Durante la trasmissione in diretta della seconda semifinale dell’Eurovision Song Contest 2024, in corso a Malmö in Svezia, la Rai ha erroneamente diffuso in video le percentuali del televoto.

Si è così appreso che, al termine della votazione, Eden Golan per Israele era al primo posto con il 39,31 dei voti.

Noi, Ebrei in Israele, con la nostra proverbiale autoironia – che ci ha consentito di sopravvivere nei secoli a pogrom e stermini di vario genere – questa mattina ci diciamo di avere l’impressione che l'ebraismo italiano abbia dato in mano i cellulari anche ai neonati per arrivare al 39,31% dei voti italiani a Eden Golan (in Israele non potevamo votarla, per regolamento).

E ovviamente non è così, e ovviamente va benissimo così! Grazie!

 

Di certo, se la percentuale dovesse essere confermata a livello internazionale e anche nella serata finale, questo significherebbe che Israele ha un'altissima probabilità di vincere la competizione.

 

L’anello, le nuvole, il brano musicale che lei interpreta molto bene. Oltre a dare prova di una bellissima voce. L’anello, che tutto racchiude e conferma, il cerchio da chiudere, l’inizio e la fine, speriamo, di un orrore senza tempo, il vento, e la semplicità disarmante della mise di scena, con i due colori, il rosso e il bianco écru: Eden Golan diviene, con drammatica bellezza e naturalezza, l’icona incarnata della gioventù di un altro festival, quello di esattamente sette mesi fa.

 

Ammettiamo che, alla vigilia dell’Eurovision, la gioventù israeliana fosse sconfortata, se non pessimista: i sondaggi erano buoni, ma non ottimali.

Ma si doveva comunque partecipare e, senza isolarsi, resistere alle intemperie.

Questo non ci ha impedito di notare che alla presentazione di “October Rain” (prima versione della attuale “Hurricane”) nessun paese ha solidarizzato con Israele; che il timore della politicizzazione della manifestazione (come avvenuto due anni fa) era forte; che i fischi e le contestazioni durante le prove e dopo l’esibizione ci sono stati; che a qualcuno è stato permesso (o forse gli organizzatori non se ne sono accorti…) di salire sul palco ed esibirsi con una kefia legata al polso, e insomma: la gioventù ( laica) israeliana vorrebbe sentirsi internazionale, globale, ma si deve confrontare con la realtà occidentale.

 

Negli ultimi mesi ci è apparso sempre più chiaro chi è contro di noi, e non passa giorno senza che si smascherino forze malevole, potenze straniere, siti web e account sui social media che diffondono disinformazione e propaganda.

In un mondo dove le persone che non vivono in una democrazia sono più di quelle che vivono in un sistema democratico, anche noi abbiamo la responsabilità collettiva di riflettere con spirito critico su ciò che viviamo e lo facciamo, qui, cercando di fare sentire la nostra voce, con onestà e trasparenza.

E ci piacerebbe anche – come Israeliani - partecipare a uno dei più grandi esercizi democratici al mondo: l’Europa, e non dare l'Europa per scontata. Difenderla. Plasmarla. Viverla. Votarla.

Perché noi non diamo la Vita per scontata. La Difendiamo. La Plasmiamo. La Viviamo. E (quando possiamo) La votiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal nostro corrispondente da #Tel #Aviv,#Giuseppe #Kalowski.

In occasione delle Celebrazioni in corso in Israele per Yom HaShoah (5 – 6 maggio 2024) è stato proiettato domenica sera, 5 maggio 2024, presso il Centro di Quartiere “Beit iedei levanim” (lett. “Casa delle mani bianche”) del Comune di Tel Aviv il docufilm “#GIADO”.

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Giado, è una località a 180 chilometri a sud di Tripoli, dove la Comunità ebraica della Cirenaica corse il rischio di morire in pochi mesi, per malattie, malnutrizione e cattive condizioni di vita in un campo dove fu deportata per ordine di Mussolini. In un solo mese, dal 19 maggio al 21 giugno del 1942, 15 scaglioni di ebrei per un totale 2.527 unità furono deportati con l’accusa di “connivenza” con il nemico. Il campo, una vecchia caserma, era gestito dalle autorità italiane, con la presenza di qualche soldato tedesco e l’ausilio di ascari arabi.

Cinquecentosessanta persone, poco meno di un quarto della comunità ebraica della Cirenaica, perirono in pochi mesi per fame, sete, malversazioni e malattie. Il crimine fu consumato nell’isolamento e fuori dallo sguardo pubblico, contro una popolazione indifesa, duramente vessata dalle leggi razziste e provata dalla guerra.

Sarebbero morti tutti per l’epidemia di tifo, se le truppe alleate non avessero liberato il campo dopo la vittoria di El Alamein.

Il campo di Giado fu il peggiore dei campi di concentramento italiani in Africa settentrionale. Fu il più spaventoso dei campi di detenzione e di lavori forzati, dove per ordine di Mussolini nel febbraio del ’42 fu deportata l’intera popolazione ebraica della Cirenaica.

