punto di venderlo come schiavo. Da qui l'insegnamento che l'amore all'interno della famiglia deve essere all'insegna dell'unità e del rispetto.
In questa Parashà troviamo anche l'Amore come desiderio, personificato da Potifar che tenta di sedurre Giuseppe, ma inutilmente, perché l'Amore morale di Hashem deve essere giusto e non mero desiderio sessuale. Il comportamento irreprensibile di Giuseppe fa sì che il Signore rimanga sempre con lui con un amore incondizionato che rappresenterà il punto di forza nei suoi comportamenti futuri.
L'Amore, se non è un sentimento equilibrato e rispettoso, può tramutarsi in un fattore distruttivo della nostra vita.
Da queste premesse bibliche si può affermare che l'Amore nella vita ebraica abbraccia tutti e tutto, è universale.
Il "Tikkun Olam" (la riparazione del mondo) incoraggia l'Amore e il bene comune per tutti, non solo agli ebrei.
L' Ahavà (Amore) non è un concetto astratto, ma un sentimento seguìto da comportamenti concreti, tangibili ; siamo lontani dal pensiero "romantico" dell'amore, un po' fine a se stesso.
Nell'ebraismo ha la forza di collegare l'uomo a D.o, non solo ad altri esseri umani : è una interazione tra l’uomo e Hashem.
Tra persone appartenenti alla stessa identità ebraica l'amore si manifesta con le proprie esperienze individuali ; il matrimonio ebraico è "solo" la straordinaria e inevitabile conclusione del processo di innamoramento nei confronti di un individuo della propria comunità, ma è anche il momento iniziale per esplicitare in modo concreto il proprio Amore.
Come sempre nell'ebraismo, dalla spiritualità bisogna passare all'azione pratica, reale, con un comportamento che sia coerente e concreto allo stesso tempo.
Il Comandamento "Ama il tuo prossimo come te stesso" è la base, il principio fondante dell'Amore in tutte le sue espressioni, in tutti i suoi significati. Nel matrimonio si mostra con il rispetto reciproco; non a caso nel Talmud è scritto che l'uomo deve amare e rispettare la moglie più di se stesso : il matrimonio rappresenta l'unione tra il popolo ebraico e D.o.
L'Amore è una rappresentazione multidimensionale nella tradizione ebraica e Hashem è l'aspetto fondante, iniziale per essere esplicato nella sua forma.
La preghiera dello Shemà (Amerai il Signore...) è l'esempio più forte, emblematico, di come si evolve l'Amore nell'ebraismo; attraverso l'avvicinamento di Hashem "costruiamo" l'Amore in tutte le sue espressioni : l'amore e il rispetto per il prossimo, quello coniugale e quello per la propria comunità.
La passione e l'attrazione nei confronti di una persona è sempre vista tramite l' intercessione di D.o : l'amore e la passione verso il Signore si riflettono poi in un amore e desiderio genuino, puro, che trascina il mondo verso un comportamento moralmente accettabile. C'è una interazione tra l'Amore spirituale e l'Amore terreno.
Anche il Talmud lega la passione individuale per un'altra persona con l'Amore per il prossimo, per il bene comune, mai egoistico. È un amore che necessita di equilibrio...
Ogni individuo deve incanalare la propria passione come una forza che avvicina l'individuo a D.o e viceversa.
La passione è un’emozione profonda, che si rivolge ad Hashem ma anche verso i nostri simili : è una forza che, se bene orientata, è positiva, costruttiva.
Lo studio della Torah è la conseguenza della passione umana: è il mezzo per avvicinarsi ad Hashem ; non è un valore a se stante ma sempre legato a D.o.
L'intimità, il sesso, sono una parte importante della vita ebraica, sempre regolata da leggi che riportano a una connessione spirituale con D.o.
Tramite l'amore terreno, umano, comprendiamo l'amore di Hashem che nutre per noi (Rav Jonathan Sacks).
L'Amore avvolge ogni aspetto vitale creando un collegamento unico, speciale, tra l'uomo e D.o.
