Yomanim - DIARI - יומנים
- Dettagli
- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
- Visite: 726
È L'ORA DELLA VERITÀ
di Giuseppe Kalowski, da Tel Aviv, 20 agosto 2024
Negli ultimi giorni, a seguito “dell'operazione chirurgica” a Teheran che ha eliminato il terrorista Hanye, gli avvenimenti si susseguono in modo molto rapido, quasi vertiginoso.
Qui a Tel Aviv il “mood” della gente lo si intuisce da quanto sono affollati o meno il centro della città o la spiaggia.
È un'altalena continua, inconfessata, di paura e sospiro di sollievo...
Ci si avvicina rapidamente alla maledetta ricorrenza del 7 ottobre ma nel frattempo quello che sta accadendo qui è un groviglio, quasi inestricabile, di polemiche politiche.
Ed è notizia di oggi che nella notte le nostre forze hanno recuperato i corpi di sei dei nostri ostaggi che erano prigionieri dell'organizzazione terroristica assassina di Hamas: Avraham Munder, Alex Dancyg, Chaim Peri, Yagev Buchshtav, Yoram Metzger e Nadav Popplewell.
“I nostri cuori sono addolorati per questa terribile perdita”, così ha dichiarato il premier israeliano Benyamin Netanyahu dopo che l'esercito (Idf) ha recuperato i cadaveri dei sei ostaggi .
I due ministri Ben Gvir e Smotrich, che ricattano il governo, pena la sua caduta, vengono ripresi non solo dall'opposizione, ma anche da Netanyahu e dagli altri partiti religiosi che formano la coalizione di governo. L'ultima uscita dell'ormai famoso, direi famigerato, ministro per la Sicurezza interna Ben Gvir è stata sulla spianata delle Moschee in cui ha dichiarato in modo inequivocabile che non bisogna andare a Doha o al Cairo a trattare la liberazione degli ostaggi ma intensificare la guerra a Gaza fino alla totale eliminazione di Hamas.
La sua visita alla spianata e la relativa dichiarazione fatta sul posto hanno fatto inorridire Israele intera, anche il Rabbino Capo Sefardita Itzhak Iosef.
Un comitato di 5 saggi religiosi ha condannato l'avvenimento: agli Ebrei è vietato calpestare il luogo dei Santuari distrutti e allo stesso tempo è stato violato il famoso “status quo” del 1967 con la Giordania in cui agli Ebrei è vietato pregare sulla spianata.
Insomma in un periodo di già fortissime divisioni interne se ne è aggiunta un'altra tra le tre componenti religiose al governo; nel frattempo la guerra a Gaza continua con inevitabili perdite umane e il nord d'Israele è in fiamme con una guerra di attrito senza precedenti.
7 500 razzi e centinaia di bombe Rpg sono stati lanciati a oggi dal Libano: è una situazione di allarme e pericolo continuo che va dal Golan fino al Mediterraneo lungo tutto il confine, con obiettivi che lentamente ma inesorabilmente vanno sempre più in profondità nel territorio israeliano.
A infiammare ancora di più la situazione ci ha pensato il ministro delle finanze Smotrich, compagno di Ben Gvir, dichiarando pubblicamente di continuare a sovvenzionare i religiosi ultraortodossi renitenti alla leva nonostante l'ordine contrario della Corte Suprema.
A questo punto una riflessione è doverosa.
Mentre il governo tenta, con Blinken arrivato a Tel Aviv e un tentativo di attentato suicida sempre a Tel Aviv dopo 18 anni dall'ultimo, tra Doha e il Cairo, di sbloccare la situazione, la domanda che mi pongo è : ma chi comanda in Israele oggi? A me non è chiaro.
Mi sembra si “navighi a vista” e si prendano decisioni per mantenere un equilibrio sempre più traballante, sull'orlo del tracollo. Il governo prende decisioni in base alla sua possibilità di sopravvivenza e non in conformità a una visione strategica.
Si va avanti cercando di fare contenti tutti, provocando in realtà l'esatto contrario. Questo approccio politico ha provocato la profonda spaccatura all'interno dell'opinione pubblica israeliana, dopo un'iniziale unità dovuta alla guerra il modus vivendi del governo ha ulteriormente acuito la divisione.