Nel gennaio del 1939, Italo Balbo aveva suggerito di “attutire” l’impatto della legislazione razzista nei territori coloniali poiché gli ebrei erano ormai da considerarsi dei “fantasmi morenti”, che non potevano comportare alcun pericolo per la metropoli. Grazie alle loro competenze, gli ebrei potevano essere “utili”. A differenza che nel ’39, Balbo ora affermava che “gli ebrei” sembravano “morti”. In realtà “non morivano” mai “definitivamente”…. [David Meghnagi, in MOKED].

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SINOSSI

Alla giovane età di 20 anni, Yosef Dadosh era tra i 3.000 ebrei mandati dalle loro case di Bengasi al campo di concentramento di Giado, situato nel cuore del deserto libico.

In condizioni estreme, ha coraggiosamente raccontato la vita nel campo attraverso un diario segreto.

Per sette decenni, il suo diario rimase chiuso in un armadio, nascosto al mondo, fino alla sua morte.

Il diario di Yosef offre una finestra straordinaria e rara sulla straziante routine di Giado.

Cattura le atrocità subite dai suoi abitanti in tempo reale, offrendo un resoconto intimo e agghiacciante della loro sofferenza.

Nonostante il suo impegno nel sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Olocausto degli ebrei libici e nella lotta per il suo riconoscimento da parte dello Stato di Israele, Yosef ha scelto di tenere nascosta la sua vicenda personale ai suoi stessi figli.

Con l’intento di dare vita a questa avvincente storia sullo schermo, è stato costruito e fotografato un modello unico del campo.

Attraverso l'uso delle animazioni, questo modello funge da ponte visivo, collegando i testi inquietanti del diario con la cruda realtà del campo.

Il film che ne risulta fonde l'accuratezza storica con un linguaggio cinematografico distintivo, offrendo un'esplorazione potente e coinvolgente del profondo viaggio di Yosef e dell'oscura eredità che si è lasciato alle spalle.

Un documentario importante, anche se, per forza di cose, non capillare.

Gli Italiani e i tedeschi diedero l’uno all'altro la responsabilità morale e penale del campo di Giado per evitare i risarcimenti.

Solo negli ultimi due decenni gli scampati hanno avuto un risarcimento dal governo d'Israele.

Da lì nacque una polemica per il trattamento avuto invece dagli ebrei in Europa.

Di seguito, il trailer del docufilm: https://go2films.com/films/giado/

[#Israele, #Documentario 2023, 55 minuti, Regia: #Golan #Rise, #Sharon #Yaish, Produttore(i): #Hagar #Alroey.

#Storia #Olocausto #MedioOriente #Attualità #Nuoveversioni #Sefardita].

 

 

ISRAELE  HA  BISOGNO DELLE  VOCI  DELLA  DIASPORA

 di Delfine Horvilleur , filosofa e rabbino.

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

 

 

Drasha dell'ufficio di Kol Nidré 5784 pronunciato dal rabbino Delphine Horvilleur a Parigi, il 24 settembre 2023

 

Forse dovrei iniziare questo sermone dello Yom Kippur chiedendovi “perdono”. Non semplicemente perché è il giorno dell'espiazione, ma per un motivo più semplice, che potrei esprimere in una sola frase: “Ho provato, veramente provato, a non scrivere il sermone che state per ascoltare. Ma non ci sono riuscita”.

 

Mi ripetevo continuamente che non era una buona idea, che era meglio parlare d'altro, che si rischiava di arrabbiarci...

 

E poi, mentre lo scrivevo, ho pensato molto a quella famosa vignetta di stampa, pubblicata all'epoca del caso Dreyfus. Certamente conoscete questa immagine: si vede una tavola ben apparecchiata e una cena serena, mondana e civile. Sotto il disegno c'è scritto: “Soprattutto! Non parliamo dell’affare Dreyfus!”. E nell'immagine successiva, il tavolo è rovesciato, i piatti sono rotti e gli ospiti si strangolano a vicenda. La didascalia specifica semplicemente in quattro parole, nel caso non l'abbiate capita: "...Ne hanno parlato...".

 

E io, questa sera, sento una voce dentro di me che mi dice: non parliamone...

E un’altra che risponde: sì, non hai scelta.

E che dice: pensa alla data di oggi, ricordatene!

 

Cari amici, questa sera, giorno solenne dello Yom Kippur in cui entriamo, siamo proprio in una data anniversario, a tutti nota. Esattamente 50 anni fa, al servizio del Kol Nidré 1973, tra poche ore sarebbe iniziata la terribile guerra che avrebbe portato per sempre il nome di questo giorno solenne: la Guerra dello Yom Kippur.