Ecco come si spiega l'amore del nostro popolo per la vita: nelle sue espressioni più disparate rappresenta l'energia che manda avanti il mondo. Soprattutto per noi ebrei l'amore rappresenta uno stimolo ineludibile per affrontare le millenarie difficoltà nella Diaspora e fuori.
E in Israele le persone, i giovani si amano, e si sposano a dispetto della guerra più lunga dalla creazione dello Stato d'Israele.
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IDENTITÀ E APPARTENENZA
di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 8 dicembre 2024
Pochi giorni fa, in uno dei miei brevi periodi romani, sono andato alla splendida festa per il centenario della fondazione della Scuola Ebraica di Roma. Erano presenti molte autorità pubbliche, tra le quali spiccavano il Sindaco di Roma e il Presidente della Regione Lazio. È stata anche ufficializzata la cessione del Comune di Roma alla Scuola Ebraica dell'edificio di Via S. Ambrogio, attiguo alla sede attuale della scuola; con una gigantesca donazione da parte della Fondazione Lauder, della fondazione Yael e di altri anonimi donatori si potrà ristrutturare il nuovo edificio acquisito. Questi soldi, in un periodo di rinnovato antisemitismo, serviranno anche a garantire il rinnovamento e la crescita culturale di una scuola che già sfiora l'eccellenza.
Il Rabbino Capo Di Segni, nel suo intervento, ha fatto giustamente notare come Ernesto Nathan, sindaco ebreo di Roma, pensò e fece realizzare il Tempio Maggiore di Roma ma si dimenticò della Scuola Ebraica, spina dorsale della continuità culturale e religiosa degli ebrei romani. A questa mancanza sopperì venti anni dopo Vittorio Polacco, già Senatore del Regno d'Italia, per organizzare luoghi di studio per accogliere studenti ai quali trasmettere l'insegnamento della Torà come nozione di vita e di comportamento, e per acquisire il senso di appartenenza nei confronti della Comunità Ebraica.
Nella scuola ebraica si deve imparare a essere ebrei ma anche a vivere una socialità ebraica: quest'ultima è un elemento essenziale, fondamentale per esplicare la propria identità ebraica.
L'inviato della Fondazione Lauder, principale donatrice, con il suo intervento ha avuto parole lusinghiere nei confronti della Scuola e della Comunità Ebraica di Roma, mettendo l'accento che è sì una piccola comunità ma è famosa per la sua capacità di essere una comunità tradizionale e nello stesso tempo aperta alle istanze del mondo circostante. Questo grande riconoscimento è la chiave della tradizione ebraica romana.
Questo intervento ha stimolato in me alcune riflessioni: io, che per buona parte dell'anno vivo in Israele, credo che il grande problema nella Diaspora sia la confusione che noi ebrei troppo spesso facciamo tra "identità ebraica" e " senso di appartenenza". Questa confusione è spesso la causa dirompente dell'assimilazione.
Come ci fa notare Rav Michi Nazrolai in una delle sue lezioni intitolata " Che cosa fa di un ebreo un ebreo?", l'ebreo, secondo la Torà e il Talmud rimane ebreo anche se non rispetta i precetti, anche se li trasgredisce.
Nel Levitico è detto: "Hashem abita tra noi in mezzo alle nostre impurità", cioè il Suo rapporto con noi rimane invariato, indipendentemente dal nostro comportamento.
Chi è ebreo è e rimane ebreo.
Il problema invece è il futuro dell'ebraismo nella Diaspora.
Si è ebrei per fattori oggettivi: appartenere al popolo ebraico implica la discendenza, ma anche la storia, il modo di riconoscersi nella tradizione ebraica, il legame con Eretz Israel, l'osservanza delle mitzvot (precetti).
Nella Diaspora, molto più che in Israele, tutto ciò è una condizione necessaria ma non sufficiente per rendere il nostro ebraismo "pieno" e compiuto, a prova di assimilazione dal mondo circostante.
Si tratta del Senso di Appartenenza.
