Fondazione Robert Schuman, STRASBOURG, BRUXELLES
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Paura dell'impantanamento di Simon SERFATY
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
A Samuel Beckett piaceva insistere sul fatto che non sapeva chi fosse Godot, né cosa stessero aspettando i suoi due personaggi, Vladimir ed Estragon. Questa non era l'ultima delle assurdità della sua commedia, che aveva scritto in francese, diceva l'autore irlandese, perché non conosceva bene la lingua.
Serio o no, Beckett non stava descrivendo la situazione in cui ci troviamo: non sapere cosa aspettarci, mentre entriamo nella seconda, e forse ultima, parte della presidenza Biden. Negli Stati Uniti, una democrazia alla deriva, lontana dalla "perfezione" che i suoi padri fondatori speravano di raggiungere; in Europa, una guerra sporca bloccata dall'intransigenza dell'aggressore, che si scambia per Stalin, in peggio, di fronte all'eroismo della sua vittima, che si presenta come Churchill, in meglio; e, nel mondo, un cambiamento che difficilmente comprendiamo anche se si sente un po' di accento americano. Nell'attesa, di chi o cosa, come Estragon e Vladimir? La metà degli americani aspira al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e l'altra metà spera di vederlo finire in prigione; una parte del mondo che accoglie con favore la rinascita della leadership americana, e l'altra che vuole trarre profitto dal suo declino; e ovunque, nuove apprensioni di fronte a una guerra che i suoi protagonisti non possono realisticamente vincere ma alla quale entrambi si rifiutano di porre fine.
Dopo dieci mesi di guerra in Ucraina, chi sa cosa ci aspetta? "Non abbiamo ancora iniziato nulla", avverte Putin durante la controffensiva ucraina, come a ricordarci che nonostante l'evidenza del suo fallimento, la Russia rimane in una posizione di forza poiché controlla la sua escalation di là da ciò che l'Ucraina può concepire e l'Occidente intravedere. "Non abbiamo perso nulla e non perderemo nulla", afferma, come risposta alla promessa del presidente ucraino "di costringere la Russia a porre fine a questa guerra" dopo la liberazione di ogni centimetro quadrato del suo Paese e la sottomissione del Presidente russo. È l'impantanamento e, nell'impantanamento, l'escalation, senza una via d'uscita che ne porrebbe fine. Al contrario, Joe Biden, che si sente preoccupato, minaccia Mosca di massicce ritorsioni se Putin oltrepasserà linee rosse ancora sconosciute e appena tratteggiate.
Avendo spesso detto quello che avrebbe fatto, Putin oserà fare quello che ha detto? Questo non è un ritorno ai 13 giorni della crisi missilistica del 1962: Putin non è Krusciov, e ciò che si sa di lui suggerisce che, a differenza del suo predecessore, potrebbe benissimo scegliere la peggiore delle cattive opzioni per uscire dall'impasse. E poi – l'escalation nello scambio di attacchi nucleari?
È tempo di essere realistici, cioè di capire il percorso che stiamo facendo e, se necessario, frenare prima che sia troppo tardi. Echi della guerra di Corea dopo lo sfondamento di Inchon nel settembre 1950, o della guerra del Vietnam dopo la deposizione di Ngo Din Diem nel novembre 1963, o ancora della guerra in Iraq dopo la cattura di Saddam Hussein nel dicembre 2003: tante occasioni mancate per porre fine una brutta guerra prima che essa porti a costi insopportabili e tragici. Per quanto dolorosa possa essere, è necessaria una rivalutazione strategica, politica e diplomatica piuttosto che militare, regionale piuttosto che nazionale, multilaterale piuttosto che bilaterale – e prima è, meglio è. Una guerra sporca che si trascina, un cattivo affare che peggiora, inutilmente e a caro prezzo.
Per chi teme la pacificazione, la volontà di discutere non fa eco a Monaco, prima della guerra, o a Yalta, nel dopoguerra: l'Ucraina non è né l'Austria del 1938, quando la Germania nazista era ancora debole e avrebbe potuto essere fermata militarmente, né la Polonia del 1945, quando la guerra in Europa era già vinta dalle democrazie occidentali e non era pronta per uno scontro armato con Mosca. Per chi crede in uno statu quo ante bellum alla coreana, dopo due anni di futili combattimenti, questa guerra non beneficia di linee rosse reciprocamente accettate dietro le quali i belligeranti possano attendere il momento "giusto" che consentirebbe l'apertura dei negoziati. Per coloro che sognano il ritiro incondizionato di Putin o l'improvviso cambio di regime in Russia, non si tratta della guerra in Afghanistan, intrapresa dallo stanco leader di uno stato sovietico logoro i cui giorni migliori, se ce ne furono, sono alle spalle. Si tratta di un momento a parte, di una crisi esistenziale globale come non si vedeva in Europa dal 1914, ma che rischia di sprofondare in un pantano sempre più profondo, potenzialmente pieno di scorie nucleari.
Un giorno "ci sarà un pericoloso contraccolpo", diceva Jacques Chirac a proposito della Russia, un paese che Bill Clinton – indifferente agli avvertimenti di Boris Eltsin che gli ricordava che "la Russia non è Haiti" – pensava fosse morto per sempre. All'alba di un nuovo secolo, Putin è stato curiosamente accolto da George W. Bush come anima gemella, ma la sua scelta tra cooperare con gli Stati Uniti o manovrare contro di essi era già fatta: ricaricare in fretta per tornare al tempo della guerra fredda con l'allargamento come alibi, il recupero come strategia, la storia russa come motivazione e, come campo di battaglia, l'Ucraina, il punto più dolente di un crollo che i russi hanno continuato a lamentare a larga maggioranza già dopo il 1991. Nell'estate del 2008, la breve guerra contro la Georgia ha confermato le intenzioni di Putin, ma questo monito è stato ignorato sia da Obama, che non rispettava né il presidente russo né il suo Paese, sia da Trump, che ammirava Putin ma disprezzava la Russia.
Per lo più, Putin non ha ingannato i suoi interlocutori, ma ha ingannato se stesso: sul suo esercito, sul carattere dell'Ucraina, sulla determinazione di Biden e sull'unità dell'Occidente. Nell'autunno del 2021, gli avvertimenti americani di un assalto russo su vasta scala a Kiev sono rimasti inascoltati al Cremlino, rassicurati dalla riluttanza di Biden a usare la forza armata; sono stati ignorati dagli ucraini, scettici sulla volontà di Putin di lanciarsi in una simile scommessa strategica; e sono rimasti in parte trascurati dalla maggioranza degli alleati europei, che avevano appena seguito l'ultima débâcle degli Stati Uniti in Afghanistan.
La guerra sarebbe stata breve, era quindi ciò che era previsto non solo a Mosca ma anche a Washington e in quasi tutte le capitali interessate dal conflitto – una nuova versione dello shock and awe americano in Iraq, orchestrato questa volta da Mosca. A complicare le cose, i due stati in guerra proiettavano un quadro ancora nebuloso: l'Ucraina non era più la repubblica sovietica del dopoguerra e la Russia non era più la superpotenza della guerra fredda. Ma, mentre la guerra si trascina, lo stallo solleva preoccupazioni sulla sua direzione e sulle sue conseguenze, intenzionali o meno.
Alla ricerca della migliore delle peggiori opzioni, la formula di Churchill, "incontrarsi faccia a faccia è meglio della guerra", si adatta bene. Chiamare Putin con tutti i nomi possibili mentre si aspetta che lasci l'Ucraina, a mani vuote e a testa bassa è una strategia rischiosa. Come ci ha ricordato di recente Henry Kissinger – e non e non è la prima volta – la prova della leadership consiste nel moderare la propria visione con sufficiente cautela per comprendere i limiti di ciò che è realizzabile a un prezzo che rimane accettabile. Kissinger conosce bene la storia, alla quale ha decisamente contribuito in risposta alle crisi che ha vissuto, personalmente e come statista. La sua lettura del passato lo rende sensibile al "brusio" che si ode sopra le già sentite chiamate alle armi lanciate in nome di una giustizia che punisce in via prioritaria coloro che se ne fanno araldi.
La Russia è il principale perdente della guerra: è un risultato acquisito, probabilmente irreversibile. Dopo dieci mesi di guerra, è sconfitta, umiliata e isolata: il suo esercito sconfitto, la sua economia squilibrata e i suoi leader umiliati. Negli ultimi 75 anni, raramente le armi americane sono state utilizzate così bene. Ridotta a una piccola coorte di alleati o partner costretti, corrotti e marginali, la Russia è ora percepita dalla Cina e da altri stati non occidentali come un supplicante bisognoso di capacità di sicurezza, partner commerciali, sostegno finanziario e riabilitazione strategica. Attenzione, però. Umiliare la Russia non è una strategia vincente, e cercare di seppellirla in Ucraina sotto sanzioni e minacce potrebbe deviare la sua rabbia oggi contro Putin, l'architetto della débâcle della Russia, e verso l'Occidente in seguito. Putin è quello che è perché la Russia è quello che è: la sua storia modella le prospettive dei suoi leader e le aspirazioni del suo popolo, non importa chi e non importa quando, come abbiamo imparato dopo le due guerre mondiali e dopo la guerra fredda. Per il dopoguerra, si consideri piuttosto Kennedy nel giugno 1963, che cercava la distensione appena sei mesi dopo il suo faccia a faccia con Mosca nei Caraibi.
La Russia non è in procinto di sciogliersi, ma Putin è probabilmente finito, con indici di gradimento in netto calo e critiche più diffuse e meglio ascoltate. Ci sono dei precedenti: l'impeachment di Krusciov è arrivato due anni dopo il suo fiasco nei Caraibi, e non passerà molto tempo prima che il cosiddetto presidente a vita giunga alla fine del suo mandato; da marzo 2024, quando una nuova candidatura sarà problematica per un presidente uscente ossessionato dal caos e che vuole darsi la possibilità di influenzare la scelta del suo successore.
Ma un cambiamento al Cremlino farebbe davvero la differenza? Insoliti richiami a Breznev che, dopo Krusciov, fu autore di una dottrina legata a vent'anni di scontro sempre più globale o, prima, ai carri armati sovietici per le strade di Budapest tre anni e mezzo dopo la morte di Stalin. Naturalmente, c'è Gorbachev come eccezione. Ma la panchina politica al Cremlino oggi è limitata ai candidati che chiedono più guerra e accettano meno linee rosse. Dopo Putin, tanto vale aspettarsi un altro sosia, ma in peggio? Già tre volte nel XX secolo le guerre di successione a Mosca non hanno influenzato tanto il modo in cui è governata la Russia - da Lenin a Stalin passando per Breznev e Putin, e nonostante Krusciov - né le sue relazioni con l'Europa, indipendentemente dalla sua rappresentazione - bianca, rossa o sfocata.