E lo so, alcuni in questa stanza sanno esattamente dove si trovavano quel giorno, chi ha dato loro la notizia, come, nel cuore stesso degli uffici, sono stati accesi i transistor, cercando di capire da dove provenisse l’attacco, pregato con preoccupazione e anche pianto. Chiedendosi perché Israele si fosse fatto sorprendere o non fosse forse impreparato. Migliaia di soldati sarebbero morti. Molti israeliani furono bombardati dall'esercito egiziano nel deserto del Sinai. Cinquant’anni dopo, il dolore è ancora vivo per molte famiglie che hanno perso i propri figli.

 

Parlerò chiaro, senza preamboli: in questi giorni, mentre pensavo a scrivere questo sermone, mi è sembrato di non avere scelta e che questa sera vi dovevo parlare di Israele... per parlarvi del dolore che molti di noi provano oggi di fronte alla terribile crisi che attraversa questo paese, all'estrema polarizzazione che ha portato al potere un governo e ministri di estrema destra, con un messianismo ultranazionalista e, di fronte a ciò, per settimane, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per esprimere la loro preoccupazione (e questo è un eufemismo) per la democrazia, la loro preoccupazione per l’aumento del fanatismo religioso, della violenza politica, la minaccia ai diritti delle donne, l’ascesa del fondamentalismo che improvvisamente chiede loro di coprirsi per strada o di sedersi in fondo all’autobus, che spinge altri a tollerare o nascondere la violenza dei giovani Ebrei contro i villaggi arabi, gli attacchi contro le minoranze. E l’ascesa di discorsi di supremazia o di violenza contro la diversità religiosa, contro le sensibilità ebraiche non ortodosse. E la messa in discussione delle istituzioni giudiziarie nel loro ruolo di contropotere, il moltiplicarsi di argomenti populisti o di rivendicazioni ultra-ortodosse.

 

Certo, molti di noi guardano tutto ciò con angoscia, ma anche con la forza di tutto il nostro attaccamento e il nostro amore per questo Paese e, per molti di noi, con la convinzione del nostro sionismo che, all’improvviso, fatica a ritrovarsi nei discorsi di coloro che rivendicano questo stesso amore per Israele o per il sionismo, con un progetto che è l’antitesi delle nostre aspirazioni.

 

Conosco a memoria tutte le resistenze e gli avvertimenti espressi da tutti contro coloro che, in diaspora, esprimono la loro critica al governo israeliano.

C’è chi dice: “Non è questo il nostro ruolo. Noi che non viviamo lì, non votiamo né prestiamo servizio nell’esercito”.

 

Quelli che dicono: “Laviamo i panni sporchi in famiglia. Non esponiamo al mondo difetti che renderebbero Israele vulnerabile ai nemici o alle persone mal intenzionate che cercano in ogni circostanza di distruggerlo”.

 

C’è chi dice: “Non siamo ingenui. Non dimentichiamo quali discorsi antisionisti e antisemiti possono essere pronunciati da così tanti leader che non ne “perderanno nemmeno uno per moltiplicare le ignominie”. Questa settimana, il leader palestinese Mahmoud Abbas ha espresso dichiarazioni chiaramente antisemite (rendo omaggio anche al sindaco di Parigi che gli ha immediatamente comunicato il ritiro della medaglia cittadina). E poi, appena tre giorni fa, il presidente tunisino ha dichiarato – tenetevi forte – che i disastri climatici che colpiscono il Nord Africa sono sicuramente un attacco sionista. La prova inconfutabile è che l’uragano Daniel ha un… nome ebraico. Lo so, è così grottesco che ti viene quasi da ridere.

 

E poi c’è chi, infine, dice: “Yom Kippur non è il giorno adatto per fare un discorso politico. È un giorno di unità, di consenso. Che senso ha sottolineare le tensioni tra noi o ricordarle alla nostra coscienza?”.

 

Tuttavia, cari amici, e pur conoscendo tutti questi argomenti, sono di fronte a voi in questo momento solenne, convinta che, più che mai e forse soprattutto questa sera, sia necessario parlarne.

 

Più che mai e soprattutto stasera, ISRAELE HA BISOGNO DELLE VOCI DELLA DIASPORA, di tutte le sue voci, comprese quelle più critiche. Quelle che parlano con la forza del loro amore e la solida convinzione del loro attaccamento a questo Paese. Quelle che parlano del disagio e del dolore che si sono impossessati di molti di noi.

Solo cinquant’anni fa, Israele, ancora ebbro dei miracolosi successi della Guerra dei Sei Giorni, dei territori conquistati e della forza del suo esercito, non si aspettava di percepirsi vulnerabile, di ritrovarsi inerme.

 

Al confine egiziano infuriavano i combattimenti e all'improvviso apparve un uomo inaspettato. Era venuto a visitare le truppe. Non so se conoscete la storia di questa visita, ma sicuramente conoscete questa persona. Il suo nome era LEONARD COHEN. Il famoso cantante Leonard Cohen accompagnò le truppe israeliane sul terreno. Ed è lì che l'uomo che scrisse il suo famoso HALLELUJAH quasi 10 anni dopo, compose un'altra melodia che senza dubbio conoscete.