Non si può essere pienamente ebrei senza essere parte integrante di una comunità. Rispetto all'identità ebraica questo è un concetto più pragmatico, legato alle relazioni che abbiamo o meno con gli altri membri della società ebraica circostante.
La partecipazione alla vita comunitaria, come andare in Sinagoga o essere partecipi alle varie attività comunitarie, rappresenta il vero antidoto contro l'assimilazione e la dispersione delle nostre tradizioni.
Partecipando si forma gradualmente un’interazione e un sostegno reciproco tra i membri della comunità, che a loro volta creano un circolo virtuoso rendendo la comunità più coesa e i valori condivisi molto solidi, fortificando l'identità individuale.
Chi crede che nella Diaspora si possa fare a meno di appartenere, di partecipare alle dinamiche del mondo ebraico della propria comunità è destinato, prima o poi, a perdere anche la propria identità ebraica.
In Israele è tutto più facile: il senso di appartenenza è scontato, direi superfluo, perché si vive in una società circostante a maggioranza ebraica.
In Israele sono le altre minoranze a doversi "difendere", creando un loro legittimo sostegno reciproco.
L'identità ebraica nella Diaspora, soprattutto in un periodo di antisemitismo dilagante in Europa, non può rimanere "intima", solitaria: per resistere c'è bisogno di una massiccia partecipazione collettiva.
La convinzione che si può rimanere ebrei restando isolati e avulsi dalla comunità ebraica è un concetto perdente.
Un comportamento individualista comporta l'estinzione degli ebrei fuori da Israele.
L'identità ebraica ha bisogno di "alimentarsi" dal mondo ebraico che lo circonda per poter sopravvivere.
Chi non ha chiaro questo è destinato a perdere, con un break generazionale, la propria identità ebraica.
Creare un forte e appassionato Senso di Appartenenza è l'unico modo di sopravvivenza in Galut (Diaspora, Esilio).
Voglio concludere con un commosso e affettuoso ricordo di Marika Kaufmann Venezia che ci ha lasciato ieri.
Lei e Shlomo sono stati cari amici dei miei genitori e ho ancora vivo il ricordo passato con loro e con i figli Mario, Alessandro e Alberto.
Marika e Shlomo sono stati un esempio di resilienza e di come si deve creare una famiglia ebraica.
Un esempio per tutti.
Shalom
Tel Aviv, 8 dicembre 2024
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GLI ANGELI
Traduzione dall’inglese a cura di Barbara de Munari
Gli angeli sono esseri soprannaturali ampiamente presenti nella letteratura ebraica.
La parola ebraica per angelo, mal'ach, significa messaggero, e gli angeli nelle prime fonti bibliche trasmettono informazioni specifiche o svolgono una funzione particolare. Nella Torah, un angelo impedisce ad Abramo di uccidere suo figlio Isacco, appare a Mosè nel roveto ardente e dà indicazioni agli Israeliti durante il soggiorno nel deserto dopo la liberazione dall'Egitto. Nei testi biblici successivi, gli angeli sono associati a visioni e profezie e ricevono nomi propri.
Fonti rabbiniche e cabalistiche successive ampliano ulteriormente il concetto di angeli, descrivendo un vasto universo di angeli con nomi e ruoli particolari nel regno spirituale.
Angeli nella Bibbia
Gli angeli compaiono in tutta la Bibbia. Nelle loro prime apparizioni, fungono da portatori di informazioni. Nella Genesi, un angelo appare ad Agar, la serva di Sara, e la informa che partorirà un figlio i cui discendenti saranno numerosi. Un incontro simile avviene più tardi con la stessa Sara, quando tre visitatori le portano la notizia che partorirà l'anno successivo. Quando Abramo si mette in viaggio per sacrificare quel bambino, suo figlio Isacco, è un "angelo di Dio" che grida a lui e gli ordina di non fare del male al ragazzo.
Tra le storie più famose di angeli nella Bibbia c'è l'incontro tra il patriarca Giacobbe e un angelo con cui lotta tutta la notte. Al mattino, quando Giacobbe chiede al suo avversario di identificarsi, l'angelo lo ammonisce di non chiederlo. In seguito, Giacobbe nomina il luogo P'niel, letteralmente "volto di Dio". Nello spiegare questa scelta, la Torah chiarisce che l'avversario che lottava era un emissario di Dio: "Ho visto un essere divino faccia a faccia, eppure la mia vita è stata preservata".
