UN ABBRACCIO PER ISRAELE di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv, 1 luglio 2024

 

Nel momento più buio per noi Ebrei dopo la seconda guerra mondiale, sentiamo la necessità, più di prima, di “aggrapparci” a Israele - abbracciando questo piccolo Stato in pericolo per la sua esistenza.

Sì, per la sua esistenza! Può sembrare un concetto obsoleto, forse retorico, ma purtroppo non è così.

In un'Europa in cui la sinistra ha ormai preso la parte dei palestinesi (e l'Italia non fa eccezione) con il solito “giochino” dell'antisionismo (termine buono per tutte le stagioni, dappertutto in Occidente, specialmente in periodi elettorali e pre-elettorali), e in cui la destra spesso mostra rigurgiti squadristi di stampo antisemita, l'unica via di salvezza è rafforzare la nostra solidarietà, il nostro amore, anche critico se serve, nei confronti di Israele.

Israele vive da mesi in una situazione surreale.

La guerra, dopo il 7 ottobre, ha temporaneamente compattato un paese sotto shock: ma ora, a quasi nove mesi dallo scempio di quel giorno, Israele sembra sempre più diviso al suo interno.

Da una parte ci sono le famiglie dei rapiti, distrutte da un lunghissimo periodo di angoscia e di speranza - che vengono strumentalizzate da una parte dell'opposizione.

Parallelamente si svolgono le proteste dei religiosi ortodossi, che rifiutano il servizio militare nonostante la decisione della corte suprema.

Il Parlamento prova a far approvare la legge sulla Rabbanut, nella quale la nomina dei rabbini nelle varie città israeliane passerebbe al potere centrale e non sarebbe più in carica ai vari consigli comunali come accade oggi.

Il governo Netanyahu cerca di “destreggiarsi” tra la pressione delle famiglie degli ostaggi, la destra religiosa contraria a ogni tipo di stop alla guerra e la minaccia dei due partiti religiosi ultraortodossi di fare cadere il governo se non vengono soddisfatte le loro richieste.

Il tutto all'interno della cornice di una guerra cruenta a Gaza e di una situazione incandescente con il Libano.

Quello che appare chiaro, almeno a me, è un pericoloso sfilacciamento della società israeliana che si riflette a livello politico,  non viceversa. Basta accendere la televisione e ci si accorge che ogni telegiornale va dalla propria parte, senza curarsi dell' “altro”.

È come si fosse attenuata quella visione d'insieme, unitaria, idealista, haluzista, che ha sempre contraddistinto Israele, indipendentemente da chi fosse a capo del governo al momento – quella visione splendida e accecante che, in passato, ha illuminato le nostre speranze e i nostri sogni.

Da qui la necessità di “abbracciare” e pacificare Israele al suo interno, senza polarizzare ulteriormente un paese già tanto provato.

Compito della classe politica dovrebbe essere quello di realizzare un “compromesso morale” tra visioni della vita totalmente diverse, senza mai dimenticare il nostro minimo comune denominatore: la nostra Identità ebraica e il nostro Senso dell’Appartenenza.

 

Ci ritroviamo, mi sembra, ancora una volta, con un messaggio e una missione, nella vita contemporanea, che noi Ebrei siamo obbligati a presentare incessantemente alla società: dobbiamo dire la verità al potere. È difficile farlo, ed è sempre stata un'impresa rischiosa per noi, soprattutto nella Diaspora.

E ci grava addosso il presentimento che la nostra società stia in qualche modo “scrivendo un tragico capitolo della nostra Storia; e che contemporaneamente non possa — o si rifiuti — di leggere ciò che ha scritto.

Aiutiamo dunque la nostra società a “leggere” questo capitolo, prima che sia troppo tardi per riparare ciò che è stato rotto.