Mentre Putin continua ad affondare nel buco strategico che si è scavato, si ritrova a corto di opzioni: mobilitazione parziale, annessione provocatoria, degrado delle infrastrutture, un po' di cibernetica, bombardamento delle popolazioni civili e, ultimo livello del pre-escalation nucleare, la minaccia di utilizzare una o più bombe sporche dopo l'evacuazione preventiva dei territori appena annessi. Passerà quindi all'energia nucleare, la prima volta dall'agosto 1945? E dopo, perdente tra gli irriducibili - non perdere senza morire o morire per non perdere?
Non parlarne mai… ma pensarci sempre: resta la realtà che nessun presidente americano rischierà una guerra nucleare in assenza di un attacco diretto al continente americano. Anche nel contesto della crisi missilistica del 1962, nessuno può sapere, ad oggi, come avrebbe reagito Kennedy se Krusciov non avesse preso la rampa di uscita offertagli dal suo omologo americano. La logica del più forte si contrappone a quella del meno pazzo. E Biden non è Kennedy, meno conflittuale per temperamento e più cauto per posizione.
In Occidente c'è motivo di rallegrarsi: si diceva che l'Europa fosse orfana, atrofizzata e a rischio di Alzheimer; si diceva che la NATO fosse divisa, consumata e superata, un monumento storico, per usare l'espressione prematura di François Mitterrand; abbiamo visto la Russia in fuga, potenza più che mai inevitabile in Europa e altrove. Le cose sono cambiate: la Russia si è indebolita, l'America si è rafforzata e l'Europa si è integrata. Complimenti Putin, ci hai servito bene: la NATO è cresciuta, la sua identità e importanza sono state ripristinate; l'America ha riacquistato il suo slancio e la sua autorità; e l'Europa ha assunto il suo ruolo, ciò che anche gli euroscettici professionisti applaudono. Ma può durare? Difendere e armare Kiev è una cosa, ma morire per essa, di freddo, di fame o uccisi, è un'altra. Se così non fosse, oggi ci sarebbero forze americane in Ucraina e un vero e proprio embargo europeo sulle importazioni di gas russo.
Man mano che la guerra si trascina, i suoi obiettivi diventano più ambiziosi: Putin deposto, la Russia sconfitta e un'Ucraina trionfante riportata ai suoi confini del 1991, ma a quale prezzo? Opinioni (e citazioni) divergono, a seconda che vengano formulate al di qua e al di là dell'Atlantico, tra i membri dell'Unione Europea e con quelli che restano fuori dall'Unione, così come tra l'Ucraina e la cinquantina di Paesi che la sostengono o che si astengono. Qualunque cosa si dica, non siamo tutti ucraini. Godendo ancora del sostegno di due americani su tre, la guerra ha avuto poca influenza sulle elezioni di metà mandato dello scorso novembre. Ma all'indomani di queste elezioni quasi un americano su due, preoccupato per un impegno eccessivo del proprio Paese in Ucraina, ritenuto dannoso per altre priorità nazionali, vuole porre fine a questa guerra il prima possibile, anche a costo di qualche concessione territoriale. Secondo Biden, spetta a Zelensky decidere "se e quando" sarà pronto a negoziare. Ma quanto tempo ha prima di prendere la sua decisione? Con la discreta eccezione di Macron, anche gli europei preferiscono non esprimersi.
Pur applaudendo l'unità degli alleati, aspettatevi le domande difficili che attendono il loro momento. Dopo la breve guerra in Georgia, gli Stati Uniti hanno scoraggiato l'aggressione russa? No. Ciò rafforza gli argomenti a favore dell'autonomia strategica. In previsione della guerra, hanno risposto alle crescenti richieste di armi da parte dell'Ucraina? No. Ciò richiede un aumento dei budget militari. Non essendo riusciti a dissuaderli, si sono uniti alla lotta? No. Questo incoraggia la ricerca di alleanze complementari. Avendo sottostimato la guerra, a caro prezzo, hanno una strategia per porvi fine? No. Ciò rinnova la necessità di un concetto strategico specifico per l'Europa.
Che gli Americani abbiano anche delle domande da porre ai loro alleati in Europa e alla loro Unione non è meno certo: no, ricorderà questo presidente o il suo eventuale successore, al 2% chiesto dalla Nato, no a una maggiore indipendenza energetica nei confronti della Russia, no all'adesione dell'Ucraina alla NATO o all'Unione Europea. Dopo la guerra, i grandi dibattiti transatlantici e intra-europei rischiano di essere difficili. Ricordiamo la crisi dei missili di Cuba, che, solo tre mesi dopo aver dimostrato la coesione degli alleati, ha turbato l'Alleanza per due decenni dopo la dichiarazione del 14 gennaio 1963: allontanamento dagli Stati Uniti, confusione intra-europea, ricalibrazione Est-Ovest e recriminazione nord-sud fino a quando Reagan, dopo Carter, riconquistò la fiducia degli alleati e alla fine pose fine all'Unione Sovietica.
Insomma, la NATO è stata presente in Ucraina, ma per quanto riguarda l'Alleanza? "L'America è tornata", ha detto Biden per rassicurare i suoi interlocutori durante la sua prima visita in Europa da presidente; "per quanto tempo", gli ha chiesto Macron. Mentre si preparano le prossime elezioni presidenziali americane, la deriva della democrazia americana non è rassicurante. Partner indispensabili quando la leadership americana si esprime nella crisi, gli Stati europei dovranno mostrare una volontà di ferro e di ripresa, una volta risolta la crisi e nell'annuncio di quelle che seguiranno. Dopo un livello di consultazione senza precedenti non solo all'interno della NATO ma tra la NATO e l'Unione europea - probabilmente la migliore gestione dell'alleanza da parte degli Stati Uniti dalla prima guerra del Golfo - si prevede un riposizionamento degli Stati Uniti e dell'Europa l'uno rispetto all'altro: in Ucraina ma anche con la Russia, con Biden ma anche dopo di lui, con la Cina ma anche ovunque in Asia, in Africa e ovunque nel mondo.
Altrove, c'è del risentimento per gli aiuti concessi all'Ucraina. In effetti, i tre decenni successivi alla Guerra Fredda suggeriscono che le priorità occidentali non definiscono un ordine mondiale stabile, e che le loro peggiori conseguenze spesso ricadono sugli stati esclusi dalle loro decisioni, compreso il "who's who" delle potenze mondiali che definirono la struttura e il carattere di un nuovo ordine mondiale che promette di essere uni-, bi- e multipolare allo stesso tempo.
L'Ucraina rafforza inoltre l'impressione che le guerre non abbiano tutte la stessa importanza, secondo le vittime e i luoghi. «L'Ucraina deve vincere perché è una dei nostri», dichiarò goffamente il presidente della Commissione europea a Davos nel giugno 2022. Vale a dire una guerra «in casa», i cui abitanti sono facilmente identificabili perché ci somigliano, e meritano la nostra protezione e il nostro aiuto – a differenza di una guerra «a casa loro» che ci riguarda meno o per niente, che si tratti delle guerre nel Sahel e nelle regioni del Tigrè, o della ricostruzione in Siria e Afghanistan, e di tanti altri conflitti.
Un ordine di "due pesi, due misure" che fa eco a Sam Huntington? Dopo quasi 300 giorni di guerra, gli aiuti statunitensi – militari, economici e umanitari – ammontano a 68 miliardi di dollari, più i 37,7 miliardi di dollari di ulteriori aiuti richiesti da Biden il 15 novembre per il prossimo esercizio fiscale - ovvero uno stanziamento mensile di circa 1,5 miliardi di dollari , senza contare i 41 miliardi promessi dalla cinquantina di paesi associati a questo sforzo, la maggioranza dei quali europei. Ma nel frattempo, cosa accadrà ai combattimenti in Ucraina? Già in preparazione un piano di ricostruzione stimato in 750 miliardi di dollari, ovvero circa tre volte di più (a dollari costanti) del piano Marshall per l'Europa del secondo dopoguerra - con in più la promessa di adesione all'Unione Europea a una data che sembra certa. Invece, per gli altri che non sono dei nostri, ogni progetto, ogni concessione richiede un'elemosina senza fine. Così, ci sono voluti 30 anni di dibattito per accettare l'idea di un fondo per indennizzare i Paesi, i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili al cambiamento climatico. E ancora, ed è ancora solo un'idea da seguire, la fonte dei fondi e la loro distribuzione, per non parlare dei loro beneficiari, rimangono sconosciuti. Come ama dire il Segretario di Stato Antony Blinken, la fiducia è tornata ma l'umiltà è d'obbligo. Certo, Biden, come Carter 45 anni fa, ha ricostruito l'immagine di un'America più accogliente degli «altri», rinnovando, tra l'altro, il vertice con gli Stati africani che era stato abbandonato da Trump durante tutta la sua presidenza. Le iniziative sono applaudite, ad esempio proponendo l'Unione africana come membro permanente del G20. Allo stesso modo la sua promessa di accordare 55 miliardi di dollari in aiuti economici, sanitari e umanitari in un periodo di tre anni.
Ma i criteri sono cambiati: un piccolo gesto che difficilmente promette di fornire un baluardo alla Cina, la cui influenza può essere acquistata con un libretto di assegni molto meglio riempito per i beni che brama, e si rafforza con scambi commerciali quattro volte superiori a quelli degli Stati Uniti Stati nel 2021 – e che si proteggono con gli stivali militari che si propone di indossare nei territori che rivendica o che vorrebbe adottare. Per quanto riguarda Taiwan in particolare, il fallimento di Mosca in Ucraina le insegna come non procedere, ma è anche lì che impara ciò che non deve essere temuto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati.
Per facilitare la seconda lunga marcia della Cina fino al suo appuntamento con la Storia nel 2049, la Russia è una stazione di servizio convenientemente situata e disponibile a basso costo, con un vasto magazzino di armi strategiche come bonus. Di fronte a "cambiamenti bruschi, venti forti e tempeste pericolose", secondo Xi Jinping, chi è più disponibile della Russia a soddisfare il bisogno della Cina di avere alleati capaci e compatibili? Questa prospettiva renderebbe i rischi di una nuova Guerra Fredda ancora più pericolosi della prima, perché a una Russia amareggiata e revanscista si affiancherebbe una Cina con un pesante bagaglio di rivendicazioni storiche e ambizioni territoriali.
