DI LATTE E DI MIELE

 

Siamo probabilmente nel momento più difficile e pericoloso di questa lunga guerra; più difficile, perché i recenti caduti tra le forze armate israeliane hanno demoralizzato un'opinione pubblica già provata dalla durata del conflitto.

 

 

Più pericoloso, perché se da una parte Rafah sembra più vicina alla resa, dall'altra non si capisce cosa accadrà al nord, al confine con il Libano.

È anche il momento più pericoloso perché stanno affiorando sempre di più, ogni giorno di più, le divisioni all'interno della società israeliana che sembravano superate a causa di una guerra che richiede unità d’intenti e di “patriottismo”, senza “distinguo”di sorta.

E invece dobbiamo assistere a Netanyahu che va contro l'esercito, Israele-è-un-Paese-con-un-Esercito, non-un Esercito-con-un-Paese, alla legge sul reclutamento dei Haredim che, se approvata, scontenterà tutti, all'improvvida dimissione di Ganz dal governo, e alla possibilità di un nuovo schieramento politico di opposizione con Bennett , Lieberman e Saar, mentre la popolazione del nord si sente abbandonata dal governo.

Tutto questo, all'interno di un quadro di oggettiva difficoltà nel riuscire a liberare tutti gli ostaggi ancora in vita, rende la situazione drammatica e tesa.

Comunque la si pensi, politicamente parlando, quello che io vedo, vivendo a Tel Aviv, sono una tristezza e una malinconia diffuse, dopo l'adrenalina e la felicità per la liberazione di Noa Argamani e degli altri tre ostaggi.

Oggi ho incontrato un amico israeliano, religioso, sicuramente filogovernativo, che proprio non aveva voglia di parlare: era triste, pensieroso, preoccupato; l'ho salutato, abbracciandolo, non sapendo bene come congedarmi da lui.... E, tornando a piedi verso casa, a un incrocio mi passa davanti, a passo d'uomo, una automobile bianca guidata da una ragazza, sola; sul cofano anteriore e sui finestrini c'erano degli adesivi sui quali era scritto: “Mio papà è stato rapito il 7 ottobre”.

Ma l'altro ieri, mentre facevo jogging al tramonto al Yarkon Park, che costeggia l'omonimo fiume, ho visto, per caso, numerose famiglie arabe che, con tanti bambini, passeggiavano e mi sembravano tranquille e serene. La cosa mi ha incuriosito e li ho seguiti. Mi sono ritrovato a un vero e proprio sit in di famiglie arabe, che partiva dal vecchio porto di Tel Aviv e proseguiva verso nord fino alla spiaggia di Tel Baruch... centinaia di persone che passeggiavano,  chiacchieravano e preparavano carne alla brace. Era il “Giorno del Sacrificio”, una festività importantissima per il credo musulmano.

E non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia profondamente democratica e tollerante d'Israele; nessuno si è sognato di disturbarli o di mostrare insofferenza nei loro confronti. Era la cosa più normale del mondo. Nonostante tutto. Nonostante la guerra.

 

Terra di latte e miele è la definizione biblica della Terra promessa.

Una Terra, Erez, che da millenni ospita le dinamiche più turbolente e disturbanti della storia dei vecchi continenti.

E il latte e il miele sono simbolo di abbondanza e benessere della Terra che il Signore ha donato al Suo popolo.

Una Terra di abbondanza, non solo di cibo ma anche di Giustizia.

Mentre il latte e il miele hanno in comune una qualità paradossale.

Il miele è kosher, ma è il prodotto di un insetto non kosher.

Il latte è kosher pur provenendo da una mucca la cui carne non può essere mangiata insieme al latte.

Oltre al significato letterale, il latte e il miele hanno anche un significato squisitamente spirituale. Rappresentano la dolcezza e il nutrimento della parola e della presenza del Signore.

E così penso che la bontà di Israele possa spesso provenire da luoghi inaspettati e in modi inattesi.

Io di certo non sono un profeta. E lo spirito della storia ha certamente delle conseguenze involontarie. Forse dovremmo confidare in quello e sperare per il meglio. Oppure, dovremmo forse esaminare meglio quali scelte future saremo chiamati a fare. Non inseguendo miraggi, non cercando conforto rincorrendo grandiosi cliché.

Ma, soprattutto, non odiando. Perché l’odio non affligge solo l’animo, ma distrugge anche la nostra capacità di ragionare con lucidità. Aprendoci a un discorso serio e onesto circa le reali future opportunità che si profilano, facciamolo senza rabbia, senza pregiudizio.

 

Yair Lapid, il leader dell'opposizione israeliana, partecipando alla conferenza “Democracy Under Fire” dell'Università di Reichman, ha detto: «I valori non sono qualcosa che tieni solo quando ti fa comodo. Valori e princìpi sono pensati proprio per i momenti difficili. Se rinunciamo ai nostri valori, questo Paese è in pericolo esistenziale».
Secondo il leader di Yesh Atid «Il governo americano, l'Unione Europea e i Paesi liberali non credono più che siamo una nazione sana, seria e liberale, vincolata dal diritto internazionale... Nonostante abbiamo intrapreso la guerra più giusta nella storia…», e accusa il governo di aver sperperato il credito “quasi infinito” post-7 ottobre.

Dunque, prendiamoci il tempo, quel poco o tanto che ci rimane, mettiamo da parte le nostre certezze per farci delle domande. Senza cercare di rispondere subito. Senza dividerci. Senza aspettarci di appartenere ad un unico campo. Accettare di non essere d'accordo è uno dei fondamenti dell'ebraismo, giusto?

 

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