9 MESI DAL 7 OTTOBRE, LA PEGGIORE GESTAZIONE

Di MIRA NESHAMA WEIL – Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

(Tenou’a)

 

9 mesi.

Nove da quel terribile “Sette” che non possiamo dimenticare.

È troppo simbolico per non vederlo, è così un cliché che saremmo tentati di non parlarne, ma poiché nulla in questa guerra, e soprattutto il suo trattamento mediatico, ci risparmia i cliché, parliamone.

Nove mesi, il termine di una gravidanza.

Ho voglia di vomitare perché siamo ancora qui.

In generale, queste due parole unite insieme: “neuf-mois” richiama un tenero sorriso, l'evocazione di quello che in francese chiamiamo un “lieto evento”.

Per noi questi nove mesi sono stati una lenta agonia, una gestazione delle peggiori – e peggio ancora, una gestazione non ancora finita.

Ogni settimana, ogni mese, mi ritrovavo scioccata dal fatto che fossimo ancora qui.

A ottobre avevamo contato i giorni; poi abbiamo contato le settimane; ora, i mesi.

 

Ricordo la mattina dei sei mesi. Era una domenica; mi sono alzata sbalordita dal fatto che fossimo ancora lì. Scrissi. Non potevo non scrivere. Non ricordo cosa ho scritto.

Erano passati 6 mesi, mezzo anno, e la guerra si trascinava.

Missili; soldati inviati al fronte. Annunci di morte. Bambini. Madri in lutto. Bambini orfani. Giovani donne improvvisamente vedove, bambini che si ritrovano la sera davanti ad un letto ormai vuoto.

Perché?

E poi quelli che tornano. Un braccio in meno. Una gamba in meno. A volte entrambi.

A volte peggio. Ma sempre, qualcosa in meno nell'anima.

Troppo rischioso, troppo sofferto. Troppo fatto, troppo visto.

Una volta che hai messo piede in guerra, è difficile tornare indietro.

Ritorneremo mai davvero dal lato oscuro?

 

Erano passati sei mesi, giorno dopo giorno, da quando persone come te e me erano state portate via dalle loro case, all'alba dello Shabbat Simchat Torah (letteralmente “la gioia della Torah”). In questo giorno doppiamente santo e doppiamente gioioso, sono stati attaccati di sorpresa da uomini incappucciati con fucili neri che gridavano “Allahu akbar” e li hanno picchiati a colpi di fucile.

Sono passati in mezzo alla folla festante di Kikar Phalestin, assaliti dal branco che si esibiva in grida di odio, ghignanti vittoria, con cellulari per filmarli, sigarette per bruciarli, bastoni per picchiarli.

Gli uomini incappucciati avevano colpito la faccia, e contemporaneamente fatto altre cose, a post-adolescenti di età compresa tra i 18 e i 19 anni che ancora oggi sono rinchiusi in prigionia.

Nei video del loro rapimento pubblicati recentemente dai loro genitori, li vediamo schiacciati contro un muro, con la faccia insanguinata, i pantaloni da jogging all'altezza delle natiche, insanguinati, ammanettati, il giorno del loro “arresto”.

Picchiare a morte i ragazzi, solo perché si è più forti.

 

Sì, quando vediamo il Nemico solo in faccia, possiamo picchiare a sangue le ragazze.

Tu con la tua pistola, il tuo coltello, la tua maschera e il tuo lavaggio del cervello.

Picchiare, e peggio ancora, una ragazzina che potrebbe essere tua sorella.

Poi nelle stanze chiuse degli appartamenti palestinesi, o nel sottosuolo per i meno fortunati, fino a quaranta metri in fondo a tunnel melmosi, rinchiusi, inattivi, isolati, privati ​​della luce e del movimento; privati della privacy; privati del rispetto; privati ​​del cibo, privati ​​del diritto di parlarsi.

Sono derisi; sono insultati; viene loro detto che tutti li hanno dimenticati; “meno di niente; scimmia; ratto ebreo; tua moglie è già partita con qualcun altro; tuo marito ti ha sostituita; i tuoi genitori ti hanno dimenticato; nessuno verrà a salvarti”. E molto peggio ancora.

Sono legati, sono colpiti; vengono osservati mentre fanno i loro bisogni; si penetrano i loro corpi ogni volta che si ha voglia.

La doccia è rara e la diarrea è troppo frequente. È perché si è mangiato di nuovo il labneh che è diventato acido. Lo si sapeva in anticipo, ma si era troppo affamati.

 

La madre di uno di quelli salvati un mese fa, Andrey Kozlov, dice che ha trascorso i suoi primi due mesi con le mani ammanettate. Il primo mese, sulla schiena.

Seduto. Senza fare nulla.

Aspettare. Senza sapere.

Chi riesce a mantenere la sanità mentale dopo aver attraversato tutto questo?

Anche per i sopravvissuti la domanda aleggia nel cielo: fino a che punto potranno vivere dopo?

Stavo rileggendo Charlotte Delbo, una combattente della resistenza francese sopravvissuta ad Auschwitz. Dice che per sopravvivere in seguito, ha dovuto imparare, non a dimenticare, ma a “disimparare”.

Uno dei volumi della sua opera s’intitola “Nessuno di noi tornerà”.

Ritorneremo mai da quello?

Noa è davvero tornata?

 

Eppure li aspettiamo.

Li stiamo aspettando. Il numero si assottiglia come l'ultimo filo di un brandello nella tempesta.