Biden si è affermato in Ucraina, probabilmente con la migliore prestazione di un presidente degli Stati Uniti dai tempi di Truman a Berlino nel 1948 in termini di gestione dell'escalation, e la migliore dai tempi di George H. Bush nel 1991 in termini di gestione dell'alleanza. Allo stesso modo, il contributo dell'Europa è stato il più coerente e costruttivo dopo queste due pietre miliari del dopoguerra. Detto questo, con l'avvicinarsi del primo anniversario di guerra le apprensioni aumentano: la guerra in Europa, una volta ritenuta superata, minaccia di nuovo, compresa la guerra nucleare, un tempo ritenuta impensabile ma ora discussa come se fosse una guerra come le altre, con uno scenario del tipo "io, Tarzan, tu, Jane" - la giungla, insomma. Immagini sfocate del momento di Sarajevo, deciso dall'Austria - Ungheria, con un assegno in bianco della Germania imperiale, e della Serbia, fiduciosa dell'appoggio illimitato della Russia (e, per associazione, della Francia). Rivivendo questo momento, lo storico diventa il giudice-penitente di Camus – giudice per la sentenza ma anche penitente perché essa vale anche per chi gli è vicino.
Convincere Zelensky a ripensare ai suoi obiettivi, per quanto legittimi, di liberare i territori occupati e finirla con la Russia, è dare qualcosa al suo aggressore. Ma non aprire a Putin una via d'uscita che gli permetta di accettare il suo fallimento sta esponendo l'Ucraina al peggio, anche se la guerra l'ha posta sotto la sicura protezione della NATO per quanto riguarda la sua sicurezza e l'ha stabilita come futuro membro dell'Unione europea in termini di identità. A cui aggiungere l'acquis della ricostruzione, compreso il possibile utilizzo di fondi russi congelati nelle banche occidentali per la ricostruzione dei territori occupati in nome di un'Ucraina unita, imponendo al Cremlino la scelta che Stalin rifiutò nel 1947 quando gli aiuti di Marshall furono offerti ai paesi satelliti dell'Est Europa.
È giunto il momento di cercare una finalità che non indebolisca Zelensky, rafforzato dai suoi successi, e non rafforzi Putin, indebolito dal suo fallimento. Certo, l'insistere sulla necessità del negoziato è inteso diversamente, in una confusione di temperamenti regionali, obiettivi geopolitici, umori popolari, pressioni economiche e interpretazioni storiche. Indubbiamente l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin è stato un grossolano errore strategico. Ma il suo errore è divenuto un problema planetario di natura esistenziale. E poiché l'inverno ostacola la lotta, è giunto il momento di insistere sulla necessità di negoziare, senza timidezza per gli uni e con rimorso per gli altri. Se non ora quando? Se non noi, Americani ed Europei, chi? Se non con i nostri avversari, Cina compresa, con o senza chi?
Abbiate timore del ronzio della Storia: i suoni che sentite non sono le trombe di Gerico ma i cannoni di agosto.
Simon Serfaty, professore (emerito) di politica estera americana alla Old Dominion University di Norfolk, Virginia, e titolare della Zbigniew Brzezinski Chair in Geopolitics al CSIS di Washington.
I suoi lavori più recenti pubblicati: America in the World from Truman to Biden: Play it again, Sam (Palgrave-McMillan, autunno 2021) e A new world in need of America (Odile Jacob, ottobre 2021).
19 dicembre 2022
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ELEZIONI PARLAMENTARI DEL 25 SETTEMBRE 2022 IN ITALIA
31/08/2022 – Analisi
Lettera speciale della FONDAZIONE ROBERT SCHUMAN di
Corinne Deloy
Autore dell'European Elections Monitor (EEM) per la Fondazione Robert Schuman e project manager presso l'Institute for Political Studies (Sciences Po).
Il 21 luglio 2022 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sciolto il parlamento e ha indetto le elezioni parlamentari anticipate in Italia per il 25 settembre. Questa decisione ha fatto seguito al rifiuto di alcuni partiti della coalizione di appoggiare il presidente del Consiglio Mario Draghi.
La crisi politica
Ufficialmente i parlamentari si sono scontrati per il voto su un decreto legge da 23 miliardi di euro pensato per aiutare gli italiani a far fronte all'impennata dei prezzi dell'energia e che ha conferito poteri speciali al sindaco di Roma per la realizzazione di un impianto di incenerimento dei rifiuti nel Lazio.
Il testo ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ma il Movimento 5 Stelle (M5s), contrario a questo provvedimento, che considerava una “provocatoria”, se ne è servito per innescare una crisi di governo decidendo di non partecipare al voto di fiducia.
Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea (BCE) (2011-2019), dal febbraio 2021 guida un governo di unità nazionale che riunisce partiti di destra (Lega (Lega), Forza Italia (FI)) e la sinistra (Partito Democratico (PD), Liberi e Pari), oltre al M5S. Non ha partecipato solo Fratelli d'Italia (FdI).
Il governo è unito sulla necessità di gestire i 209 miliardi di euro (di cui 69 miliardi di euro in sovvenzioni e 122 miliardi di euro in prestiti) assegnati all'Italia dall'Unione Europea nell'ambito dell'emergenza sanitaria e destinati alla ripresa del Paese tramite il Piano NextGenerationEU .
Le elezioni parlamentari erano originariamente previste per febbraio 2023.
Il M5S, emerso come il partito più forte alle elezioni parlamentari del 4 marzo 2018, è ora molto indebolito. In origine contava 227 deputati e 111 senatori; cinque anni dopo, ne ha rispettivamente solo 105 e 62. Il partito ha scelto di innescare una crisi politica e di utilizzare Mario Draghi come capro espiatorio nel tentativo di riposizionarsi come forza di opposizione e di riconquistare gli elettori alle prossime elezioni. Giuseppe Conte non si è certo dispiaciuto di vendicarsi del suo successore a Palazzo Chigi, residenza del Presidente del Consiglio italiano. Il M5S sperava di guadagnare potere dopo questa mossa; mentre Lega e Forza Italia pensavano che seguendo l'esempio avrebbero potuto approfittare della nuova legge elettorale per affermarsi con Fratelli d'Italia (FdI).
Giuseppe Conte ha così fatto un regalo inaspettato a Lega e Forza Italia, che hanno saputo far cadere il governo senza doversene assumere la responsabilità. Perché è importante notare che Mario Draghi è molto popolare tra la popolazione. I sondaggi mostrano che gli italiani non approvano il crollo del governo. Ritengono la Lega e il M5S responsabili dell'evento. Quest'ultimo ha giustificato la sua presa di posizione contro il governo di Mario Draghi, affermando che le sue priorità (introduzione di un salario minimo e incentivi fiscali per la ristrutturazione energetica della casa) non erano state prese in considerazione, ma per gli analisti politici la posizione del partito era principalmente un tentativo di opporsi Mario Draghi per riconquistare il suo elettorato.
Il 14 luglio il presidente del Consiglio ha quindi presentato le proprie dimissioni al presidente Mattarella, che le ha rifiutate e ne ha proposto la comunicazione ad entrambe le camere del parlamento il 20 luglio. Il capo del governo ha detto che rimarrebbe in carica se potesse ottenere il sostegno dei principali partiti politici ea condizione che i partiti della coalizione si allineassero e si accordassero su un patto di governo messo a repentaglio la settimana precedente dalla defezione del M5S. "L'unica soluzione se vogliamo ancora stare insieme è ricostruire questo patto con coraggio, altruismo e credibilità ", ha sottolineato Mario Draghi. "Il merito dei risultati che abbiamo raggiunto va a voi. Sono il premio per la vostra disponibilità a dimenticare le vostre differenze e a lavorare per il bene del Paese. Ciononostante, il governo uscente ha ottenuto solo 95 voti, contro 38, ma la maggioranza si è astenuta, compresi esponenti di 5S, Lega e Forza Italia. "Il patto di fiducia che ha sostenuto l'azione del governo è stato infranto. Il Patto di Unità Nazionale (il nome dell'alleanza suggellata da Mario Draghi nel febbraio 2021 per far uscire l'Italia dalla crisi economica e sanitaria che stava attraversando) non esiste più", ha lamentato il Presidente del Consiglio.
L'offensiva contro Mario Draghi era iniziata a più riprese settimane prima, quando il M5S e la Lega, dichiarandosi a favore di una soluzione diplomatica alla guerra in Ucraina, si erano espressi contro l'invio di armi a Kiev.
Una breve campagna elettorale
Il sistema elettorale misto (sia proporzionale sia maggioritario) favorisce grandi coalizioni elettorali, in particolare quella che unisce i partiti di destra. L'istituto di opinione Cattaneo ha stimato al 70% il numero dei collegi elettorali in cui la destra ha un vantaggio.
Lo scenario di un "campo di Mario Draghi" di fronte a chi ha fatto cadere il presidente del Consiglio sembra aver fatto il suo tempo. "Per la sinistra, questa è l'unica strategia possibile se vogliono vincere le elezioni, mentre le dichiarazioni delle intenzioni di voto mostrano che sono quasi 13 punti dietro la destra, e cioè se si includono i partiti di centro", ha detto Nando Pagnoncelli, direttore dell'istituto Ipsos in Italia, aggiungendo "Cosa faranno i tradizionali elettori di destra che avevano un'immagine molto positiva di Mario Draghi? Questa è la vera domanda". Infine, l'implosione del M5S dovrebbe cambiare il gioco e segnare la fine del sistema tripartito che ha dominato l'Italia negli ultimi dieci anni.
Le forze di destra, guidate da Fratelli d'Italia, e di testa di Giorgia Meloni, che potrebbe diventare la prima donna presidente del Consiglio, secondo i sondaggi in netto vantaggio. Considerata come la figura dell'opposizione, la questione è quindi meno chi vincerà le elezioni del 25 settembre che l'entità della vittoria delle forze di destra. Otterranno la maggioranza assoluta? Quale sarà l'equilibrio tra i diversi partiti che compongono la destra?