La si può pensare come si vuole, con opinioni legittimamente diverse, ma Bibi, per dimostrare di essere uno statista, deve prendere decisioni che potrebbero mettere a rischio il suo governo e la sua premiership.
Non ha alternative, se vuole il bene e la salvezza d' Israele.
- Dettagli
- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
- Visite: 1040
IN DIASPORA
Eccomi qui di nuovo, dopo quasi un mese di assenza, a commentare gli ultimi tragici avvenimenti in terra d'Israele; con una differenza sostanziale rispetto a tutti i miei articoli precedenti: da qualche settimana non mi trovo in Israele ma in Italia , a Roma.
Tutti i miei racconti precedenti sono stati scritti in Israele, con il corpo e l'anima lì.
Adesso che sono temporaneamente fuori da Israele vedo come stia continuando senza sosta il tentativo di colpirlo per realizzare il sogno mai nascosto di distruggere " l'entità sionista".
Tentativo che purtroppo trova terreno ideologico fertile anche nel mondo democratico occidentale, rovesciando totalmente il rapporto causa-effetto dell'attuale conflitto.
Questa premessa non è fine a se stessa: in queste settimane, in Italia, non ho avuto idee, ispirazione e voglia per scrivere nuovi racconti e testimonianze. È un caso? In realtà non credo che sia una semplice coincidenza. Le notizie da Israele le continuo a ricevere dalle stesse fonti: nulla è cambiato, tecnicamente.
La differenza sostanziale è il "mood", l'umore, lo stato d'animo, la disponibilità interiore di chi scrive.
Sono queste le variabili che creano la differenza, la divisione, tra lo scrivere in Israele o fuori da Israele.
Ho sempre pensato, e continuo a pensarlo, che non bisogna necessariamente vivere in Israele per esprimere opinioni sull'operato della sua classe politica, ma ho realizzato però che si possono capire fino in fondo alcune dinamiche politiche e sociali solo “vivendo” la società israeliana.
" Vivere Israele" è una sensazione non facile da spiegare e può essere intercettata e capita solo da chi condivide la stessa esperienza. Da lì, da Israele, tutto appare in una prospettiva diversa, più critica e più veritiera: si esprimono opinioni senza doversi sentire in un bunker per difendersi da un antisemitismo ormai dilagante in Europa e non solo.
In Israele assumo posizioni in totale assenza di pressioni esterne, di solito strumentali nei confronti dello Stato Ebraico.
Per queste ragioni mi ero ripromesso di ricominciare a scrivere al mio ritorno in Israele, ma quanto accaduto a Tel Aviv con il drone yemenita caduto nel centro della città e la strage dei bambini drusi mentre giocavano a calcio per opera di un missile lanciato da Hezbollah dal Libano, mi ha spinto a riprendere subito" la penna in mano".
Ci sono voluti 12 bambini morti e decine di feriti per fare dichiarare finalmente al nostro ministro Tajani che Hezbollah deve rispettare la risoluzione 1701 dell' ONU e ritirarsi dal confine israeliano.
Nonostante che anche gli USA sostengano la paternità di Hezbollah riguardo al missile sulla città drusa Majdal Shams nel nord d'Israele, alcune testate giornalistiche prendono sul serio i tentativi libanesi di attribuire a Israele la responsabilità della strage dei fratelli drusi.
Scrivendo dalla diaspora prevale il senso di difesa e di rabbia, dovuti alla mistificazione e al rovesciamento della realtà dei fatti.
Continuiamo a scrivere, a fare sentire la nostra voce, a esporre le nostre idee e le nostre ragioni, a patto di rendersi conto che farlo da Israele è un "mestiere” diverso, alimentato da una sensibilità e da un approccio differente nei confronti della nostra amata Terra di Israele.
Il nostro sionismo, in Diaspora, fatica a ritrovarsi nei discorsi di quanti rivendicano questo stesso amore per Israele o per il sionismo e accade che risuonino voci apparentemente inconciliabili.
Conosco tutte le loro resistenze e i loro avvertimenti.
Conosco tutte le voci, comprese le più critiche.