Nei libri dei profeti, gli angeli continuano a svolgere la loro funzione di messaggeri, ma sono anche associati a visioni e profezie. Un resoconto particolarmente dettagliato è registrato nel primo capitolo di Ezechiele. Il profeta incontra quattro creature (chayot in ebraico) che assomigliano a esseri umani, ma ognuna ha quattro facce (umano, leone, bue e aquila), quattro ali e le loro gambe sono fuse in una sola gamba. Una visione parallela è registrata nel 10° capitolo, solo che lì gli angeli sono descritti come cherubini.
Non tutte le figure angeliche nella Bibbia sono identificate come tali. I tre visitatori che andarono da Abramo e Sara sono descritti nel testo come anashim, o uomini, sebbene fonti rabbiniche indichino che fossero angeli. Allo stesso modo, l'angelo che apparve a Giacobbe è descritto semplicemente come ish, o uomo. Quando agli angeli biblici viene chiesto di identificarsi, rifiutano. Nel Libro dei Giudici, Manoah, il padre di Sansone, chiede il nome di un angelo che aveva profetizzato un figlio per la moglie sterile. L'angelo rifiuta, dicendo che il suo nome è sconosciuto. Nel Libro di Daniele per la prima volta nella Bibbia compaiono angeli con un nome: Gabriele e Michele.
Gli angeli nella letteratura rabbinica antica
La letteratura rabbinica espone in modo significativo la natura degli angeli e i loro ruoli nelle storie bibliche. Il Midrash identifica Michele, Gabriele, Uriele e Raffaele come i quattro angeli principali che circondano il trono divino, ognuno dei quali ha attributi particolari. Il Talmud identifica Michele, Gabriele e Raffaele come i tre angeli che visitarono Abramo per annunciargli che sua moglie avrebbe avuto un figlio. Sebbene la Bibbia registri che gli uomini mangiarono un pasto che Abramo aveva preparato per loro, i rabbini stabiliscono che il trio sembrò solo mangiare, poiché, essendo angeli, non sono esseri fisici, ma semplicemente gli assomigliano.
Il Midrash include molte fantasiose rappresentazioni di angeli. Secondo una fonte, Michele è fatto interamente di neve e Gabriele interamente di fuoco, ma nonostante la loro vicinanza non si danneggiano a vicenda, un simbolo del potere di Dio di fare pace nelle sue altezze elevate. Molteplici fonti midrashiche identificano Michele come il difensore celeste di Israele in contrasto con il demone Sama'el. E un altro Midrash descrive un dibattito tra gli angeli sulla creazione di esseri umani. In questo dibattito, l'angelo dell'amore è a favore della creazione di esseri umani, a causa della capacità umana di esprimere amore, ma l'angelo della verità non è d'accordo, temendo che gli esseri umani siano inclini alle falsità. A sostegno della creazione di esseri umani, Dio mostra agli angeli esempi di persone giuste dalla Bibbia, ma l'angelo della terra si ribella e nega all'angelo Gabriele la polvere di cui ha bisogno per la creazione di persone, temendo che gli esseri umani possano causare devastazione sulla terra. Anche l'angelo della Torah si oppone alla creazione umana, sostenendo che le persone non dovrebbero essere create perché soffriranno.
Il Talmud riporta un insegnamento secondo cui due angeli ministranti, uno buono e uno cattivo, accompagnano una persona a casa dalla sinagoga la sera dello Shabbat. Se trovano la casa della persona preparata per lo Shabbat, l'angelo buono dichiara: "Possa essere la Tua volontà che sia così per un altro Shabbat". E l'angelo cattivo risponde contro la sua volontà: "Amen". Se la casa non è preparata, accade il contrario: l'angelo cattivo esprime il desiderio che sia così per un'altra settimana e l'angelo buono risponde "Amen". Shalom Aleichem , un canto liturgico che accoglie gli angeli in casa prima del pasto dello Shabbat, è ispirato da questo insegnamento.