A sinistra, Enrico Letta guida un partito diviso tra la sua ala socialdemocratica e un polo di sinistra più radicale. "La mia voce è quella dell'unico partito che non ha il nome del suo leader nel suo simbolo. Rivendico questa scelta perché un partito è una comunità, non un leader ", ha detto. La frase è corretta, ma il leader democratico soffre comunque di non aver potuto estendere la sua leadership formando un'ampia coalizione con alcuni partiti di centro. Inoltre, il mancato accordo tra Pd e M5S ha ulteriormente indebolito la schiera di sinistra.
Secondo l'ultimo sondaggio pubblicato il 20 agosto, Fratelli d'Italia dovrebbe avanzare alle elezioni parlamentari con il 25% dei voti. La Lega dovrebbe vincere il 12,5% e Forza Italia il 7,5%. In totale, le forze di destra dovrebbero raccogliere il 47,5% dei voti.
Il Partito Democratico dovrebbe arrivare secondo con il 20,5% dei voti ma la coalizione di sinistra (che comprende Europa+ (EU+) di Emma Bonino, Impegno civico (IC) di Luigi Di Maio e Alleanza Verde e Sinistra (AVS) , si prevede che vincerà solo il 25,5%.
Il M5S dovrebbe ottenere il 12,5% dei voti.
Infine, la coalizione centrista formata da Azione e Italia Viva dovrebbe ottenere il 7,5% dei voti.
Enrico Letta non è riuscito a formare il sindacato più ampio
"La caduta del governo Mario Draghi è un suicidio collettivo. Il Paese è a un bivio: o vinciamo o prevarrà l'estrema destra di Giorgia Meloni", ripete Enrico Letta. Per vincere, il leader del Partito Democratico ha lavorato duramente per costruire un'ampia alleanza che riunisse democratici e progressisti. La rottura con il M5S di Giuseppe Conte, considerato dal leader democratico il primo responsabile della caduta del governo di Mario Draghi, sembra definitiva e irreversibile.
"La legge elettorale, che è la peggiore della storia, ci impone di essere uniti. È mio dovere fare tutto, perché so qual è la destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini e che se dovessero vincere" ha detto Enrico Letta, aggiungendo il rifiuto dei partiti centristi di allearsi con il Pd "sarebbe un regalo per Giorgia Meloni ".
Il Pd non è però riuscito a stabilire l'accordo elettorale sperato, che avrebbe ha riunito personalità che vanno dalla sinistra radicale alla destra berlusconiana, che si era schierata con Mario Draghi, oltre a centristi e disertori del M5S.L'implosione di quest'ultimo e la mancata unione con i partiti "piccoli" stanno sicuramente indebolendo il forze a sinistra.
Enrico Letta, già presidente del Consiglio (2013-2014), può contare sul sostegno di Impegno Civico (CI), partito ideato da Luigi Di Maio, già dirigente del M5S (2017-2020) e ministro degli Esteri uscente e Cooperazione Internazionale, che ha alleato con il Centro Democratico (CD) in Insieme per il Futuro (IF) per le elezioni.
Luigi Di Maio ha lasciato il suo partito il 21 giugno per mancanza di sostegno all'Ucraina. "Basta ambiguità. Di fronte alla barbarie di Vladimir Putin, non possiamo esitare", ha dichiarato. L'hanno seguito 60 rappresentanti eletti. Sperava di attirare gli elettori che avevano optato per il M5S nelle elezioni del marzo 2018 e che, secondo i sondaggi, si sarebbero opposti alla caduta del governo di Mario Draghi.
"Il Pd dovrà smentire i sondaggi d'opinione, che già lo mostrano come il grande perdente in queste elezioni. Si presenta all'elettorato come l'unica forza fedele a Mario Draghi, di cui sta riprendendo il programma riformista, ma dovrà fare i conti con la tradizionale dispersione delle forze di sinistra. L'assenza di un leader forte e carismatico potrebbe, in questo contesto, rivelarsi un vantaggio", ha affermato Massimiliano Panarari, politologo all'Università Mercatorum di Roma.
Se il Pd riesce a sviluppare e diffondere un messaggio chiaro ed efficace su temi chiave come l'occupazione e l'ambiente, e se non si limita a denunciare il pericolo di una vittoria per le forze di destra, allora la sinistra può sperare di attrarre elettori del M5S, che, a quattro settimane dalle elezioni, sembra perdere terreno.
Il Partito Democratico e i suoi alleati si presentano come un polo aperto alla società civile e a tutti coloro che credono nella Costituzione e in una vera transizione ecologica con un programma basato su tre assi: lavoro e giustizia sociale, diritti civili e sviluppo sostenibile. Promette di lavorare sulla riduzione delle disuguaglianze sociali (bonus per la riqualificazione energetica delle case, crescita del PIL del 6,6%), di combattere la corruzione e l'impoverimento della popolazione e di ridurre le tasse.
La coalizione del Partito Democratico non è la favorita, ma i partiti di sinistra possono contare sulle loro roccaforti nelle città più grandi (Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze e Napoli) e parte dell'ex zona rossa d'Italia, Emilia Romagna e Toscana. "O noi o Fratelli d'Italia", dice Enrico Letta, che ha un solo avversario, la coalizione guidata da Giorgia Meloni, e il suo obiettivo è fare del Pd la sera del 25 settembre il primo partito in Italia.
Vantaggio per le forze di destra
Fratelli d'Italia è l'unico partito italiano ad aver rifiutato di partecipare al governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi e, inoltre, ad aver scelto il campo di opposizione durante gli ultimi tre governi. Ora è in testa ai sondaggi d'opinione per le elezioni del 25 settembre, alle spalle del partito di Enrico Letta. La sua leader, Giorgia Meloni, afferma di essere la leader dell'opposizione. Ha comunque bisogno del sostegno dei suoi alleati, Lega e Forza Italia. I tre partiti si contendono il nome del prossimo presidente del Consiglio in caso di vittoria. "Il partito che otterrà più voti deciderà chi prenderà le redini del Paese per i prossimi cinque anni", ha detto Matteo Salvini a Canale 5. Giorgia Meloni, che punta a diventare la prima leader donna italiana, ha sottolineato che nessuna alleanza potrebbe essere conclusa senza un accordo su chi guiderà il governo. "Se non possiamo essere d'accordo sul nome del candidato di destra alla presidenza del Consiglio, correre insieme non ha senso", ha detto.
"Sono diversi giorni che leggo articoli sulla stampa internazionale sulle prossime elezioni che daranno all'Italia un nuovo governo, in cui vengo descritta come un pericolo per la democrazia, per la stabilità italiana, europea e internazionale ", ha detto Giorgia Meloni, che confuta totalmente questo tipo di affermazione: "La destra italiana da decenni consegna il fascismo alla storia, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le famigerate leggi antiebraiche ", ha detto, rivolgendosi a Enrico Letta: "Non accetteremo lezioni da chi si presenta come difensore dell'atlantismo e che si allea con la sinistra radicale nostalgica dell'URSS" .
I Fratelli d'Italia, il cui nome è formato dalle prime parole dell'inno italiano, è un partito nazionalista, conservatore, euroscettico che difende posizioni molto ferme sull'immigrazione. È il successore del Movimento Sociale (MSI), partito neofascista fondato nel 1946, e dell'Alleanza Nazionale (AN) di estrema destra di Gianfranco Fini (che guidava anche il Movimento Sociale). I Fratelli d'Italia non hanno partecipato a nessun governo dalla sua creazione nel 2012. "Il partito potrebbe quindi attirare elettori che si dichiarano diffidenti nei confronti della politica”, spiega Marc Lazar, storico e sociologo di Sciences Po. Il partito è conservatore, difende la famiglia tradizionale, costituita attorno a un uomo e una donna; ha posizioni ferme sull'immigrazione - Giorgia Meloni promette di fermare l'arrivo dei migranti dalla Libia nell'isola di Lampedusa - e la minaccia di una "islamizzazione dell'Italia " - vuole promuovere "le radici storiche e culturali dell'Europa e la sua identità ". "Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono Sono italiana, sono cristiana e non puoi mai togliere nessuno di questi elementi della mia identità ” ama ripetere Giorgia Meloni nei suoi incontri. Ha adottato come slogan Dio, Famiglia, Patria.
Fratelli d'Italia sta cercando di fare appello sia agli elettori di estrema destra che ai sostenitori di una destra più moderata. "Fratelli d'Italia vuole costruire un futuro basato sul lavoro, sulla famiglia e sulla nostra identità. Valori che dobbiamo difendere dagli attacchi della sinistra", dice Giorgia Meloni. Vuole quindi porre fine al reddito di cittadinanza. "Crediamo che uno Stato equo non debba mettere sullo stesso piano chi può lavorare e chi non può. Serve uno strumento a tutela di chi non può lavorare: gli over 60, i disabili, le famiglie senza reddito che hanno minori da crescere. Per gli altri, invece, serve la formazione e gli strumenti necessari per favorire l'occupazione ", ha affermato.
Fratelli d'Italia sono spesso indicati come un partito euroscettico, ma nessuno crede che un governo guidato da Giorgia Meloni rinuncerebbe al pacchetto di stimolo dell'Unione Europea per l'Italia da 209 miliardi di euro. Il partito populista chiede una revisione dei trattati dell'UE, la creazione di una confederazione di Stati sovrani al posto dell'UE e la preminenza del diritto nazionale sul diritto dell'UE. Il partito, il cui slogan è Meno Europa ma un'Europa migliore , non sostiene il ritiro dell'Italia dall'eurozona ma chiede una riforma radicale della Bce!
Il programma della coalizione di destra, denominato For Italy , si basa su 15 punti come l'istituzione di un sistema presidenziale per l'Italia ("il presidenzialismo è il sistema necessario in uno Stato come il nostro, che è politicamente fragile e quindi instabile", ha dichiarato Giorgia Meloni), una presa di posizione più ferma sull'immigrazione, grandi tagli alle tasse e l'istituzione di una flat tax (un'aliquota unica per IVA, e affari). Tuttavia, i tre partiti di destra non sono d'accordo sul tasso, con Lega a favore di un tasso del 15% e Forza Italia del 23%. La coalizione di destra prevede anche di sostituire il reddito di cittadinanza con "misure più efficaci" . Da marzo 2019 i residenti italiani possono, a determinate condizioni, richiedere il reddito di cittadinanza per un importo compreso tra 480 e 9.360 euro l'anno, destinati a combattere la povertà e favorire l'inserimento nel mercato del lavoro. Questo reddito può essere fornito per 18 mesi consecutivi.