E so cosa pensano: Israele è minacciato, e non può permettersi il lusso di essere indifeso, fallibile e vulnerabile, oppure… siamo tragicamente condannati a ripetere uno scenario catastrofico?
Nel cuore dell'oscurità del mondo che ci circonda, facciamo dunque in modo, ovunque ci troviamo, di lasciare passare un po' di luce, attraverso di noi, attraverso i nostri dubbi e le nostre convinzioni.
- Dettagli
- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
- Visite: 871
UN ABBRACCIO PER ISRAELE di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv, 1 luglio 2024
Nel momento più buio per noi Ebrei dopo la seconda guerra mondiale, sentiamo la necessità, più di prima, di “aggrapparci” a Israele - abbracciando questo piccolo Stato in pericolo per la sua esistenza.
Sì, per la sua esistenza! Può sembrare un concetto obsoleto, forse retorico, ma purtroppo non è così.
In un'Europa in cui la sinistra ha ormai preso la parte dei palestinesi (e l'Italia non fa eccezione) con il solito “giochino” dell'antisionismo (termine buono per tutte le stagioni, dappertutto in Occidente, specialmente in periodi elettorali e pre-elettorali), e in cui la destra spesso mostra rigurgiti squadristi di stampo antisemita, l'unica via di salvezza è rafforzare la nostra solidarietà, il nostro amore, anche critico se serve, nei confronti di Israele.
Israele vive da mesi in una situazione surreale.
La guerra, dopo il 7 ottobre, ha temporaneamente compattato un paese sotto shock: ma ora, a quasi nove mesi dallo scempio di quel giorno, Israele sembra sempre più diviso al suo interno.
Da una parte ci sono le famiglie dei rapiti, distrutte da un lunghissimo periodo di angoscia e di speranza - che vengono strumentalizzate da una parte dell'opposizione.
Parallelamente si svolgono le proteste dei religiosi ortodossi, che rifiutano il servizio militare nonostante la decisione della corte suprema.
Il Parlamento prova a far approvare la legge sulla Rabbanut, nella quale la nomina dei rabbini nelle varie città israeliane passerebbe al potere centrale e non sarebbe più in carica ai vari consigli comunali come accade oggi.
Il governo Netanyahu cerca di “destreggiarsi” tra la pressione delle famiglie degli ostaggi, la destra religiosa contraria a ogni tipo di stop alla guerra e la minaccia dei due partiti religiosi ultraortodossi di fare cadere il governo se non vengono soddisfatte le loro richieste.
Il tutto all'interno della cornice di una guerra cruenta a Gaza e di una situazione incandescente con il Libano.
Quello che appare chiaro, almeno a me, è un pericoloso sfilacciamento della società israeliana che si riflette a livello politico, non viceversa. Basta accendere la televisione e ci si accorge che ogni telegiornale va dalla propria parte, senza curarsi dell' “altro”.
È come si fosse attenuata quella visione d'insieme, unitaria, idealista, haluzista, che ha sempre contraddistinto Israele, indipendentemente da chi fosse a capo del governo al momento – quella visione splendida e accecante che, in passato, ha illuminato le nostre speranze e i nostri sogni.
Da qui la necessità di “abbracciare” e pacificare Israele al suo interno, senza polarizzare ulteriormente un paese già tanto provato.
Compito della classe politica dovrebbe essere quello di realizzare un “compromesso morale” tra visioni della vita totalmente diverse, senza mai dimenticare il nostro minimo comune denominatore: la nostra Identità ebraica e il nostro Senso dell’Appartenenza.
Ci ritroviamo, mi sembra, ancora una volta, con un messaggio e una missione, nella vita contemporanea, che noi Ebrei siamo obbligati a presentare incessantemente alla società: dobbiamo dire la verità al potere. È difficile farlo, ed è sempre stata un'impresa rischiosa per noi, soprattutto nella Diaspora.
E ci grava addosso il presentimento che la nostra società stia in qualche modo “scrivendo” un tragico capitolo della nostra Storia; e che contemporaneamente non possa — o si rifiuti — di leggere ciò che ha scritto.
Aiutiamo dunque la nostra società a “leggere” questo capitolo, prima che sia troppo tardi per riparare ciò che è stato rotto.