Come nel Midrash, gli angeli nel Talmud occasionalmente discutono con Dio, il che conferisce loro un grado di autonomia che complica la nozione di angeli come semplici messaggeri che realizzano obiettivi divini. I rabbini del Talmud potrebbero essere stati preoccupati che gli angeli sarebbero diventati oggetti di adorazione in sé e per sé, una preoccupazione che alcuni ritengono essere alla base di vari testi talmudici che indicano che le persone giuste possono eguagliare o persino superare la santità degli angeli. Nel Trattato Sanhedrin, il Talmud afferma che le persone giuste sono più grandi degli angeli ministranti.
La gerarchia angelica di Maimonide
Maimonide, studioso del XII secolo, dedica una sezione del suo Mishneh Torah alla natura degli angeli. Sono esseri incorporei, scrive, dotati di forma ma non di sostanza. Le descrizioni degli angeli come alati o fatti di fuoco, dice Maimonide, sono semplicemente visioni profetiche "enigmatiche", ovvero tentativi inevitabilmente inadeguati di descrivere l'informe e lo spirituale entro i confini del linguaggio umano.
Maimonide descrive una gerarchia di angeli a 10 livelli, con diversi tipi come creature sacre (chayot hakodesh ), serpenti volanti e portatori di carri. Tutte queste forme sono vive e conoscono Dio intimamente, scrive Maimonide, ma mentre tutte conoscono Dio più profondamente degli esseri umani, persino il più elevato tra loro, sapendo più di tutti quelli sottostanti, non può conoscere la piena verità di Dio.
Angeli nella Cabala
La tradizione mistica ebraica si dilunga ulteriormente sulla natura degli angeli. Le fonti cabalistiche descrivono gli angeli come forze di energia spirituale. Il rabbino David Cooper, che ha scritto ampiamente su Cabala e meditazione ebraica, ha descritto gli angeli come “fasci di energia metafisica invisibili” che agiscono come magneti, causando cambiamenti fisici per mezzo di forze invisibili all’occhio.
Nella Cabala, gli angeli risiedono nei mondi di beriah (creazione) e yetzirah (formazione), i due mondi centrali dei quattro mondi della Cabala, che rappresentano gli stadi spirituali attraverso i quali l'energia divina viene condotta verso il basso nel mondo materiale. Nella sua opera classica sulla Cabala, The Thirteen Petalled Rose, il rabbino Adin Steinsaltz scrive che il comportamento umano può creare angeli. In una controparte del modo in cui gli angeli biblici portano messaggi dal regno divino verso l'umanità, gli angeli creati dalle azioni umane trasportano le energie dell'umanità verso l'alto nei regni spirituali superiori.
Gli angeli sono singolari e immutabili nelle loro essenze, scrive Steinsaltz, e possono essere buoni o cattivi (demoni), questi ultimi sono il prodotto di esseri umani che fanno l'opposto di una mitzvah, ovvero covano pensieri malvagi o commettono atti di malvagità. Come gli angeli buoni, anche gli angeli malvagi agiscono in un duplice modo, portando il male dal mondo spirituale a quello materiale ispirando il peccato o causando sofferenza e punizione, mentre ricevono anche energia dalle malefatte degli esseri umani. "Certo, se il mondo sradicasse completamente ogni male, allora, come una cosa naturale, gli angeli sovversivi scomparirebbero, poiché esistono come parassiti permanenti che vivono sull'uomo", scrive Steinsaltz.
"Ma finché l'uomo sceglie il male, sostiene e nutre interi mondi e dimore del male, tutti attingendo alla stessa malattia umana dell'anima".
[Fonte MJL]
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IL PENSIERO COME MEZZO PER ALLONTANARSI
DALL'ORRORE ESTREMO
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
Dicembre 2024
Il pensiero critico è uno strumento di resistenza alla disumanità, spiega il filosofo Ezequiel Burstein, che cerca di pensare l'impensabile dopo il 7 ottobre. In questa rubrica pubblicata inizialmente in Argentina, analizza i limiti del linguaggio e della rappresentazione di fronte al male radicale, non senza criticare silenzi o giustificazioni ideologiche.