Da segnalare, infine, che mentre Lega e Forza Italia hanno più volte manifestato la loro simpatia nei confronti della Russia di Vladimir Putin, Giorgia Meloni è sempre stata chiara sul suo sostegno all'Alleanza Atlantica. Ha condannato fermamente l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin. "L'Italia è parte integrante dell'Europa, dell'Alleanza Atlantica e dell'Occidente. Il Paese rispetterà i propri impegni nei confronti della Nato e sosterrà l'Ucraina di fronte all'invasione russa ", si legge nel programma della coalizione di destra.
Nonostante la competizione tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini per la carica di Presidente del Consiglio, e nonostante la marcata opposizione ideologica tra Forza Italia e i suoi due alleati intorno alla sovranità e, infine, il disaccordo tra Fratelli d'Italia e i suoi partner sulla questione della la guerra in Ucraina, la coalizione di destra ha il vantaggio sull'opposizione di sinistra. " Siamo pronti. Questa nazione ha un disperato bisogno di recuperare il rispetto di sé, il proprio orgoglio e la propria libertà ", ripete Giorgia Meloni.
I partiti di centro hanno una possibilità?
Carlo Calenda, leader di Azione (Az), e Matteo Renzi, leader di Italia Viva (IV), hanno scelto di rifiutarsi di allearsi con Enrico Letta e hanno stabilito un terzo polo, posizionato al centro dello schieramento politico. I due rimproverano al leader del Partito Democratico di non aver saputo scegliere tra socialdemocrazia e sinistra radicale (rappresentata, ad esempio, da Europa Verde e dall'Alleanza dei Verdi e della Sinistra (AVS), che unisce ambientalisti e partiti di ala sinistra, definiti populisti da Matteo Renzi, già presidente del Consiglio (2014-2016).
Carlo Calenda e Matteo Renzi sono fiduciosi di poter trovare un posto nel panorama politico italiano e puntano a raccogliere tra il 15% e il 20% dei voti il 25 settembre. "Convinceremo gli italiani che, di fronte a un tale grado di degrado, l'unico modo per salvare il Paese è applicare il metodo Draghi" , ha affermato Matteo Renzi. "Andare avanti con l'agenda Mario Draghi, con il metodo Mario Draghi e, se possibile, con Mario Draghi presidente del Consiglio "è il fulcro del programma centrista, il cui slogan è Continuità ". Penso che se riusciremo a garantire un buon risultato nel sistema proporzionale, la strada verso il parlamento sarà aperta a riportare Mario Draghi come Presidente del Consiglio. Se vince la destra, non è la Costituzione ad essere in pericolo, ma le casse dello Stato. La flat tax sarebbe una follia ", ha detto il leader di Italia Viva.
Riformista, liberale e europeista, la sera del 25 settembre il polo centrista si vede come kingmaker. "Lasciando il Pd e andando da solo alle prossime elezioni, Carlo Calenda spera di addentare l'elettorato di destra attirando gli elettori moderati di Lega e Forza Italia, che non vogliono restare alleati con i nazionalisti di Fratelli d'Italia. Una scommessa che, se vincente, potrebbe cambiare il gioco", ha detto Luca Tomini, professore di scienze politiche alla Libera Università di Bruxelles, aggiungendo "Se gli elettori si spostano al centro, la coalizione di destra si indebolisce ; viceversa, se non funziona, la destra vincerà con i due terzi dei seggi in parlamento .
"Non credo ci sia il rischio di un governo fascista se vince Giorgia Meloni. Tuttavia, credo che ci sia il rischio che l'Italia sia totalmente isolata dai maggiori paesi europei e la mancanza di esperienza amministrativa e internazionale di Fratelli d'Italia sarà una minaccia. Con un governo guidato da Giorgia Meloni non avremo fascismo ma caos", avverte Carlo Calenda.
Il Movimento Cinque Stelle scomparirà?
L'M5S si presenta come un'alternativa alle forze a destra e al centro. Il suo programma si basa sulla giustizia sociale e sulla riduzione delle disuguaglianze sociali. Il partito vuole aumentare il salario minimo (a 9 euro l'ora), combattere la corruzione e accelerare la transizione ecologica. Vuole anche ridurre l'orario di lavoro e sostiene una settimana di 36 ore, rispetto alle attuali 40 ore, senza alcuna perdita di stipendio. Si propone di concedere la cittadinanza italiana a chi è arrivato nel Paese prima dei 12 anni o a chi è nato da genitori stranieri che hanno completato un corso completo di studi in Italia.
Il suo leader, Giuseppe Conte, già presidente del Consiglio (2018-2021), denuncia "false alleanze e matrimoni di convenienza" . "Preferiamo l'impegno e, quindi, siamo dall'altra parte di questo roteare e trattare, che è la parte giusta", ha detto. Tuttavia, il M5S sta perdendo terreno nei sondaggi ed è stato duramente condizionato dalle partenze. Negli ultimi giorni, due personalità di spicco hanno lasciato il partito: Davide Crippa, già presidente del gruppo alla Camera, e Federico d'Inca, ministro uscente per i Rapporti con il Parlamento, entrambi contrari alla decisione del M5S di ritirare il sostegno al presidente del Consiglio Mario Draghi a luglio.
Il sistema politico italiano
Il Parlamento italiano ha due Camere elette per un periodo di 5 anni. Il sistema elettorale in vigore nel Paese si chiama Rosatellum. Dal 2020 la Camera dei Deputati conta 400 membri e il Senato 200. In entrambe le Camere i parlamentari sono eletti secondo un sistema misto: tre ottavi dei membri (ovvero 147 deputati e 74 senatori) sono eletti a maggioranza; cinque ottavi (245 deputati e 122 senatori) per rappresentanza proporzionale. Gli italiani residenti all'estero eleggono 8 deputati e 4 senatori secondo uno specifico sistema proporzionale (che prevede il voto di preferenza).
I partiti politici italiani non rappresentati in parlamento devono raccogliere tra le 1.500 e le 4.000 firme di elettori residenti in un collegio (300 in Valle d'Aosta) prima che possano candidarsi alle elezioni parlamentari in quel collegio. I candidati alla carica di deputato devono avere almeno 25 anni e quelli che si candidano alla camera alta devono avere almeno 40 anni. Inoltre, mentre gli italiani dai 18 anni in su possono eleggere i loro deputati, possono eleggere i membri solo coloro che hanno compiuto i 25 anni del Senato.
I posti sono distribuiti secondo il metodo Hare. La soglia per essere eletti con la rappresentanza proporzionale è fissata al 3% in parlamento (10% per una coalizione di partiti).
I principali partiti politici attualmente rappresentati alla Camera dei Deputati sono:
- Il Movimento Cinque Stelle (M5S), partito populista fondato il 4 ottobre 2009 da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio e guidato da Giuseppe Conte, conta 112 membri eletti;
- La Lega (Lega), partito populista di destra radicale fondato nel 1989 da Umberto Bossi e guidato da Matteo Salvini, ha 59 seggi;
- Forza Italia (FI), partito di centrodestra creato dall'ex presidente del Consiglio (1994-1995, 2001-2006 e 2008-2011) Silvio Berlusconi, che lo guida ancora a 86 anni, ha 57 deputati;
- Il Partito Democratico (PD), fondato da Walter Veltroni nell'aprile 2007 dai Democratici di Sinistra (DS) e La Margherita. Guidato da Enrico Letta, conta 52 parlamentari;
- Fratelli d'Italia (FdI), partito populista di estrema destra fondato il 21 dicembre 2012 dalla scissione tra il Partito della Libertà Popolare e l'Alleanza Nazionale (AN). Guidato da Giorgia Mel, conta 18 parlamentari;
- Libero e Pari, 14 posti.
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In Russia l'intero panorama dei media è distrutto.
Intervista con Katerina Abramova, responsabile della comunicazione presso Meduza.
Meduza è un media in lingua russa con sede a Riga (Lettonia).
Ha ricevuto il Premio di giornalismo franco-tedesco nella categoria “Premio speciale” nel luglio 2022.
Fondazione Robert Schuman, Intervista dall’Europa n°118, 12 settembre 2022.
Intervista realizzata da Stefanie Buzmaniuk.
[A cura di Barbara de Munari].
Quale ruolo giocano i media nell'informare la popolazione russa sulla guerra in Ucraina?
Nessun problema può essere risolto finché i cittadini non sono consapevoli dell'esistenza di questo problema. Se i media e i giornalisti indipendenti smettessero di dire la verità su ciò che sta accadendo in Ucraina, alcune persone sarebbero soddisfatte della propaganda di stato, altre non saprebbero nulla. Il governo russo pensava che la guerra non sarebbe durata più di sei mesi. Ma è ben lungi dall'essere breve e vittoriosa come Mosca aveva sperato, quindi la gente inizia a farsi domande. Alcuni analisti affermano che durante l'autunno alcune conseguenze si faranno sentire per i cittadini russi. Ad esempio, quando preparano i figli all'inizio dell'anno scolastico, devono pagare di più a causa dell'inflazione e delle conseguenze delle sanzioni. Per i media, è molto importante dare alle persone la possibilità di sapere ciò che veramente accade.
Perché hai scelto la Lettonia come luogo di esilio di Meduza?
Abbiamo lanciato Meduza in esilio otto anni fa, perché già allora era chiaro che il giornalismo indipendente non era il benvenuto in Russia. Per tutti questi anni, ci siamo preparati allo scenario peggiore. All'inizio non ci sentivamo in esilio: eravamo ancora liberi di andare e venire e alcuni reporter e giornalisti, che non volevano trasferirsi, vivevano ancora in Russia. Era come se avessimo semplicemente scelto di fondare un'azienda in un paese europeo per motivi come la sostenibilità, ad esempio. Anche la vicinanza ha contato molto nella scelta del luogo. Inoltre, è stato conveniente lavorare a Riga perché è una città di lingua russa: il 40% dei cittadini parla o almeno capisce il russo. Se uno dei nostri giornalisti non parla inglese, per lui è più facile adattarsi alla vita qui. È un posto molto carino in cui vivere, piuttosto che in una grande metropoli.
Otto anni fa, ritenevi che la libertà di espressione in Russia fosse limitata?
È stata limitata dopo che Putin è divenuto presidente. Dapprima il potere ha iniziato a emettere leggi contro i canali televisivi, poi contro altri media indipendenti. Il settore è stato limitato lentamente, passo dopo passo. Ciò è divenuto ancora più evidente dopo l'annessione della Crimea e dopo l'inizio della guerra nell'Ucraina orientale.