Più di 120; almeno quelli che si crede siano ancora vivi.

Abbiamo recuperato cadaveri; ne abbiamo tirati fuori alcuni vivi.

Aspettiamo gli altri.

Noi non sappiamo.

Loro non sanno.

Noa è uscita un mese fa.

Io non ci potevo credere.

Noa, oggi la conoscono tutti.

È diventata un triste simbolo del 7 ottobre, tanto più triste perché l'immagine di questa giovane donna così aggraziata, dal viso puro, che grida aiuto mentre tende entrambe le braccia verso il suo compagno ammanettato e tenuto da cappucci neri, presa in una morsa sulla moto, tra il conducente e quello dietro, che le impediscono di scappare, questa immagine così drammatica pubblicata sulla copertina dei giornali occidentali, ha incontrato troppo spesso giubilo revanscista tra alcuni e agghiacciante indifferenza tra altri.

Noa Argamani era stata detenuta per 8 mesi, prima che, miracolosamente, un'unità speciale dell'esercito israeliano riuscisse a trovare il suo nascondiglio e a liberarla.

Uno di loro, Arnon Zamora, ha perso la vita lì.

Chi prevede un destino simile per i propri figli?

 

Nel frattempo, i figli di Israele combattono ormai da 9 mesi. Sono ormai trascorsi 74 anni.

Una guerra continua per una brevissima esistenza statale, disseminata di eruzioni vulcaniche che ogni volta ci lasciano senza sangue.

Questa situazione, la più grave dallo Yom Kippur, dura ora per tutta la durata di una gravidanza a termine, ma non ne è venuto fuori nulla.

Nove mesi è un termine nelle leggi della natura. Ma le leggi della guerra sembrano al di sopra di esso.

Nove mesi di attesa e la guerra non è finita.

Con Hezbollah in gioco, esso promette addirittura, giorno dopo giorno, ora dopo ora, di esploderci in faccia.

Potrebbe significare questo, questa gestazione agonica?

Non la nascita della pace, ma la sanguinosa espulsione di un altro embrione di guerra?

Siamo entrati in una gestazione del peggio?

Voglio credere, con il pensiero chassidico, che da questo abisso possa uscire qualcosa di buono.

Rivolgo lo sguardo allo Zohar (Tetsave 86a) che ci dice:

«Le parole della Torah diventano chiare solo qui:

Perché non c'è altra luce

che quella che esce dalle tenebre.

(…)

Non esiste alcun Servizio del Santo, benedetto sia Lui,

Che attraverso l'oscurità

E non c'è nulla di buono

Che attraverso il male».

 

Oh Dio, che tu possa mantenere questa promessa!

 

Lo Zohar, che ribalta i cliché e sottolinea, come Edgar Morin diversi millenni dopo, la complessità di un mondo che possiamo cogliere appieno solo abbracciandone i paradossi, ci ricorda questa strana legge della natura: è grazie alla merda nel letame che le piante crescono meglio.

Potrebbe questa pessima gestazione diventare la promessa di una nuova rinascita?

Questa è la promessa della stirpe di Davide: il padre del futuro messia non è altro che il discendente di una moabita convertita, proveniente dal popolo acerrimo nemico di Israele, popolo frutto del primo incesto dell'umanità, quello di Lot e delle sue figlie.

La sfortuna, ci insegnano i nostri testi, può diventare fonte di luce.

Fu in risposta alla distruzione del Tempio che gli ebrei costruirono l'edificio del Talmud.

È stato sulla scia della Shoah che gli Ebrei hanno potuto ricostruire il loro Paese dopo duemila anni di esilio.

Il peggio può partorire il più bello, lo abbiamo sperimentato.

 

Anche nella nostra vita personale, per molti di noi.

 

Sì, da questa peggiore delle gestazioni, così mostruosa che non è ancora finita, voglio credere che possa nascere una nuova società, per tutti noi su questa terra.

Lo ammetto, faccio fatica a crederci. Sono disperata.

E tuttavia.

 

Oggi celebriamo il nuovo mese di Tammuz.

Un mese triste, poiché il 17 del mese gli ebrei digiuneranno in ricordo della prima breccia nelle mura durante l'assedio di Gerusalemme, entrando così in un periodo di “tre settimane” di lutto progressivo che li porterà a Tisha b 'Av, il giorno più triste dell'anno ebraico.

In quel giorno piangeremo, ancora una volta, quest'anno più che mai, la distruzione del Tempio.

 

Ma dall’inizio di Tammuz, che il Sefer Yetzira chiama il mese della “visione”, e durante Shabbat Hazon (letteralmente, la “visione”) che precede Tisha b’Av, inquadreremo la sfortuna fissandole un orizzonte.

Da oggi, prima di entrare in questo periodo cupo del calendario ebraico in cui sprofonderemo insieme nel lutto collettivo, possiamo fare una scelta: quella di guardare, ben oltre la distruzione, verso la promessa che seguirà: la possibilità di un vero rinnovamento.

Perché quello che ci aspetta nel calendario ebraico, dietro la distruzione, non è altro che Tu b’Av, la festa dell’amore, poi Elul, il mese del ritorno, verso Rosh haShana e Yom Kippur, verso la grande rinascita.

Così oggi, al termine del nono mese di questa guerra insensata, scelgo di credere che questa peggiore delle gestazioni potrà partorire, dall'altra parte della sventura, qualcosa, sì, di buono.

Scelgo di crederci.

Non abbiamo scelta.