Che cosa succede quando l'esperienza ci allontana dalle nostre certezze più basilari e supera la nostra capacità di concettualizzare la realtà? Dopotutto, concettualizzare è in un certo senso chiamare le cose con il loro nome: istituzione del simbolico dal caos del fenomenico, per comprendere e apprendere il mondo che ci circonda. Ma cosa succede quando ci imbattiamo in un limite radicale che, come un colpo – sordo ma certo – ci viene imposto dall’esterno e ci priva di ogni capacità di dare un nome alla realtà? Che cosa dovremmo fare con il materiale della nostra percezione, se non possiamo elaborarlo intellettualmente? Questa sensazione paralizzante di non riuscire nemmeno a dare un nome a ciò che vediamo è ciò che in teoria è noto come il problema dei limiti della rappresentazione, in particolare negli studi sull'Olocausto e su altre esperienze del male radicale del recente passato.
Proprio il non saper gestire linguisticamente l'esperienza di ciò che percepiamo ci mette in una situazione di ansia di fronte a quello che, fino allora, costituiva il nostro strumento simbolico fondamentale: il linguaggio. Sperimentare il limite della nostra capacità espressiva di fronte a ciò che non riusciamo a collocare in una catena simbolica del conosciuto non è un fenomeno quotidiano, è dell'ordine dell'inaspettato, è destabilizzante. Ci fa perdere l’orientamento e, per questo, ci mette ansia. Non capire è angosciante; non capire è frustrante: una possibile spiegazione per le sensazioni che molti di noi provano dal 7 ottobre.
Non capiamo come una persona possa deliberatamente tagliare la gola e bruciare vivi bambini e neonati; non capiamo come una persona possa prestarsi all'omicidio dei genitori davanti ai figli, dei nonni davanti ai nipoti; come si possa violentare le adolescenti e poi esibirle davanti alle masse che filmano e festeggiano, traboccanti di sadismo e oscenità. Non capiamo. Tutti questi atti barbarici, compiuti con l'esplicita intenzione di essere trasmessi e riprodotti quante più volte possibile. Nessuna maschera, nessun occultamento. Nessun respingimento. Viralizzazione deliberata, diffusione contagiosa del male peggiore, propagazione all'infinito.
L'idea che necessariamente s’impone in primo luogo, è quella della follia, del delirio: per realizzare queste azioni, sembra che sia necessario un radicale lasciarsi andare. Il termine “delirio” trova la sua etimologia in campagna: designa uno spostamento rispetto alla “lira”, il solco in cui viene seminato quello che poi diventerà il raccolto; un atteggiamento irrazionale, poiché implica una perdita inutile nel guadagno futuro. Delirio, dunque: irrazionalità totale come modo di una spiegazione dei fatti che, a prima vista, non ravvediamo.
Non capiamo nemmeno come persone apparentemente pensanti, favorevoli alla difesa dei diritti umani, sedicenti progressiste (in riferimento, ovviamente, al progresso dell’umanità), abbiano preso e continuino a sostenere la vergognosa decisione etico-politica di non denunciare pubblicamente gli avvenimenti del 7 ottobre. In considerazione delle molteplici espressioni di personalità politiche, culturali e intellettuali legate all'ambito della “sinistra”, il rapporto, sempre complesso e delicato, tra antisionismo (posizione critica o spesso direttamente ostile nei confronti dello Stato di Israele) e antisemitismo (odio o pregiudizio contro gli ebrei) subisce una metamorfosi chiarissima. La totale assenza di condanna rivela graficamente il travestimento cinico della correttezza politica; è chiaro che coloro che sono incapaci di denunciare l'atrocità di questi crimini senza ricorrere a giustificazioni storiche e geopolitiche non sono altro che un'ulteriore espressione dell'antisemitismo come patologia sociale, endemìa storica dell'umanità. La particolarità, mi sembra, sta nel fatto che questo antisemitismo è accompagnato dall’epurazione ideologica delle teorie postcolonialiste che gli permettono di esistere senza destare il minimo sospetto.
