NELLA PELLE DI UN ALTRO

Di Delphine Horvilleur, traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

31 MAGGIO 2024

 

 

 

Quando studiavo a Gerusalemme, negli anni '90, viaggiavo molto spesso tra Francia e Israele. Ricordo che all'epoca dicevo spesso che il posto al mondo in cui mi sentivo più a casa era l'aereo. Per me la casa era questo luogo di mezzo, questo momento che mi collegava a questi due spazi, due geografie, due società, e che mi permetteva di vederli un po’ da lontano.

 

Questa settimana, in un certo senso, l'ho sperimentato di nuovo. Per la prima volta dal 7 ottobre ho preso l'aereo che collega questi due Paesi. Non tornavo da circa un anno. Ho avuto però l'impressione che in realtà fossero passati secoli dall'ultima volta che avevo messo piede lì perché, evidentemente, il mondo è cambiato e gli eventi ci costringono ad accettare ciò che non è più e che non sarà mai più lo stesso.

 

È come se, a partire dal mese di ottobre, dovessimo contare il tempo diversamente, non come il calendario civile che ci dice che siamo nel 2024, non come il calendario ebraico che dice che è l'anno 5784, ma a partire da questa data nelle nostre vite che ci hanno portato in un altro tempo. Forse dovremmo proprio dire che è il 237° giorno dell'anno 0 del nuovo e terrificante mondo.

Oppure dire, come suggeriscono molti israeliani che ho incontrato, ebrei o non ebrei, che sia ancora (e sempre) il 7 ottobre. Un giorno che non passa, anzi una notte che continua all'infinito. Sarebbe quindi il 7 ottobre 2023, 237 giorni fa.

 

In effetti, e l’ho visto lì, è come se il tempo si fosse fermato, immobilizzato o fermato di colpo in un dolore infinito che si riverbera in tutta la regione, dolore israeliano e dolore palestinese, lutto israeliano e lutto palestinese, l’impossibile consolazione israeliana e l’impossibile consolazione palestinese. La rabbia degli uni e degli altri, la disperazione degli uni e degli altri...

E ancora e ancora metterò delle e, qualunque cosa dicano, qui o là, coloro che vogliono vedere o percepire solo il dolore di un campo, di una parte, di un mondo, e che minimizzano, relativizzano o negano apertamente il dolore dell'altro.

 

Ci sono così tante cose che vorrei raccontarvi di questo viaggio emozionante che ho appena fatto. Una drasha non sarà sufficiente.

Quindi in poche parole: questa settimana sono stata ufficialmente invitata al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme e ho potuto tenere conferenze anche a Tel Aviv e ad Haifa. Soprattutto, ho avuto la possibilità e l’onore di incontrare ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, di condividere momenti commoventi con le famiglie i cui figli sono ancora tenuti in ostaggio a Gaza, ho potuto parlare con genitori i cui figli sono morti in combattimento, che sanno che non si riprenderanno mai dal loro dolore, ho potuto dialogare con arabi israeliani la cui famiglia è sotto le bombe a Rafah o altrove, persone che non hanno notizie dai loro cari e si aspettano, ogni minuto, il peggio, e si trovano divisi tra il loro radicamento nella società israeliana e il loro attaccamento al sogno palestinese.

 

Ho incontrato artisti, cantanti, attori, scrittori, poeti, coreografi, ho incontrato intellettuali, pensatori e rabbini, e ho pregato con loro per il ritorno degli ostaggi, per la pacificazione delle famiglie in lutto, e anche per i bambini palestinesi... perché no, contrariamente a quanto alcuni vogliono credere, la società israeliana che ho incontrato non è del tutto insensibile al dolore degli altri. Ci sono, come in ogni stato in guerra, persone che, dal profondo del loro dolore o della loro rabbia, non riescono più a pensare all'altro. Ma ci sono anche persone che, come candele nel buio, hanno deciso, anche lì, di inviare altre luci, per rifiutarsi di perdere la propria dignità o di negare all'altro la sua piena umanità.

 

Ho incontrato persone che pensano una cosa e altre che la pensano esattamente al contrario, persone che si interrogano sul senso del combattere e altre che lo ritengono necessario, persone che pensano che la vendetta sia necessaria e altre che sanno che la vendetta non porta mai da nessuna parte e che finisce per trascinarti nell’odio e nel ciclo della violenza.

Ho parlato con persone che sostengono l’operazione militare e altre che ne mettono in dubbio il significato oggi.

Ho parlato con persone che mi hanno spiegato perché sostengono il governo e altri che mi hanno detto perché non perdoneranno mai i loro leader per averli portati a questo, e perché ora chiedono nuove elezioni.

Ho parlato con persone che hanno perso la fiducia negli altri e non credono più nella pace, ma anche con altri che, più che mai, sono pronti a battersi per una soluzione a due Stati, affinché – mi si perdoni l’espressione – dal fiume al mare, ci sia spazio per gli altri, pacificazione, rispetto, riconoscimento, dignità per tutti.