Ora che sei a Riga, puoi scrivere liberamente? La censura russa ti impedisce di fare il tuo lavoro?
Otto anni fa credevamo che le leggi repressive russe non avrebbero influenzato i media europei. Ma, ovviamente, tutto è cambiato. L'anno scorso siamo stati designati come "agenti stranieri" e abbiamo perso tutti i nostri contratti pubblicitari in Russia perché le società avevano paura di essere associate a qualcosa di politico e indesiderabile. Dopo l'inizio dell'invasione dell'Ucraina, Mosca ha imposto la censura sull’argomento guerra. Non siamo autorizzati a fare reportage in Russia. La nuova legge riguarda tutti. Molti media internazionali, ad esempio BBC e Deutsche Welle, hanno trasferito i loro team fuori dalla Russia. La questione non è più dove sei registrato. La cosa più spiacevole è essere etichettati come “organizzazione indesiderabile”. Questo può avvenire per qualsiasi fondazione, qualsiasi media, internazionale o russo. Per i media russi, questo significa che qualsiasi giornalista indipendente, qualsiasi esperto che faccia un commento, non necessariamente sulla guerra o su un tema politico, ad esempio chi scrive di architettura, sia considerato membro di un'organizzazione indesiderabile. E ciò può essere
classificato come un reato penale. Non è ancora successo, ma sappiamo che potrebbe succedere. Questo va a toccare tutto il nostro lavoro e, più in generale, la nostra struttura. Certo, siamo russi, abbiamo passaporti russi, i nostri genitori, famiglie e amici sono all'interno del paese. Ciò ci colpisce molto da vicino.
Anche questo fa parte della guerra ibrida condotta dalla Russia?
Questo fa certamente parte della guerra condotta contro i media indipendenti. Oggi, in Russia, l'intero panorama dei media è distrutto. Ci sono giornalisti che continuano a fare il loro lavoro e a resistere, ma se parliamo del mercato dei media in generale, esso è distrutto.
Potresti dirci qualcosa di più sull'attuale panorama dei media russi?
Il 4 marzo il Parlamento russo ha approvato una legge che prevede una pena detentiva fino a quindici anni per la diffusione d’informazioni "false" sull'esercito. Da allora, il Ministero della Difesa è l'unica fonte considerata affidabile per quanto riguarda la guerra in Ucraina. Per i media indipendenti, era la fine. Da quel momento in poi le organizzazioni hanno preso varie decisioni: alcune hanno deciso di andare in esilio e continuare il loro lavoro; altre hanno deciso di fare lo stesso, ma hanno smesso di pubblicare per un po', perché non solo hanno dovuto trasferire il proprio personale, ma anche ricostruire la propria struttura, trovare denaro e mezzi di diffusione. Ad esempio, Novaya Gazeta ha cessato di pubblicare a marzo e la sua licenza è stata revocata... la scorsa settimana. Il team ha lanciato un nuovo media, Novay Gazeta Europe. Per i canali televisivi è ancora più complicato, perché le trasmissioni richiedono molte apparecchiature e sono quindi molto costose. Alcuni giornalisti hanno deciso di non scrivere o di non scrivere più sulla guerra in sé, ma sul suo impatto sociale o su altri argomenti correlati, per continuare il loro lavoro all'interno del Paese. Ognuna di queste decisioni è difficile e non esiste una risposta ideale poiché le circostanze di ciascuna organizzazione sono diverse. Trovo incoraggiante che molti giornalisti e reporter continuino a svolgere il proprio lavoro, a volte nell’anonimato.
Ci sono ancora voci dissenzienti in Russia?
Sì, ci sono giornalisti che hanno deciso di restare nel Paese e fare il loro lavoro.
Funziona?
È difficile e il rischio di essere arrestato è molto alto. Abbiamo anche esempi simili con politici indipendenti.
Quali sono le tecniche utilizzate da Meduza per dire la verità in Russia sulla guerra in Ucraina?
Prima di tutto, abbiamo reporter in Ucraina e lavoriamo con giornalisti indipendenti anonimi in Russia. Ci sono ancora giornalisti ucraini disposti a collaborare, ma ci sono anche russi che vogliono sostenerci e lavorare con noi. Siamo ancora molto legati alla Russia e siamo fortunati che i mezzi di comunicazione online siano così diffusi ai nostri giorni. Inoltre, prestiamo molta attenzione al giornalismo d’inchiesta, al controllo dei dati e alle inchieste basate sui dati. La guerra in Ucraina è un caso unico, perché è particolarmente digitale: tutto è disponibile sui social network, ci sono molte informazioni, foto scattate dallo spazio, etc.. Ovviamente è difficile distinguere tra ciò che è falso e ciò che non lo è. Ma abbiamo accesso a una grande quantità di dati. Ad esempio, la ricostruzione del massacro di Bucha, minuto dopo minuto, passo dopo passo, è un'esperienza che noi giornalisti non avevamo mai fatto prima.
La guerra va avanti da più di sei mesi: pensi che la popolazione russa sia divenuta più ricettiva alle informazioni al di fuori della propaganda russa?
Alcuni esperti dicono che i russi guardano meno la televisione. Ma non sono sicura che sia uno dei motivi per cui la gente non crede alla propaganda. Penso che sia principalmente a causa dell'estate e perché la gente è stanca delle notizie legate alla guerra. Come giornalisti, lo percepiamo. Lo vediamo anche nel nostro pubblico. Le persone che vogliono conoscere la verità in Russia, che hanno accesso alle informazioni, sono esauste. Allo stesso tempo, rispetto alle prime settimane e mesi di guerra, la gente non crede più che tutto sia vittorioso.
Molte persone hanno contatti con profughi, alcune riviste pubblicano testimonianze di soldati. Ascoltano le loro storie, ma, anche dopo, alcuni di loro pensano ancora che sia propaganda. Gran parte della popolazione pensa ancora che la Russia stia cercando di salvare gli Ucraini. Ci sono anche persone che non credono per nulla nei media. Era lo stesso durante la pandemia di Covid: non è che non credono ai media indipendenti e credono alla propaganda, o non credono alla propaganda e si fidano dei media indipendenti. Semplicemente non si fidano più di nessun tipo di media e di informazione.
Qual è la tua impressione sulla copertura mediatica europea della guerra in Ucraina?
Ci sono molti sondaggi di qualità. Molti giornali hanno squadre eccellenti che lavorano sull'argomento e fanno reportage sul campo. Tutto ciò che vediamo, è molto professionale. È molto più complicato con la copertura della situazione interna russa. All'inizio della guerra, con la copertura mediatica sulle sanzioni economiche, molte voci dicevano che con insistenza e un po' di pressione i Russi avrebbero capito che qualcosa non andava, che avrebbero fatto una rivoluzione per fermare la guerra. Ma non funziona così. La situazione interna della Russia è molto più complessa.
In che modo i cittadini russi sono colpiti dalle sanzioni e come ne parlano i media russi?
Tutti i media russi parlano molto delle sanzioni. I media indipendenti si concentrano principalmente sulla situazione economica in Russia. Ma, a dire il vero, le conseguenze non sono ancora molto visibili. I prezzi sono sempre più alti e alcuni prodotti sono scomparsi. È sgradevole, ma non brutale e le persone sopravvivranno. Le vere conseguenze si faranno sentire in seguito.
Come si possono tutelare il giornalismo e la libertà di espressione in tempi di guerra e di conflitto?
È una buona domanda. Non so come si possa tutelare la libertà di espressione in Russia. È un po' tardi e, per il momento, non si tratta di proteggerla, ma di "giocare a nascondino". Se parliamo di soluzioni diverse, essendo tutto così digitalizzato e avendo chiunque accesso a Internet, ci deve essere una soluzione digitale in modo che le persone in Russia che vogliono ricevere informazioni dispongano di strumenti più sofisticati per questo scopo. Si tratta anche di supporto internazionale, di ciò che stanno facendo i cittadini dei diversi paesi europei. C'è molto sostegno per le persone che lasciano il Paese, per coloro che cercano di continuare il loro lavoro in esilio. E penso che sia anche saggio utilizzare le informazioni provenienti dai media russi, a condizione, beninteso, che si tratti di fonti affidabili.
La solidarietà europea era molto visibile all'inizio della guerra, ma con le sfide legate alla situazione economica e all'approvvigionamento energetico, il sostegno potrebbe indebolirsi. In che modo pensi che il giornalismo possa aiutare a mantenere la solidarietà?
Questa non è la vocazione del giornalismo. Il problema è complesso. La gente è stanca della guerra. C'è meno entusiasmo nel sostenere l'Ucraina. Le persone vogliono essere informate su altri argomenti. I giornalisti dovranno trovare un modo per mantenere le persone interessate alla guerra, perché è assolutamente chiaro che durerà a lungo.
Hai l'impressione che la propaganda russa stia prendendo piede anche nelle società europee?
Dipende molto da paese a paese. Per illustrare come opera la propaganda russa attraverso l'industria dei media, posso prendere l'esempio della Lettonia, dove c'è una popolazione di lingua russa. Dopo l'indipendenza del paese, l'attenzione si è spostata sulla creazione di contenuti in lettone, il che è del tutto comprensibile. Ma i cittadini di lingua russa si sono sentiti abbandonati e hanno iniziato a guardare a ciò che stava accadendo in Russia. Non perché avessero un interesse particolare per il Paese, ma perché volevano avere anche contenuti in russo da leggere. A poco a poco si sono persi nella televisione russa, poi nella propaganda russa, e ora ci vuole molto tempo per recuperarli. Come giornalisti, dobbiamo impegnarci a produrre un contenuto di qualità per tutti, a trovare le parole, il linguaggio e le forme appropriate, a preparare i cittadini a fronteggiare la propaganda russa.
Che cosa riserva il futuro per il panorama dei media russi?
Nulla cambierà per molto tempo. Saremo sempre in esilio e i prossimi anni non saranno molto piacevoli. E poi, con un po' di fortuna, avremo l'opportunità di ricostruire tutto da capo. Sarà un viaggio lunghissimo per l'intero paese. La cosa più importante, e anche la più pericolosa, è non perdere il contatto con ciò che sta accadendo all'interno della Russia. Perché rischiamo di scrivere di qualcosa che non conosciamo o non capiamo più. Per noi è molto importante rimanere in contatto: i mezzi di comunicazione digitali e il fatto che il mondo sia molto più connesso ci aiuteranno in questa missione.