La scelta personale e collettiva di dare priorità al sostegno di una leadership politica manifestamente criminale, terrorista, fondamentalista e intollerante conferma la logica dei doppi standard che attribuisce più importanza alle alleanze politiche che alla capacità umana più elementare, quella del giudizio razionale che consente la possibilità di empatia umana su qualsiasi strategia orientata dall’interesse. Il potere del desiderio, il potere dell'immaginazione: la fede in un'idea rassicurante mette in moto l'industria dell'immaginazione interna, funzionando come fondamento della pace interiore dell'individuo. Il Prozac morale quotidiano, l'analgesico ideale per la coscienza del soggetto benpensante.
Di fronte alle posizioni non condannanti che continuiamo a osservare, non posso che pensare che il desiderio abbia finito per prendere le redini della percezione, oscurando il discernimento e provocando la perdita di ogni forma di capacità critica. Il desiderio di credere come motore della più potente facoltà creativa dell'essere umano: la capacità immaginativa. “L’immaginazione crea, oggettiva in immagini, incarna. L’intelletto fa un pisolino sul morbido cuscino dell’immaginazione”, dice ingegnosamente il filosofo Ludwig Feuerbach. O questo è vero, oppure si tratta di posizioni permeate da un profondo e, ormai, esplicito antisemitismo. Non vedo davvero alcuna alternativa.
Cerchiamo di essere chiari: la situazione a Gaza è estremamente grave e ogni morte civile deve essere condannata. Non c’è spazio per ambiguità su questo punto. Le notizie di tutti i giorni sono disastrose e ci distruggono, di là dall’odio antisemita che infiammano. Ma c’è una differenza fondamentale: s’inseriscono nel contesto (deplorevole, certo) di una guerra concretamente provocata da un’aggressione non solo terribile ed esplicita, ma soprattutto molto puntuale; una guerra per la quale purtroppo non è prevista alcuna soluzione a breve termine, e che evidenzia ancora una volta l’urgente necessità di una soluzione politica tra Israele e Palestina che implica necessariamente l’esistenza di due Stati confinanti come la più importante garanzia per una pace duratura.
Questa situazione solleva, ancora una volta, la questione della natura della violenza e del suo intrinseco e iperbolico potere distruttivo; non vediamo immediatamente come la violenza non possa generare altra violenza. La necessità del rilascio e della restituzione degli ostaggi è importante quanto un cessate il fuoco che protegga la popolazione civile palestinese. Ma anche in questo caso improbabile, cosa fare con Hamas? Come puoi vivere nello stesso edificio con un vicino il cui primo scambio con gli altri comproprietari è dichiarare apertamente che vuole ucciderti e gettarti dal balcone in strada? Quale futuro di coesistenza pacifica può esistere con Hamas? Domande fondamentali che tutti noi che abbiamo un legame con Israele ci poniamo oggi.
Oggi ho fatto l'esercizio di rivedere alcuni video e foto del 7/10, disponibili su https://www.hamas-massacre.net/, uno dei siti che si è preso la briga di raccogliere tutto il materiale audiovisivo disponibile dell'attacco. Inutile dire che il contenuto è pesante; alcune parti sono molto difficili da guardare. Questo è quello che mi è successo.
La prima reazione alle immagini è dire di no: espressione verbale del rifiuto più elementare di ciò che la psiche sa che deve essere una barriera. Dire no: negazione della veridicità dei fatti, della condizione stessa di possibilità che siano quello che sono.
Un video di almeno dieci corpi senza vita e insanguinati ammucchiati uno sopra l'altro sul pavimento del festival Nova. NO. L'immagine di una coppia bruciata viva in un'auto; espressioni di orrore immortalate sui loro volti carbonizzati. NO. Un bambino bruciato vivo, irriconoscibile. No, no, no.