Forse è questo che dovrebbe significare questo slogan, diversamente da tutto ciò che gli abbiamo fatto dire.

 

Piuttosto che quello che tutti vedono esposti sui muri delle nostre città europee, sulle piazze delle università americane o nelle manifestazioni dove si scatenano tante passioni; e qui, dove agitiamo parole, grida, in modo così manicheo e spesso senza cultura del territorio, della storia del conflitto, o più precisamente senza una reale preoccupazione per chi lì vive e dovrà convivere lì.

 

Perché la situazione si potrebbe riassumere così, in fondo in un modo molto semplice: oggi non ha senso dirsi filo-israeliani o filo-palestinesi. L’unica posizione degna, secondo me, l’unico impegno utile, è quella di essere per la pace, per il futuro comune, per il riconoscimento che deve esserci spazio per tutti.

 

Dal Medio Oriente dove ho ascoltato parole diverse, voci complesse, disaccordi esposti davanti a me, a volte in modo estremo, ho assistito da lontano allo spettacolo di ciò che i media mi hanno trasmesso dalla scena europea. E devo dire che mi cadevano le braccia.

 

Ho guardato le immagini di questi cartelli per le strade di Parigi che dicevano “Morte ai sionisti”, che denunciavano un “genocidio”, gli appelli al boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, tutto ciò che cerca di mettere in caricatura il conflitto, di non vedere il dolore da una parte e la brutalità dall’altra, immaginare che il lutto sia da una parte e la barbarie dall’altra, che si possa disumanizzare un campo impunemente, e dire come ha detto questa settimana un funzionario eletto della Francia ribelle che “ No, non apparteniamo alla stessa specie umana”.

 

Questa settimana ho ripensato a una frase che ho ripetuto molte volte dal 7 ottobre e che ripeterò ancora e ancora: posso capire che in Medio Oriente l’immenso dolore e il lutto degli israeliani e dei palestinesi impediscano loro di sentire o di pensare alla sofferenza altrui, aumenta la loro indifferenza o il loro spirito di vendetta, ma non perdonerò e non troverò nessuna scusa valida per chi, oggi, qui, a migliaia di chilometri, è incapace di empatia con tutti, incapace di riconoscere l’immensità del lutto, della sofferenza, del trauma e dell’ingiustizia che ognuno subisce.

 

Questa settimana al Festival Internazionale degli Scrittori a Gerusalemme, ho pensato molto al potere e alla promessa eterna della letteratura. Ciò può sembrare molto fuori luogo e insignificante di fronte al dolore dei bambini di Rafah e delle madri israeliane che non vedranno ritornare i propri figli. Ma ho pensato a cosa permettono la scrittura e la lettura: mettersi, anche solo per un attimo, nei panni di un altro, di un personaggio la cui storia, mondo, cultura e dolore non sono i nostri, ma con cui ci è dato di empatizzare. E mi sono detta che questa capacità era senza dubbio ciò che più mancava all’umanità intorno a noi e che dovevamo provare a ritrovare.

 

Mi scuso per avervi esposto in questo sermone e un po' in generale i miei sentimenti di questa settimana in Israele.

Mi rendo conto che alcuni avrebbero preferito che io parlassi, come faccio ogni settimana o quasi, dell'episodio della Torah che leggiamo in tutte le sinagoghe, di questo brano del Levitico che leggiamo in questo Shabbat e che costituisce ciò che chiamiamo parasha della settimana.

 

Ma invece di questa lettura di parasha, vi invito a pensare a cosa significa anche la parola parasha in ebraico. Non designa soltanto il brano della Torah che leggiamo nelle sinagoghe. In ebraico, è al cuore di un'espressione che designa un “crocevia”: in ebraico chiamiamo un incrocio ‘parashat drakhim’, la parasha delle strade, il luogo dove le strade si incrociano e dove si presentano a noi più strade, diverse strade che ci è possibile prendere.

 

Siamo, mi sembra, nel luogo della parasha, nel parashat drakhim, all'intersezione tra molti percorsi possibili. E il percorso che prenderemo, sia qui sia là in Medio Oriente, con le nostre azioni o con le nostre parole, determinerà il futuro.

 

Ci troviamo in un tempo sospeso tra mondi, esattamente come ci troviamo su un aereo tra paesi. E questo 237esimo giorno dopo il disastro potrebbe, se vogliamo, anche essere il primissimo di un altro tempo. Per fare questo basta scegliere insieme un po’ più di intelligenza, moderazione, dignità, cultura storica ed empatia.

 

Shabbat Shalom

[Drasha pronunciata dal rabbino Delphine Horvilleur il 31 maggio 2024 durante il servizio kabbalat shabbat del JEM, Parigi].