- Dettagli
- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
- Visite: 905
9 MESI DAL 7 OTTOBRE, LA PEGGIORE GESTAZIONE
Di MIRA NESHAMA WEIL – Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
(Tenou’a)
9 mesi.
Nove da quel terribile “Sette” che non possiamo dimenticare.
È troppo simbolico per non vederlo, è così un cliché che saremmo tentati di non parlarne, ma poiché nulla in questa guerra, e soprattutto il suo trattamento mediatico, ci risparmia i cliché, parliamone.
Nove mesi, il termine di una gravidanza.
Ho voglia di vomitare perché siamo ancora qui.
In generale, queste due parole unite insieme: “neuf-mois” richiama un tenero sorriso, l'evocazione di quello che in francese chiamiamo un “lieto evento”.
Per noi questi nove mesi sono stati una lenta agonia, una gestazione delle peggiori – e peggio ancora, una gestazione non ancora finita.
Ogni settimana, ogni mese, mi ritrovavo scioccata dal fatto che fossimo ancora qui.
A ottobre avevamo contato i giorni; poi abbiamo contato le settimane; ora, i mesi.
Ricordo la mattina dei sei mesi. Era una domenica; mi sono alzata sbalordita dal fatto che fossimo ancora lì. Scrissi. Non potevo non scrivere. Non ricordo cosa ho scritto.
Erano passati 6 mesi, mezzo anno, e la guerra si trascinava.
Missili; soldati inviati al fronte. Annunci di morte. Bambini. Madri in lutto. Bambini orfani. Giovani donne improvvisamente vedove, bambini che si ritrovano la sera davanti ad un letto ormai vuoto.
Perché?
E poi quelli che tornano. Un braccio in meno. Una gamba in meno. A volte entrambi.
A volte peggio. Ma sempre, qualcosa in meno nell'anima.
Troppo rischioso, troppo sofferto. Troppo fatto, troppo visto.
Una volta che hai messo piede in guerra, è difficile tornare indietro.
Ritorneremo mai davvero dal lato oscuro?
Erano passati sei mesi, giorno dopo giorno, da quando persone come te e me erano state portate via dalle loro case, all'alba dello Shabbat Simchat Torah (letteralmente “la gioia della Torah”). In questo giorno doppiamente santo e doppiamente gioioso, sono stati attaccati di sorpresa da uomini incappucciati con fucili neri che gridavano “Allahu akbar” e li hanno picchiati a colpi di fucile.
Sono passati in mezzo alla folla festante di Kikar Phalestin, assaliti dal branco che si esibiva in grida di odio, ghignanti vittoria, con cellulari per filmarli, sigarette per bruciarli, bastoni per picchiarli.
Gli uomini incappucciati avevano colpito la faccia, e contemporaneamente fatto altre cose, a post-adolescenti di età compresa tra i 18 e i 19 anni che ancora oggi sono rinchiusi in prigionia.
Nei video del loro rapimento pubblicati recentemente dai loro genitori, li vediamo schiacciati contro un muro, con la faccia insanguinata, i pantaloni da jogging all'altezza delle natiche, insanguinati, ammanettati, il giorno del loro “arresto”.
Picchiare a morte i ragazzi, solo perché si è più forti.
Sì, quando vediamo il Nemico solo in faccia, possiamo picchiare a sangue le ragazze.
Tu con la tua pistola, il tuo coltello, la tua maschera e il tuo lavaggio del cervello.
Picchiare, e peggio ancora, una ragazzina che potrebbe essere tua sorella.
Poi nelle stanze chiuse degli appartamenti palestinesi, o nel sottosuolo per i meno fortunati, fino a quaranta metri in fondo a tunnel melmosi, rinchiusi, inattivi, isolati, privati della luce e del movimento; privati della privacy; privati del rispetto; privati del cibo, privati del diritto di parlarsi.
Sono derisi; sono insultati; viene loro detto che tutti li hanno dimenticati; “meno di niente; scimmia; ratto ebreo; tua moglie è già partita con qualcun altro; tuo marito ti ha sostituita; i tuoi genitori ti hanno dimenticato; nessuno verrà a salvarti”. E molto peggio ancora.