Questa canzone che ha scritto durante la guerra dello Yom Kippur si chiama WHO BY FIRE?

 

Dice in sostanza: WHO BY FIRE? Chi morirà nel fuoco e chi nell'acqua, chi morirà in pieno giorno e chi quando scende la notte, chi morirà di fame e chi di sete, e la canzone struggente dice ancora e ancora e ancora: “Chi devo dire che sta chiamando?”, che significa in inglese (canadese) "Chi devo annunciare?".

 

Ma molti di voi conoscono queste parole, anche se non hanno mai sentito questa canzone di Leonard Cohen. Le conoscono se sono già stati qui, a Yom Kippur, in questa sinagoga o in un'altra.

 

Perché queste parole, appena ritoccate, sono tratte dal libro che avete tra le mani. Le canteremo domani mattina, nel cuore del servizio di Musaf. Nella preghiera solenne dell'Unetanneh Tokef è scritto:

“A Rosh Hashanah il giudizio è pronunciato e a Yom Kippur è sigillato”. E la liturgia ebraica continua così, come nel canto di Cohen, «Chi vivrà e chi morirà?»; “Chi dal fuoco? Chi dall'acqua? Chi a tempo debito e chi ben prima dell'orario previsto? etc.".

 

Ora lo capite: durante la guerra dello Yom Kippur, Leonard Cohen fu testimone dei terribili combattimenti sui campi di battaglia. Attingerà poi alla liturgia dello Yom Kippur per scrivere uno dei brani più belli del suo repertorio, una riflessione sulla vulnerabilità, sulla mortalità e sulla finitezza della nostra condizione umana.

 

E nessuna festività del calendario ebraico racconta questa consapevolezza meglio di quella in cui entriamo questa sera. Lo diremo ancora e ancora nelle preghiere: stiamo davanti a Dio, “senza vere buone azioni e senza potere”,“polvere e cenere” e consapevoli della nostra impotenza.

 

Cosa c’entra tutto questo con la questione di Israele, con la crisi che sta attraversando e con il malessere che molti di noi percepiscono oggi? Lasciatemici arrivare lentamente.

 

E, per farlo, fare una piccola deviazione nel calendario ebraico. Yom Kippur cade sempre nel mese di Tishri, nella stessa stagione dell'anno, ovviamente e sistematicamente nel momento in cui, nel rotolo della Torah, leggiamo gli stessi brani. Per dirla in altro modo, durante tutto l'anno, leggiamo la parasha della settimana, nella Torah, episodio dopo episodio, libro dopo libro del Pentateuco. Ma quando arriva Kippur, il momento del giudizio e dell’introspezione, continuiamo, anno dopo anno, a leggere lo stesso passo della Torah.

 

Entriamo nei “giorni terribili” durante la lettura nella sinagoga del libro del Deuteronomio, l'ultimo libro del Pentateuco, che a volte viene chiamato il “testamento di Mosè”.

Insomma, se siete venuti in sinagoga nelle ultime settimane (non importa in quale Shabbat), avrete sentito leggere il libro del Deuteronomio. E i nostri saggi ci dicono: assicuratevi di mettere in dialogo il messaggio del Deuteronomio con i giorni terribili.

 

Allora cosa dice questo libro? È un messaggio che Mosè rivolge agli ebrei, al popolo radunato alle soglie della terra promessa dove si prepara ad entrare. Mosè sa, in questo momento del racconto, che non entrerà in Israele: è un uomo della Diaspora, è nato in Egitto e morirà nel deserto. Non metterà mai piede nella terra promessa. Ma in questo libro rivolge raccomandazioni, avvertimenti, dalla Diaspora, agli uomini e alle donne che si preparano a stabilirsi lì.

 

Naturalmente questi uomini e donne dovranno essere forti e combattere, lottare e fare guerre per stabilirsi, ma questo non è il messaggio che Mosè trasmette loro. Invece, metterà ripetutamente in risalto tre idee, e si tratta di ciò che potremmo chiamare “la lezione del Deuteronomio”.

 

Mosè disse agli Ebrei:

“Verrà il giorno in cui vi stabilirete pacificamente su questa terra. Verrà il giorno in cui avrete la sovranità su questo territorio e, in quel momento, vi succederanno diverse cose”.

 

“In primo luogo”, dice Mosè, “quando sarete proprietari terrieri, dovrete assolutamente raccogliere le primizie dei vostri campi e, subito, portarle al Sommo Sacerdote, dargliele e privarvene. E poi dovrete dire: il mio antenato era migrante”.

Frase strana per una persona sedentaria, vero? Strano modo di celebrare il tuo raccolto sbarazzandosene.

 

Ma non è tutto.

Secondo messaggio dal libro del Deuteronomio: Mosè disse agli Ebrei “Verrà un giorno in cui vi stabilirete su questa terra. E subito vorrete mettere alla vostra testa un re, un capo, un condottiero, proprio come fanno le altre nazioni. Badate dunque”, continua Mosè, “che questo re non sia troppo arrogante. Assicuratevi che non abbia troppi soldi, troppe donne o troppi cavalli”.