Il desiderio di negare ciò che vedo avviene in modo irrefrenabile; mi rendo conto che ne ho bisogno: è la mia unica risorsa per sopportare le immagini. La voce come enunciatore fonetico della negazione si rivela così un meccanismo psicologico di adattamento di fronte all'orrore.
La seconda reazione, ancora più fisica: voglia viscerale di vomitare, nausea. Rifiutare attraverso il tratto digestivo ciò che il corpo riceve sensorialmente attraverso gli occhi. Controdigestione etica come rifiuto ontologico: non posso consumarlo; quindi questo non può essere. Se l'essere umano è ciò che mangia, non può che fare di questa ingestione d’immagini una vera dieta di intossicazione per qualsiasi corpo che voglia vivere.
Che cosa fare con tante immagini, tanti stimoli che circolano sui social network e nei media? La deriva informatica imposta con la forza da algoritmi ritagliati su misura sulla singolarità di ciascun utente-consumatore. La sovrarappresentazione del male radicale contrasta con la mancanza di risorse intellettuali per comprenderlo.
Uno dei problemi cruciali qui è che così tante rappresentazioni stordiscono, assordano e rendono opaco ciò che cercano di chiarire. L'immagine nella sua riproduzione totale non fa altro che ostacolare il pensiero, perché segue la logica del non-stop: l'alimentazione non si ferma mai, ha sempre qualcosa di nuovo da nutrirci.
Il contenuto sembrerebbe sempre inesauribile, con un volume inversamente proporzionale alla capacità di attenzione del soggetto. “Nessuno può pensare se non si ferma”, ha detto Hannah Arendt in un’intervista. Una verità perenne.
Al posto della riflessione e della moderazione, la dinamica della riproduzione iterativa che tende all’infinito impone la necessità fittizia del bipolarismo: o siamo da una parte – il bene, la coscienza pulita – o siamo dall’altra – il male, la colpa. Ma questo posizionamento sconsiderato non può esistere senza la sua necessaria pubblicità, una condizione sine qua non di possibilità. Sembrerebbe che, secondo questa logica manichea e pericolosa, non si possa prendere alcuna posizione senza rispettarne allo stesso tempo il carattere eminentemente pubblico: bisogna scegliere da che parte stare, e non appena la si sceglie, bisogna comunicarla. Se non lo pubblico, non esiste; pubblico, quindi esisto come soggetto morale. Cartesianesimo woke del 21° secolo.
Questa dinamica di immediatezza risulta nell'impossibilità di qualsiasi posizione sfumata; la natura brutalmente effimera dei social network richiede una presa di posizione immediata. Di fronte al processo discorsivo del pensiero, che funge da mediazione linguistica tra sentimento e azione, l'opinione è immediata; non può essere altrimenti, lo esige la sua natura profondamente dicotomica. Il che ha l’ulteriore grave corollario di imporre il condizionale “se non sei con noi, sei con gli altri”. La disciplina morale come cancellazione di ogni dissenso, morte del pensiero critico e di ogni possibilità di dialogo.
Tuttavia, di fronte alla frustrazione dell’aporìa, è opportuno ricordare una frase che mi accompagna fin dall’adolescenza: “Con l’antisemitismo non discutiamo, lo combattiamo”. Perché questa frase? Perché è una frase che, nella sua semplicità, ci permette di cambiare atteggiamento nei confronti di ciò che ci è dato. All’improvviso il pensiero non è più semplice pensiero: diventa strumento di combattimento, arma contro la disperazione collettiva, possibilità di incontro. Insomma, pensare come prospettiva per il futuro, come apertura all'ignoto, all'altro. L'iniziale impossibilità di nominare si è trasformata nella possibilità di pensare. E di fronte all’impotenza generata dal delirio collettivo che sembra impadronirsi del mondo, un’ultima frase della Arendt da tenere a portata di mano: “È meglio essere in disunione con il resto del mondo che con se stessi, perché io sono un'unità. Altrimenti c’è un conflitto interno che diviene insopportabile”.
Testo inizialmente pubblicato sul quotidiano La Nación (Argentina), supplemento “Idee”, 30 dicembre 2023.
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