Sono legati, sono colpiti; vengono osservati mentre fanno i loro bisogni; si penetrano i loro corpi ogni volta che si ha voglia.
La doccia è rara e la diarrea è troppo frequente. È perché si è mangiato di nuovo il labneh che è diventato acido. Lo si sapeva in anticipo, ma si era troppo affamati.
La madre di uno di quelli salvati un mese fa, Andrey Kozlov, dice che ha trascorso i suoi primi due mesi con le mani ammanettate. Il primo mese, sulla schiena.
Seduto. Senza fare nulla.
Aspettare. Senza sapere.
Chi riesce a mantenere la sanità mentale dopo aver attraversato tutto questo?
Anche per i sopravvissuti la domanda aleggia nel cielo: fino a che punto potranno vivere dopo?
Stavo rileggendo Charlotte Delbo, una combattente della resistenza francese sopravvissuta ad Auschwitz. Dice che per sopravvivere in seguito, ha dovuto imparare, non a dimenticare, ma a “disimparare”.
Uno dei volumi della sua opera s’intitola “Nessuno di noi tornerà”.
Ritorneremo mai da quello?
Noa è davvero tornata?
Eppure li aspettiamo.
Li stiamo aspettando. Il numero si assottiglia come l'ultimo filo di un brandello nella tempesta.
Più di 120; almeno quelli che si crede siano ancora vivi.
Abbiamo recuperato cadaveri; ne abbiamo tirati fuori alcuni vivi.
Aspettiamo gli altri.
Noi non sappiamo.
Loro non sanno.
Noa è uscita un mese fa.
Io non ci potevo credere.
Noa, oggi la conoscono tutti.
È diventata un triste simbolo del 7 ottobre, tanto più triste perché l'immagine di questa giovane donna così aggraziata, dal viso puro, che grida aiuto mentre tende entrambe le braccia verso il suo compagno ammanettato e tenuto da cappucci neri, presa in una morsa sulla moto, tra il conducente e quello dietro, che le impediscono di scappare, questa immagine così drammatica pubblicata sulla copertina dei giornali occidentali, ha incontrato troppo spesso giubilo revanscista tra alcuni e agghiacciante indifferenza tra altri.
Noa Argamani era stata detenuta per 8 mesi, prima che, miracolosamente, un'unità speciale dell'esercito israeliano riuscisse a trovare il suo nascondiglio e a liberarla.
Uno di loro, Arnon Zamora, ha perso la vita lì.
Chi prevede un destino simile per i propri figli?
Nel frattempo, i figli di Israele combattono ormai da 9 mesi. Sono ormai trascorsi 74 anni.
Una guerra continua per una brevissima esistenza statale, disseminata di eruzioni vulcaniche che ogni volta ci lasciano senza sangue.
Questa situazione, la più grave dallo Yom Kippur, dura ora per tutta la durata di una gravidanza a termine, ma non ne è venuto fuori nulla.
Nove mesi è un termine nelle leggi della natura. Ma le leggi della guerra sembrano al di sopra di esso.
Nove mesi di attesa e la guerra non è finita.
Con Hezbollah in gioco, esso promette addirittura, giorno dopo giorno, ora dopo ora, di esploderci in faccia.
Potrebbe significare questo, questa gestazione agonica?
Non la nascita della pace, ma la sanguinosa espulsione di un altro embrione di guerra?
Siamo entrati in una gestazione del peggio?
Voglio credere, con il pensiero chassidico, che da questo abisso possa uscire qualcosa di buono.
Rivolgo lo sguardo allo Zohar (Tetsave 86a) che ci dice:
«Le parole della Torah diventano chiare solo qui:
Perché non c'è altra luce
che quella che esce dalle tenebre.
(…)
Non esiste alcun Servizio del Santo, benedetto sia Lui,
Che attraverso l'oscurità
E non c'è nulla di buono
Che attraverso il male».
Oh Dio, che tu possa mantenere questa promessa!
Lo Zohar, che ribalta i cliché e sottolinea, come Edgar Morin diversi millenni dopo, la complessità di un mondo che possiamo cogliere appieno solo abbracciandone i paradossi, ci ricorda questa strana legge della natura: è grazie alla merda nel letame che le piante crescono meglio.