La traduzione di questa allegoria è: assicuratevi, dice Mosè, che il vostro leader non sia troppo ossessionato dal suo potere, finanziario o militare (rappresentato qui dai cavalli) o dal potere politico (simboleggiato dalle donne, cioè dalle alleanze contratte con altri territori).

 

E poi, il terzo avvertimento del libro del Deuteronomio, e questo continua a ripeterlo: Mosè disse agli ebrei “Avverrà che, stabilendovi nella vostra terra, diventerete idolatri e adorerete altre divinità locali”. Queste divinità cananee, nel libro del Deuteronomio, hanno un nome particolare. Sono chiamate Bealim. Il culto di Baal è il servizio di un dio cananeo. Sì, ma questa parola, in ebraico, significa un'altra cosa: Baal significa “proprietario”. Il culto di Baal, in ebraico, è quindi letteralmente il culto del possesso, della proprietà.

 

Mi fermo qui un attimo per fare risuonare le parole, che non sono le mie, ma quelle del libro che leggiamo oggi in tutte le sinagoghe, queste parole che devono essere lette ogni anno, prima di entrare nello Yom Kippur. Il popolo alle porte della terra promessa e noi, alle porte dei giorni terribili, dobbiamo sentire le stesse cose:

– Ogni sovranità è accompagnata da minacce, semplicemente perché ogni forza e ogni insediamento sono accompagnati da minacce: la minaccia di credersi proprietario, la minaccia di idolatrare il possesso, o la forza militare, o il potere finanziario, o il culto del leader…

– E poi, Mosè insegna, in modo paradossale e potente, che la prima cosa che un proprietario può fare sulla terra è essere pronto a cedere parte della sua proprietà, a dare un po’ dei frutti del suo campo, e di ricordarsi della sua migrazione, cioè la sua fragilità e tutto ciò che i suoi antenati non possedevano.

 

E mentre leggo questi testi, settimana dopo settimana nella sinagoga, non smetto mai di pensare a ciò che lacera oggi il popolo di Israele e questo Paese a noi tanto caro. Il modo in cui, bisogna ammetterlo, per alcuni il sionismo è divenuto sinonimo di potere, potenza, proprietà, e il modo in cui un partito di estrema destra, oggi al comando in posizioni chiave, si è dato un nome strano: il partito di Itamar Ben Gvir. Il partito si chiama “Otzma Yehudit”, “il potere ebraico”. Ma che potere è questo? Dove ci porterà esattamente nella Storia?

 

Ed è così che oggi i leader politici pretendono di rappresentare i valori ebraici, di difendere uno Stato ebraico, anche se non democratico, vestendo il loro ebraismo con nomi o discorsi che potrebbero facilmente essere definiti problematici per una certa saggezza ebraica biblica o rabbinica. Una saggezza della vulnerabilità e una consapevolezza di un dialogo necessario, dentro di noi, tra potere e impotenza.

 

E so cosa pensano, o sicuramente diranno, alcuni qui: Israele è minacciato, e forse non può permettersi il lusso di essere indifeso, fallibile e vulnerabile. Deve essere forte e impegnato in una lotta per la sopravvivenza da decenni sì…, certamente,eppure, al di là di questa minaccia esterna, ce n’è una ancora più terrificante, quella che la Storia ci ha già insegnato.

 

Perché questa situazione non è priva di precedenti storici. Già due volte gli ebrei hanno sperimentato la sovranità sulla terra di Israele e hanno guidato una forma statale, vale a dire un potere politico, una continuità territoriale, un esercito e tutto ciò che costituisce una sovranità piena e completa.

 

Una piccola lezione di storia.

Quasi 3.000 anni fa, in Israele si stabilì la prima sovranità ebraica: una continuità territoriale, un esercito, un leader tra i più conosciuti. Questo re si chiama Davide e, dopo aver sconfitto Golia, instaura un regno che unisce i territori della Giudea e di Israele, e fa di Gerusalemme la sua capitale. Davide regnò su Gerusalemme per 33 anni, suo figlio Salomone gli successe e regnò per 40 anni. Il regno è potente. Il figlio di Salomone, un certo Rehovoam, assumerà il ruolo di leader: è la terza generazione che conosce il potere e l'insediamento. Sotto il suo regno, le tribù d'Israele si dividono, il popolo combatte al proprio interno... E così, nel giro di due anni, solo due anni, i regni di Giuda e di Israele divengono nemici e si separarono l'uno dall'altro. . Fine della prima sovranità ebraica su tutto il territorio. Sono passati in tutto solo 75 anni.

Circa mille anni dopo, si instaura una seconda sovranità ebraica: sul paese regnano i re Asmonei, gli eredi dei Maccabim e della storia di Hanukkah. Questa monarchia, fondata nel 140 a.e.v., stabilì la piena sovranità, ricca e potente. Essa durerà fino al 63 a.e.v, quando, dopo lotte interne alla popolazione ebraica, Pompeo e i Romani presero il potere su Gerusalemme. Fine della sovranità: sono passati 77 anni.