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A RIVEDER LE STELLE
18 luglio 2022
INTERVISTA ESCLUSIVA A PAOLO LEVI
Corrispondente a Parigi per l'agenzia di stampa italiana ANSA
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
Sei cresciuto a Roma e vivi a Parigi da diversi anni, sei italiano e decisamente europeista. Come conciliare queste diverse identità?
Le mie tre identità, romana, perché nel mio paese sei prima legato alla tua città, ma anche italiana ed europea, sono assolutamente complementari. Queste sono le stesse radici, la stessa cultura che trovo ovunque. A Parigi tutto mi parla di Roma e a Roma tutto mi parla di Atene; quando vedo la Chiesa della Madeleine penso al Partenone e ai templi che furono poi eretti in Italia. Esistono, certo, differenze tra noi, ma queste differenze sono la nostra ricchezza, poggiano su una base di valori comuni. È lo stesso movimento di civiltà che iniziò con Platone e che è giunto fino a noi, non si possono cantare le lodi di Rabelais senza conoscere Dante, non si possono cantare le lodi di Kant senza conoscere Platone. Ho avuto la possibilità di viaggiare molto in Europa e ho potuto constatare che ciò che ci univa era molto più importante di ciò che ci divideva. Sta a noi trasmettere il messaggio di Simone Veil che, dopo aver vissuto l'orrore dei campi, ha scelto la riconciliazione franco-tedesca e la speranza europea. Con la guerra di Putin, l'ideale dell'Unione Europea - "mai più guerra" - è in pericolo. Non possiamo rimanere indifferenti: spetta a tutti difendere i valori che ci costituiscono. Le 12 stelle dell'Unione Europea devono indicarci la strada.
Cosa metti in questa base di valori comuni?
La Libertà, l’Uguaglianza, la Fraternità, i valori dell'Illuminismo che si sono irradiati ben oltre i confini europei, le nostre radici giudaico-cristiane. Aggiungerei la laicità, il pluralismo, la parità di genere, la difesa delle minoranze e la democrazia, che è il nostro bene più prezioso. Le nuove generazioni che ci sono nate, che ci sono cresciute, devono sapere che nulla è mai acquisito. È come l'aria che respiriamo: ci rendiamo conto di quanto sia vitale quando inizia a mancarci. Questa base di valori comuni riguarda anche una certa “arte di vivere”. La cultura della condivisione, il gusto del dibattito, lo spirito critico sono parte di una tradizione europea. I caffè, le piazze, le strade a misura d'uomo, il nostro paesaggio così ricco e mutevole in così poco spazio, l'attenzione alla qualità piuttosto che alla quantità, tutto questo ci definisce e forgia la nostra identità. Questa coscienza europea deve risvegliarsi: non riconoscerla è come negare una parte di noi stessi. E dobbiamo garantire che il progetto europeo sia accessibile a quante più persone possibili, attraverso l'istruzione, la scuola, gli scambi, l'Erasmus o il servizio civico europeo. Umberto Eco diceva: "È pazzesco, quando vado a New York, in Giappone, in Cina, mi trattano come europeo, l'unico posto dove non mi riconoscono come tale è l'Europa!". Il problema viene anche da chi usa l'Unione Europea come capro espiatorio. È un meccanismo che può avere un interesse politico a breve termine. Ma, alla lunga, ci stiamo sparando sui piedi, a beneficio delle altre grandi potenze.
L'Unione europea spesso rimane poco percepita o fraintesa. Come promuovere il senso di appartenenza dei cittadini?
A un certo punto abbiamo smesso di essere noi stessi, magari facendo entrare paesi che, come il Regno Unito, non condividevano pienamente il nostro approccio e ci siamo persi lungo la strada.
Dagli anni '70 e '80 e fino al 2014 abbiamo costruito un'Europa liberale ispirata a un modello anglosassone che non corrispondeva del tutto al nostro progetto iniziale, abbiamo compiuto un cammino enorme. Tuttavia, il progetto europeo non può essere solo economico. Accanto a un mercato, abbiamo bisogno di uno spazio politico, di una dimensione spirituale e culturale. Per riaccendere la fiamma europea, dobbiamo riconnetterci con lo spirito originario dei Padri Fondatori. L'Europa è la culla dello Stato sociale, uno Stato in prima linea nella riduzione delle disuguaglianze. Ma lo Stato non può fare tutto, spetta anche alla società civile contribuire a questa costruzione creando legami transnazionali. Con le nuove tecnologie e la democratizzazione dei trasporti, questo sta divenendo sempre più facile. L'Europa è un'orchestra formidabile in cui ogni paese è una specie di strumento: tutti questi strumenti devono accordarsi per suonare la stessa musica. Una cosa mi stringe il cuore: in rue de Verneuil a Parigi, i passanti fotografano sempre la casa di Serge Gainsbourg, ma nessuno si ferma di fronte, al numero 6, davanti alla casa di Robert Schuman. Eppure Schuman fu un genio come Gainsbourg: è stato a suo modo un musicista, ha creato armonia e concordia in Europa, ha dato il "la" con la solidarietà di fatto. 77 anni di pace ininterrotta contro 1000 anni di guerre fratricide.
La crisi che stiamo attraversando può davvero rafforzare l'Unione Europea?
La storia ci dice che ogni crisi annuncia un Rinascimento. Nonostante il periodo difficile che stiamo attraversando, rimango ottimista nel senso che la pandemia è stata un acceleratore. È come se fossimo finalmente usciti da una forma di sonnambulismo. Nasce una grande speranza. L'edificio europeo ne esce molto più solido di quanto pensiamo. L'adozione del piano di risanamento, il 21 luglio 2020, è stata un momento storico. Dopo trent'anni di tanto denigrato “ipermercato” in Europa, abbiamo finalmente gettato le basi di quella che sembra essere una nuova forma di fraternità europea. Sembra che stia emergendo un'Europa più politica, sociale e solidale. È caduto un tabù! Una cosa mi stupisce: da giornalista mi sono occupato, in questi anni, di manifestazioni contro l'austerità a Parigi, a Roma, ad Atene. Nessuna era riuscita a cambiare la situazione. Ora l'Europa è riuscita nella sua scommessa, ma nessuno le è grato. In questa fase, però, è un ballon d’essai, il piano di ripresa è legato alla pandemia; la vera sfida sarà farne uno strumento strutturale che potrà declinarsi in tutti i settori. Per l'Italia è una specie di test, perché essa ne è il principale beneficiario con 200 miliardi di euro e ha interesse a spendere bene questi soldi. I “frugali” ci tengono gli occhi addosso: se funziona, potremmo pensare di perpetuare questa nuova forma di solidarietà su scala continentale, altrimenti sarà un colpo a vuoto. Ma tutti noi abbiamo interesse a restare uniti, come hanno fatto Francia e Italia durante la pandemia. Dopo aver attraversato una delle crisi diplomatiche più gravi della loro Storia, questi due paesi fondatori dell'Unione Europea hanno agito come se formassero un'unica Repubblica, riuscendo a convincere i loro partner, Germania compresa, che era giunto il momento di porre fine a una Europa eccessivamente austera. Certo, le finanze pubbliche sono importanti ma non possono costituire la pietra angolare del nostro progetto che è, soprattutto, un progetto umanista e di civiltà.
La coppia franco-italiana può essere un'alternativa al motore franco-tedesco?
Non c'è Europa senza coppia franco-tedesca. Essa si è costruita sulla riconciliazione tra Parigi e Berlino e non è un caso che la sede del Parlamento europeo sia a Strasburgo, questa città cerniera tra due paesi che si sono tanto combattuti e che si sono riconciliati. Ma, mentre questo ingranaggio del motore europeo è fondamentale, non è tuttavia sufficiente per affrontare le sfide che questo nuovo millennio ci pone. Seconda e terza economia della zona euro, l’Italia e la Francia possono dare un impulso alla costruzione di un'Europa più empatica e più vicina ai cittadini, cercando di trovare un equilibrio con una serietà di bilancio altrettanto necessaria. La firma del Trattato del Quirinale a fine 2021 o il rilancio dello storico gemellaggio tra Roma e Parigi rafforzano questo movimento. Sottoscritta nel 1956, l'unione tra la Città Eterna e la Città della Luce anticipava di un anno i Trattati di Roma firmati il 25 marzo 1957 dall'Europa dei Sei nella Sala degli Orazi e dei Curiazi in Campidoglio. L'uscita del Regno Unito, che non ha mai voluto veramente partecipare a questo progetto politico, è una straordinaria occasione per riconnetterci con la nostra essenza profonda.
Paese fondatore, l'Italia è da tempo uno degli Stati membri più filoeuropei. Ma negli ultimi anni i suoi sentimenti europei hanno avuto alti e bassi.
L'Italia ha vissuto un ondeggiamento euroscettico nel 2013 con la crisi economica e questa sfiducia è poi andata in crescendo, con la crisi del debito, poi con la crisi migratoria, dove si è sentita abbandonata e “tradita” dai suoi alleati storici. Lei, così filoeuropea, che tanto aveva contribuito alla costruzione europea con grandi personalità come Alcide De Gasperi o Altiero Spinelli, provò una grande frustrazione, come una forma di delusione amorosa. Ciò si è riflesso alle urne con la vittoria dei populisti, ovvero il Movimento 5 stelle (M5S) e la Lega. Dopo l'adozione del piano di ripresa, gli italiani, riuniti intorno a Mario Draghi, sono in parte ridivenuti gli euro-entusiasti di un tempo. Ma tutto ciò rimane fragile. L'attuale crisi politica, con le dimissioni di Mario Draghi, subito respinte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ce lo ricorda in modo lampante. In un contesto così delicato per l'Italia e per l'Europa, l'unità dovrebbe prevalere sui calcoli elettorali e sulla politica dei partiti, che sono un vantaggio per Vladimir Putin. Anche Matteo Salvini, che era il più antieuropeo per convenienza politica, ha drammaticamente rivisto le sue posizioni e sostiene il governo di unità nazionale. C'è da dire che i suoi elettori sono anche le piccole e medie imprese del nord Italia, i cui primi clienti sono Francia e Germania! L'unica che continua a tenere un discorso molto nazionalista è Giorgia Meloni, astro nascente dell'estrema destra, a capo di Fratelli d'Italia e convinta postfascista. Il problema è che i nazionalisti vorrebbero riportarci indietro di 70 anni: ci vendono delle nazioni in “mono” contro un'Europa ormai in “stereo”. Capisco la moda dell'usato e dei vinili: ma non si può trasformare il "vintage" in un modello di società. Piuttosto che dividere, dovremmo approfittare dei prossimi mesi per realizzare due riforme cruciali: la revisione del Patto di stabilità e crescita e la fine del veto in Europa. Non c'è autonomia europea possibile con la regola dell'unanimità, perché così si corre sempre il rischio di avere un cavallo di Troia, come Viktor Orban per esempio. Sono favorevole alle liste transnazionali alle prossime elezioni europee del 2024 per rafforzare la nostra democrazia e partecipare all'avvento di un vero dibattito pubblico europeo.