Potrebbe questa pessima gestazione diventare la promessa di una nuova rinascita?
Questa è la promessa della stirpe di Davide: il padre del futuro messia non è altro che il discendente di una moabita convertita, proveniente dal popolo acerrimo nemico di Israele, popolo frutto del primo incesto dell'umanità, quello di Lot e delle sue figlie.
La sfortuna, ci insegnano i nostri testi, può diventare fonte di luce.
Fu in risposta alla distruzione del Tempio che gli ebrei costruirono l'edificio del Talmud.
È stato sulla scia della Shoah che gli Ebrei hanno potuto ricostruire il loro Paese dopo duemila anni di esilio.
Il peggio può partorire il più bello, lo abbiamo sperimentato.
Anche nella nostra vita personale, per molti di noi.
Sì, da questa peggiore delle gestazioni, così mostruosa che non è ancora finita, voglio credere che possa nascere una nuova società, per tutti noi su questa terra.
Lo ammetto, faccio fatica a crederci. Sono disperata.
E tuttavia.
Oggi celebriamo il nuovo mese di Tammuz.
Un mese triste, poiché il 17 del mese gli ebrei digiuneranno in ricordo della prima breccia nelle mura durante l'assedio di Gerusalemme, entrando così in un periodo di “tre settimane” di lutto progressivo che li porterà a Tisha b 'Av, il giorno più triste dell'anno ebraico.
In quel giorno piangeremo, ancora una volta, quest'anno più che mai, la distruzione del Tempio.
Ma dall’inizio di Tammuz, che il Sefer Yetzira chiama il mese della “visione”, e durante Shabbat Hazon (letteralmente, la “visione”) che precede Tisha b’Av, inquadreremo la sfortuna fissandole un orizzonte.
Da oggi, prima di entrare in questo periodo cupo del calendario ebraico in cui sprofonderemo insieme nel lutto collettivo, possiamo fare una scelta: quella di guardare, ben oltre la distruzione, verso la promessa che seguirà: la possibilità di un vero rinnovamento.
Perché quello che ci aspetta nel calendario ebraico, dietro la distruzione, non è altro che Tu b’Av, la festa dell’amore, poi Elul, il mese del ritorno, verso Rosh haShana e Yom Kippur, verso la grande rinascita.
Così oggi, al termine del nono mese di questa guerra insensata, scelgo di credere che questa peggiore delle gestazioni potrà partorire, dall'altra parte della sventura, qualcosa, sì, di buono.
Scelgo di crederci.
Non abbiamo scelta.
- Dettagli
- Scritto da Barbara de Munari
- Categoria: DIARI
- Visite: 824
DI LATTE E DI MIELE
Siamo probabilmente nel momento più difficile e pericoloso di questa lunga guerra; più difficile, perché i recenti caduti tra le forze armate israeliane hanno demoralizzato un'opinione pubblica già provata dalla durata del conflitto.
Più pericoloso, perché se da una parte Rafah sembra più vicina alla resa, dall'altra non si capisce cosa accadrà al nord, al confine con il Libano.
È anche il momento più pericoloso perché stanno affiorando sempre di più, ogni giorno di più, le divisioni all'interno della società israeliana che sembravano superate a causa di una guerra che richiede unità d’intenti e di “patriottismo”, senza “distinguo”di sorta.
E invece dobbiamo assistere a Netanyahu che va contro l'esercito, Israele-è-un-Paese-con-un-Esercito, non-un Esercito-con-un-Paese, alla legge sul reclutamento dei Haredim che, se approvata, scontenterà tutti, all'improvvida dimissione di Ganz dal governo, e alla possibilità di un nuovo schieramento politico di opposizione con Bennett , Lieberman e Saar, mentre la popolazione del nord si sente abbandonata dal governo.
Tutto questo, all'interno di un quadro di oggettiva difficoltà nel riuscire a liberare tutti gli ostaggi ancora in vita, rende la situazione drammatica e tesa.
Comunque la si pensi, politicamente parlando, quello che io vedo, vivendo a Tel Aviv, sono una tristezza e una malinconia diffuse, dopo l'adrenalina e la felicità per la liberazione di Noa Argamani e degli altri tre ostaggi.