E si dovrà attendere il 1948 per vedere emergere una terza sovranità, quella dello Stato di Israele che conosciamo.

 

Ma sentiamo risuonare queste cifre terrificanti: la prima sovranità durò 75 anni, e la seconda appena 2 anni.

E adesso la terza viene oggi divorata dagli stessi scontri, dagli stessi fanatismi che rinascono, di visioni del mondo, di ebraismo e di sionismo che non riescono a conciliarsi. E ora Israele ha 75 anni, l’età in cui tutte le sovranità precedenti sono crollate. C'è una maledizione? Siamo tragicamente condannati a ripetere uno scenario catastrofico?

Riusciremo finalmente a trovare come non separare Giuda e Israele, come non vedere crollare una casa a noi così cara?

 

Scusatemi. Desideravo tanto non scrivere il sermone che ho appena pronunciato. Ma non ci sono riuscita. Credo che oggi tutti noi dobbiamo affrontare una sfida. Quelli, certo, che vivono lì e che devono trovare il modo di convivere, ma anche noi che viviamo lontano da lì, che abbiamo a cuore il futuro di Israele e che abbiamo il dovere, mi sembra, di far risuonare la voce del Deuteronomio, quella di Mosè che, dalla Diaspora, parla a un popolo in cammino verso l'insediamento.

 

E magari dirgli, fuori dallo Stato di Israele: “Accadrà che una volta insediato nella tua terra, tu creda di essere forte ma che, all'improvviso, tu percepisca la tua fragilità... Accadrà che risuonino voci apparentemente inconciliabili, tribù che si odiano e aspirano a separarsi, e dovrete allora, più di ogni altra cosa, avere cara non la forza ma la fragilità, non cercare l’unità, ma rispettare le voci dissonanti che risuonano dentro di voi e che possono ancora trovare una via di dialogo”.

 

È questo stesso insegnamento che, a suo modo, un uomo di nome Leonard Cohen, che non era un combattente dell'esercito israeliano, fece risuonare nelle orecchie dei soldati su un campo di battaglia, 50 anni fa. Siate consapevoli della vostra forza, ma anche della vostra fragilità.

Diffidate del potere quando vi porta semplicemente a volervi schiacciare l’un l'altro. Perché, altrimenti, chi dovrei annunciare? Quale terribile futuro potrebbe aspettarci?

 

Molto più tardi, questo stesso cantante scriverà uno straordinario HALLELUJAH e tante altre canzoni che sono, secondo me, vere e proprie preghiere….

Una di esse dice quanto segue:

“C’è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che si insinua la luce”.

 

Nel cuore dell'oscurità della notte dello Yom Kippur, nel cuore dell'oscurità del mondo che ci circonda, facciamo in modo, ovunque ci troviamo, di lasciare passare un po' di luce attraverso di noi, attraverso i nostri dubbi e le nostre convinzioni.

 

Possiamo noi essere scritti nel Libro della Vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fede dopo l'Olocausto

La gente a volte mi chiede: dov'era Dio ad Auschwitz? Non lo so, ma dal punto di vista ebraico è la domanda sbagliata. La vera domanda è: dov’era l’umanità ad Auschwitz?

Dio non ha mai detto che ci avrebbe impedito di farci del male a vicenda, ma ci ha dato un codice morale, comandamenti incisi nella pietra che ci hanno insegnato come fermarci. Dov’era l’umanità quando vecchi e donne erano assassinati, milioni erano gassati, bambini gettati nelle fiamme, ancora vivi?

La vera domanda, così dolorosa che difficilmente possiamo porla, non è dov’era Dio quando lo abbiamo chiamato, ma dov’eravamo noi quando Lui ci ha chiamato?

Questo è ciò contro cui la Bibbia mette in guardia nel primo capitolo, quando Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. Quando la vita umana non è più sacra, Auschwitz diventa possibile.

Shalom Katz era uno dei cinquanta prigionieri cui era stato ordinato di scavare la propria fossa e poi mettersi di fronte ad essa per essere fucilati. Prima che le armi fossero alzate, chiese alle guardie il permesso di recitare Kel malei rachamim, la preghiera ebraica per i morti.

Fu concesso. La cantò e le guardie furono così commosse dalla bellezza della sua voce che lo portarono fuori dalla fila e lo mantennero in vita perché cantasse per loro.

Quando Auschwitz fu liberato, cantò una seconda volta la preghiera per tutti quelli che erano morti. “O Dio pieno di compassione, concedi riposo a coloro che se ne sono andati da questo mondo e proteggi le loro anime sotto le ali della Tua Presenza”.

Non dobbiamo mai dimenticare l’Olocausto. Mai più potremo percorrere la strada che inizia con l’odio e finisce con un tentativo di genocidio.