Nuove minacce incombono sulla zona euro: inflazione, rischio di recessione, aumento dei tassi d’interesse. Che cosa consigli per riformare il Patto?
Le regole attuali, 3% di deficit - che contribuiscono ad alimentare la frustrazione anti-europea - e 60% di debito, sono troppo rigide e ormai obsolete. Sono necessarie regole più flessibili, più orientate al DNA dell'Europa, che ha un urgente bisogno di liberare il suo potenziale, attraverso la crescita e gli investimenti. Questa riforma del Patto di Stabilità e Crescita e la fine dell'unanimità su diverse questioni sono una questione di sopravvivenza; o lo facciamo, oppure ogni Stato membro diverrà in pochi anni un semplice satellite degli Stati Uniti, della Cina o della Russia. È ora o mai più, nel senso che siamo davvero giunti alla fine di un ciclo. In molti ambiti si assiste a un forte ritorno dell'Europa: non c'è motivo per cui essa non debba essere una grande potenza. È il continente più ricco del mondo, un modello per molti paesi. Quando sono uniti, saldi, solidali, gli europei sono più forti. L'Unione Europea è "il più grande progetto politico nella storia dell'umanità", diceva Antonio Megalizzi, il giovane giornalista italiano morto sotto i colpi del terrorismo nel 2018 al mercatino di Natale di Strasburgo. Critichiamo molto l'Europa perché spesso la consideriamo come un qualcosa di realizzato. Ma l'Europa è un work in progress, con i suoi difetti e le sue mancanze. È un progetto in perenne costruzione. Ogni generazione può e deve fare la sua parte perché tutte le battaglie attuali, siano esse climatiche, digitali, industriali, etc., sono più efficaci su scala europea.
Lo status ufficiale di candidato all'Unione Europea è stato appena concesso a Ucraina e Moldova. Cosa ne pensi del progetto di una comunità politica europea che consenta ai paesi impegnati in lunghi negoziati di adesione di essere più strettamente associati?
L'architettura europea è complessa e a volte è un vero rompicapo capire come funziona. Quindi non c'è bisogno di complicarla ulteriormente e non sono molto convinto di questa idea di comunità politica europea. D'altra parte, è importante, ed è un segnale forte, aver concesso lo status di candidato all'Ucraina, anche se sarà importante prendere il tempo necessario per completare i 35 capitoli negoziali. Il destino europeo dell'Ucraina è iniziato prima, a metà marzo, quando il Paese si è staccato dalla rete elettrica russa e si è connesso alla rete europea. Poco dopo l'inizio dell'invasione russa, l'Ucraina e l'Europa si sono date fisicamente la mano, unendosi l'una all'altra.
Ma questo riavvicinamento non rischia alla fine di porre una sfida molto grande per l'Unione Europea?
È ovvio che non potremo avere le stesse ambizioni o raggiungere gli stessi traguardi, che si sia 27, o 33 o 35, o 6 o 12. Questo non ci impedisce di creare una comunità di valori e di destino, con le istituzioni esistenti. Ma se vogliamo sopravvivere, dovremo preparare uno zoccolo duro capace di costruire l'Europa politica, con i paesi fondatori, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, o a livello della zona euro. Questi paesi hanno la maturità necessaria, sono pronti a fare il salto. Possono cominciare a pensare a una forma di federalismo e porsi come guide, per indicare la strada, da nuovi pionieri, riprendendo la strada indicata dai Padri Fondatori alla fine della Seconda Guerra mondiale. Gli altri Stati membri sono i benvenuti, a condizione che condividano non solo i vantaggi di questa appartenenza, ma anche i doveri e i valori, in particolare in termini di Stato di diritto e di pluralismo. Sarà inoltre necessario fare in modo che chi sta fuori non blocchi chi vuole andare avanti, perché non c'è alcun motivo per cui chi vuole una maggiore integrazione sia impedito da chi è riluttante. L'Italia è pronta a questo salto federale perché lo ha già fatto in casa propria: gli Italiani sono convinti che se siamo riusciti a mettere insieme un torinese e un palermitano, possiamo mettere insieme anche un ateniese e un parigino, un berlinese e un romano. La mia Europa ideale non è affatto una megastruttura, un mastodonte tecnocratico dove tutto si deciderebbe solo a Bruxelles: è delegare i poteri all'Unione Europea dove, insieme, possiamo essere più efficaci, ma significa anche dare più potere a territori e a regioni. Questo potrebbe contribuire a calmare le frustrazioni. Si dovrà trovare un compromesso tra le diverse culture e le diverse sensibilità.
L'Europa di giugno 2022 è molto diversa da quella di gennaio 2022, ha affermato Emmanuel Macron, a Bruxelles, durante il Consiglio europeo. Sei d'accordo?
In termini di integrazione europea, il vero cambiamento è iniziato molto prima della guerra in Ucraina. Un primo passo è avvenuto nel luglio 2012, durante la crisi economica e finanziaria, quando Mario Draghi, allora Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), si disse pronto al whatever it takes , “qualunque cosa serva”, vale a dire, per proteggere l'euro dalla speculazione internazionale. Da quel momento in poi, la moneta unica era salva. Una seconda fase di accelerazione si è verificata durante la pandemia di Covid, con il piano di ripresa NextGenerationEU e la nascita di un'Europa della Salute. Nonostante un inizio complicato, il piano di vaccinazione è stato un successo, è stato messo in atto in modo spettacolare e rapido. La terza fase è quella che stiamo vivendo ora con il ritorno della guerra nel cuore del nostro continente, che mostra come la pace non si acquisisca mai in modo duraturo, e con la consapevolezza che dobbiamo essere più uniti che mai. La difesa dei nostri valori diventa più importante di ogni altra cosa. Al momento, si decide il futuro dell'Europa per i prossimi anni: abbiamo la scelta tra superare le nostre divisioni per unirci o rischiare di romperci definitivamente.
Questa guerra segna anche il forte ritorno della NATO e dell'ombrello transatlantico, in particolare nell'Est. Il progetto di difesa europeo non è indebolito da questo?
No. Gli anni di Trump hanno dimostrato che l'America è un partner fondamentale, ma che può cambiare priorità in qualsiasi momento. Ad esempio, l'estate scorsa, quando gli Stati Uniti hanno lasciato l'Afghanistan. Sarebbe quindi miope tornare allo status quo e non creare uno zoccolo duro di difesa europea più solido. Questa è la condizione per essere una vera potenza rispettata nel mondo. Questo può essere complementare alla NATO, ma l'Alleanza atlantica non basta più, l'Europa deve uscire dall’età dell’innocenza e divenire padrona del proprio destino, anche dal punto di vista militare. In questo campo sono in gioco problematiche industriali molto complesse. Si tratta di una sfida da raccogliere.
Questo è un tema che è spuntato come un serpente di mare dopo il fallimento nel 1954 del progetto di Comunità europea di Difesa.
L'esercito europeo non si costruirà di certo dall'oggi al domani: sarà costruito per “solidarietà di fatto”. La crisi ucraina avrà un effetto di acceleratore per la difesa europea. È già necessario razionalizzare il settore, riorganizzarlo, sviluppare le sinergie, evitare le duplicazioni, individuare le aree in cui ogni Paese può essere più efficace. La Francia è in prima linea nel nucleare e negli aerei da caccia, l'Italia potrebbe avere altri asset, ad esempio nel settore navale. Ognuno potrebbe agire là dove è più forte e metterlo al servizio della collettività europea. Ciò consentirebbe di realizzare economie di scala e di essere più efficienti, dunque operativi. Ma ciò richiede la fiducia reciproca. Vengono regolarmente organizzate esercitazioni militari congiunte tra Francia e Italia. La fiducia dovrebbe essere la stessa tra tutti gli Stati membri.
I prossimi mesi si annunciano molto difficili, con la minaccia russa di chiudere il rubinetto del gas e il rischio di una crisi alimentare. Come rispondere?
L'Europa dovrà ancora mostrare solidarietà e unità e creare scorte energetiche comuni, per garantire la sua autonomia strategica a lungo termine. A medio termine, l'unica via d'uscita dalla dipendenza russa sarà l'importazione di gas naturale liquefatto (GNL); l'Italia è così riuscita a ridurre le consegne di gas russo dal 40 al 25%. Tutto questo si sposa perfettamente con il Patto Verde e lo sviluppo delle energie rinnovabili. La Storia ci sta inviando segnali potenti per pensare a un nuovo modello di solidarietà e sostenibilità. La mutualizzazione del debito è lo strumento più sicuro per far fronte a tutte queste turbolenze, compresa la perdita del potere d'acquisto. Poiché condividiamo gli stessi valori, non c'è motivo per non andare avanti insieme, mano nella mano; perché dividersi significa fare il gioco dei nostri rivali internazionali che non condividono i nostri valori. In tempo di guerra, dobbiamo unirci e cercare di superare le divisioni, liberarci per un momento dai nostri rispettivi ego per partecipare insieme alla costruzione di qualcosa di più forte della somma delle nostre individualità. D'ora in poi, è in gioco il nostro destino nazionale ed europeo. Qualsiasi forma di patriottismo richiede una dimensione europea. "Uno per tutti, tutti per uno", il motto dei Tre Moschettieri, non è mai stato così attuale. L'Unione Europea fa la forza. È giunto il momento di riaccendere le stelle!
Intervista condotta da Isabelle Marchais
La FONDAZIONE ROBERT SCHUMAN, creata nel 1991 e riconosciuta di pubblica utilità, è il principale centro di ricerca francese in Europa. Sviluppa studi sull'Unione Europea e le sue politiche e ne promuove i contenuti in Francia, Europa e all'estero. Provoca, arricchisce e stimola il dibattito europeo attraverso le sue ricerche, le sue pubblicazioni e l'organizzazione di convegni. La Fondazione è presieduta da M. Jean-Dominique GIULIANI.
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