Oggi ho incontrato un amico israeliano, religioso, sicuramente filogovernativo, che proprio non aveva voglia di parlare: era triste, pensieroso, preoccupato; l'ho salutato, abbracciandolo, non sapendo bene come congedarmi da lui.... E, tornando a piedi verso casa, a un incrocio mi passa davanti, a passo d'uomo, una automobile bianca guidata da una ragazza, sola; sul cofano anteriore e sui finestrini c'erano degli adesivi sui quali era scritto: “Mio papà è stato rapito il 7 ottobre”.
Ma l'altro ieri, mentre facevo jogging al tramonto al Yarkon Park, che costeggia l'omonimo fiume, ho visto, per caso, numerose famiglie arabe che, con tanti bambini, passeggiavano e mi sembravano tranquille e serene. La cosa mi ha incuriosito e li ho seguiti. Mi sono ritrovato a un vero e proprio sit in di famiglie arabe, che partiva dal vecchio porto di Tel Aviv e proseguiva verso nord fino alla spiaggia di Tel Baruch... centinaia di persone che passeggiavano, chiacchieravano e preparavano carne alla brace. Era il “Giorno del Sacrificio”, una festività importantissima per il credo musulmano.
E non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia profondamente democratica e tollerante d'Israele; nessuno si è sognato di disturbarli o di mostrare insofferenza nei loro confronti. Era la cosa più normale del mondo. Nonostante tutto. Nonostante la guerra.
Terra di latte e miele è la definizione biblica della Terra promessa.
Una Terra, Erez, che da millenni ospita le dinamiche più turbolente e disturbanti della storia dei vecchi continenti.
E il latte e il miele sono simbolo di abbondanza e benessere della Terra che il Signore ha donato al Suo popolo.
Una Terra di abbondanza, non solo di cibo ma anche di Giustizia.
Mentre il latte e il miele hanno in comune una qualità paradossale.
Il miele è kosher, ma è il prodotto di un insetto non kosher.
Il latte è kosher pur provenendo da una mucca la cui carne non può essere mangiata insieme al latte.
Oltre al significato letterale, il latte e il miele hanno anche un significato squisitamente spirituale. Rappresentano la dolcezza e il nutrimento della parola e della presenza del Signore.
E così penso che la bontà di Israele possa spesso provenire da luoghi inaspettati e in modi inattesi.
Io di certo non sono un profeta. E lo spirito della storia ha certamente delle conseguenze involontarie. Forse dovremmo confidare in quello e sperare per il meglio. Oppure, dovremmo forse esaminare meglio quali scelte future saremo chiamati a fare. Non inseguendo miraggi, non cercando conforto rincorrendo grandiosi cliché.
Ma, soprattutto, non odiando. Perché l’odio non affligge solo l’animo, ma distrugge anche la nostra capacità di ragionare con lucidità. Aprendoci a un discorso serio e onesto circa le reali future opportunità che si profilano, facciamolo senza rabbia, senza pregiudizio.
Yair Lapid, il leader dell'opposizione israeliana, partecipando alla conferenza “Democracy Under Fire” dell'Università di Reichman, ha detto: «I valori non sono qualcosa che tieni solo quando ti fa comodo. Valori e princìpi sono pensati proprio per i momenti difficili. Se rinunciamo ai nostri valori, questo Paese è in pericolo esistenziale».
Secondo il leader di Yesh Atid «Il governo americano, l'Unione Europea e i Paesi liberali non credono più che siamo una nazione sana, seria e liberale, vincolata dal diritto internazionale... Nonostante abbiamo intrapreso la guerra più giusta nella storia…», e accusa il governo di aver sperperato il credito “quasi infinito” post-7 ottobre.
Dunque, prendiamoci il tempo, quel poco o tanto che ci rimane, mettiamo da parte le nostre certezze per farci delle domande. Senza cercare di rispondere subito. Senza dividerci. Senza aspettarci di appartenere ad un unico campo. Accettare di non essere d'accordo è uno dei fondamenti dell'ebraismo, giusto?
#ideologia #postideologia #sguardi #tolleranza #contrapposizione #pace
Pagina 4 di 7