Verso la fine della sua vita, Mosè convocò gli Israeliti e disse: “Vi pongo davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Uvercharta bachaim. Scegli dunque la vita”.

Gli ebrei non disperavano; i sopravvissuti hanno costruito nuove vite, nuove comunità sono cresciute altrove, e nello Stato di Israele ci siamo riuniti di nuovo come popolo, costruendo uno dei paesi più antichi e nuovi del mondo e cantando: “Am Yisrael Chai, il popolo ebraico vive!"

Per me la fede dopo Auschwitz è il coraggio di vivere e di portare al mondo una vita nuova, senza mai dimenticare chi è morto ma senza mai cedere alla disperazione. Significa lottare per un mondo in cui riconosciamo che chi non è a nostra immagine è ancora a immagine di Dio. Significa ricordare, per il bene della vita, dell’umanità e della speranza.

E sui volti dei bambini ebrei vedo rinascere un popolo che ha camminato nella valle dell’ombra della morte, amando la vita, santificandola e sapendo che in essa c’è il soffio di Dio.

“Ricordati di noi per tutta la vita, o Re che godi della vita, e scrivici nel libro della vita per te, perché tu sei il Dio della vita”.

 

Hai fiducia nell'umanità dopo l'Olocausto?

Dopo l’Olocausto, sento di dover credere in Dio perché semplicemente non riesco a credere nell’umanità. L’Olocausto non ha avuto luogo in qualche secolo medievale. L’Olocausto non ha avuto luogo in qualche ottenebrato paese del terzo mondo. Si è svolto nel cuore stesso dell’Europa. Ha avuto luogo nella Germania di Goethe, Schiller, Kant, Hegel, Bach e Beethoven. Ha avuto luogo nel paese che si considerava il più civilizzato del mondo. Nel secolo che era ritenuto il più esaltante del mondo.

Ha avuto luogo nell’Europa illuminata ed emancipata. E non credere per un secondo che sia stata solo la Germania. Se nel 1900 ci si fosse chiesti quali fossero gli epicentri globali dell’antisemitismo, ci sarebbero state solo due risposte. Parigi, la Parigi dell’affare Dreyfus, e Vienna, la Vienna del sindaco notoriamente antisemita, Karl Luege.

Ora Parigi e Vienna erano le città cosmopolite più sofisticate del mondo, eppure erano leader mondiali nell’antisemitismo. E l’Olocausto non è stato guidato, schiacciato dalle masse. Il fatto è che più del 50% dei medici in Germania erano membri del partito nazista. Il più grande filosofo tedesco, Martin Heidegger, era un membro entusiasta del partito nazista. La più grande mente giuridica tedesca, Carl Schmitt, fu il teorico giuridico del regime nazista.

Gli ebrei furono licenziati da un giorno all'altro, ognuno di loro da tutte le professioni, dai tribunali, dalla legge, dalla medicina, dalla vita accademica, e nessuno protestò. E la verità è che se avessero protestato, quelle proteste sarebbero state efficaci, perché sappiamo che in realtà alcuni medici e alcuni leader cristiani hanno protestato contro il programma di eutanasia e questo è stato fermato. Ma nessuno protestò quando gli ebrei furono semplicemente, da un giorno all’altro, rimossi dalle professioni e dichiarati, di fatto, subumani.

Ora, queste erano le menti più importanti in Germania. La conferenza di Wannsee del gennaio 1942, che si risolse su  Der  Endlösung, la soluzione finale… più della metà delle persone sedute attorno al tavolo erano medici. Erano medici o dottorandi e furono loro a decidere la  Vernichtung, lo sterminio di tutti gli 11 milioni di ebrei d'Europa. Questo era il piano, che l’Europa nel suo complesso dovesse essere Judenrein, libera dagli ebrei.

Ora, non conosco nessuno che possa avere fede nell'umanità dopo di ciò. È sconvolgente e scioccante, e quindi sento che dobbiamo avere fede nell'unico Essere che ha elevato l'umanità verso gli angeli e lontano dai demoni. E questo è Dio. Per me, credere in Dio dopo l’Olocausto è difficile, ma necessario.

 

Dov’era Dio durante l’Olocausto?

La fede per me è un’esperienza intensamente personale, e chiaramente ci sono molte risposte alla domanda: “Dov’era Dio nell’Olocausto?”, ma tutto quello che posso fare è dirvi la mia. La prima volta che sono andato ad Auschwitz sono rimasto semplicemente sopraffatto. Mi trovavo ad Auschwitz-Birkenau sui binari del treno che portavano gli ebrei da tutta Europa a essere gasati, bruciati e ridotti in cenere. I nazisti in realtà misero in pericolo il proprio sforzo bellico per deviare i treni verso questo male implacabile per il bene del male. Ho attraversato lo Stammlager Auschwitz, ho visto le valigie, gli occhiali, gli occhiali, i capelli, i nazisti tenevano tutto. Valeva la pena conservare tutto, tranne una cosa: la vita umana.

Non potevo crederci. Hanno tenuto le valigie e hanno ucciso un milione e un quarto di persone, un quarto di milione di bambini. E poi ho visto le fotografie perché ad Auschwitz furono fotografate le prime persone che furono mandate ad Auschwitz. Naturalmente, si sono fermati abbastanza presto. Ma c'erano fotografie di bambini di quattro, cinque, sei anni. Ho avuto un crollo. Ho pianto e mi sono chiesto: “Dio, dov’eri?”

E mi sono venute in mente le parole. Non sto sostenendo che si trattasse di qualche tipo di rivelazione, ma questo è ciò che dissero: “Ero nelle parole: 'Non uccidere'. Ero nelle parole: "Non opprimerai uno straniero". Ero nelle parole che furono dette a Caino quando uccise Abele (il primo omicidio nella Bibbia). "Il sangue di tuo fratello mi grida dalla terra"».

E all’improvviso ho capito che quando Dio parla e gli esseri umani si rifiutano di ascoltare, anche Dio è impotente in quella situazione. Sapeva che Caino stava per uccidere Abele, ma non lo fermò. Sapeva che il faraone stava per uccidere i bambini israeliti. Non lo ha fermato. Dio ci dà la libertà e non ce la riprende mai. Ma Egli ci dice come usare quella libertà. E quando gli esseri umani si rifiutano di ascoltare, anche Dio è impotente.

E poi c’è la seconda risposta: questa mi è venuta dai sopravvissuti all’Olocausto, molti dei quali mi hanno detto che sentivano che Dio era personalmente con loro, dando loro la forza e il coraggio per sopravvivere. C'erano persone che persero la fede ad Auschwitz. C'erano persone che mantennero la fede e c'erano persone che ritrovarono la fede ad Auschwitz.

A mio avviso, una delle storie più commoventi è quella che Victor Frankl ha raccontato di se stesso.

Quando arrivò ad Auschwitz per prima cosa lo spogliarono di tutto, dei suoi vestiti, della sua identità e della cosa più preziosa per lui, a parte sua moglie e la sua famiglia, ovvero il libro che aveva scritto. Ha detto: "Quando me lo hanno tolto, la mia vita era finita".

E ovviamente, dopo che si erano presi i vestiti e li avevano mandati tutti a fare una doccia, lui si aspettava che quella fosse la morte. Ma è stato uno dei fortunati. Era solo una doccia. E poi gli hanno dato dei vestiti, vestiti di persone che erano state uccise. E ha indossato questi vestiti e ha trovato qualcosa in una delle tasche. Lo tirò fuori e vide che era un pezzo di carta. Era stato strappato da un Siddur, da un libro di preghiere.

E conteneva queste parole: " Shema Yisrael, Hashem Elokeinu, Hashem Echad ", Ascolta o Israele, il Signore tuo Dio, il Signore è Uno. “ Ve'ahavtu et Hashem Elokecha …”, E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. E Frankl disse: “Quelle parole mi hanno paralizzato. Mi stavano dicendo: 'Ora devi vivere ogni singola cosa che hai insegnato e praticato. Devi viverlo qui, ora, ad Auschwitz'”. E questo gli ha dato il coraggio di fare quello che ha fatto, ovvero dare alle persone la voglia di vivere. Quindi è lì che Dio era nell’Olocausto. Era nei comandamenti, nella santità della vita, che erano così crudelmente e inascoltati in maniera devastante, e nel cuore di alcuni sopravvissuti che trovarono Dio, dando loro la forza.

 

Quale pensi che dovrebbe essere la risposta teologica ebraica all’Olocausto?

Parlando da un punto di vista personale, la risposta ebraica più profonda all'Olocausto che conosco è Sefer Eichah, il Libro delle Lamentazioni, il libro scritto dopo la distruzione del Primo Tempio, la poesia del lamento, l'amaro lamento fino alla morte.

È uno dei pezzi letterari più brucianti mai scritti. E lo abbiamo detto in ricordo della perdita del Primo e del Secondo Tempio, Tisha B'Av, il 9 di Av, nel giorno più triste dell'anno ebraico.

Non conosco risposta teologica più profonda. Nell'ebraismo la risposta teologica più profonda non è una risposta. Non è una teologia, è un grido.

Ho sentito di un rabbino che ha attraversato l'Olocausto (è una storia vera) e ha perso sua moglie e tutti gli 11 figli e in seguito gli è stato chiesto: "Non hai domande su Dio?".

E lui rispose: “Certo che ho domande su Dio. Le mie domande su Dio sono così potenti che, se le facessi, Dio stesso mi inviterebbe in Cielo per darmi le risposte. E preferisco stare quaggiù con le domande, che lassù in Cielo con le risposte”.

Ora, sembra intelligente, ma in realtà è molto profondo. L'ho detto tante volte: la fede non è certezza. La fede è il coraggio di vivere nell’incertezza. Dopo l’Olocausto, l’incertezza è il luogo in cui viviamo.