UN ABBRACCIO PER ISRAELE di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv, 1 luglio 2024

 

Nel momento più buio per noi Ebrei dopo la seconda guerra mondiale, sentiamo la necessità, più di prima, di “aggrapparci” a Israele - abbracciando questo piccolo Stato in pericolo per la sua esistenza.

Sì, per la sua esistenza! Può sembrare un concetto obsoleto, forse retorico, ma purtroppo non è così.

In un'Europa in cui la sinistra ha ormai preso la parte dei palestinesi (e l'Italia non fa eccezione) con il solito “giochino” dell'antisionismo (termine buono per tutte le stagioni, dappertutto in Occidente, specialmente in periodi elettorali e pre-elettorali), e in cui la destra spesso mostra rigurgiti squadristi di stampo antisemita, l'unica via di salvezza è rafforzare la nostra solidarietà, il nostro amore, anche critico se serve, nei confronti di Israele.

Israele vive da mesi in una situazione surreale.

La guerra, dopo il 7 ottobre, ha temporaneamente compattato un paese sotto shock: ma ora, a quasi nove mesi dallo scempio di quel giorno, Israele sembra sempre più diviso al suo interno.

Da una parte ci sono le famiglie dei rapiti, distrutte da un lunghissimo periodo di angoscia e di speranza - che vengono strumentalizzate da una parte dell'opposizione.

Parallelamente si svolgono le proteste dei religiosi ortodossi, che rifiutano il servizio militare nonostante la decisione della corte suprema.

Il Parlamento prova a far approvare la legge sulla Rabbanut, nella quale la nomina dei rabbini nelle varie città israeliane passerebbe al potere centrale e non sarebbe più in carica ai vari consigli comunali come accade oggi.

Il governo Netanyahu cerca di “destreggiarsi” tra la pressione delle famiglie degli ostaggi, la destra religiosa contraria a ogni tipo di stop alla guerra e la minaccia dei due partiti religiosi ultraortodossi di fare cadere il governo se non vengono soddisfatte le loro richieste.

Il tutto all'interno della cornice di una guerra cruenta a Gaza e di una situazione incandescente con il Libano.

Quello che appare chiaro, almeno a me, è un pericoloso sfilacciamento della società israeliana che si riflette a livello politico,  non viceversa. Basta accendere la televisione e ci si accorge che ogni telegiornale va dalla propria parte, senza curarsi dell' “altro”.

È come si fosse attenuata quella visione d'insieme, unitaria, idealista, haluzista, che ha sempre contraddistinto Israele, indipendentemente da chi fosse a capo del governo al momento – quella visione splendida e accecante che, in passato, ha illuminato le nostre speranze e i nostri sogni.

Da qui la necessità di “abbracciare” e pacificare Israele al suo interno, senza polarizzare ulteriormente un paese già tanto provato.

Compito della classe politica dovrebbe essere quello di realizzare un “compromesso morale” tra visioni della vita totalmente diverse, senza mai dimenticare il nostro minimo comune denominatore: la nostra Identità ebraica e il nostro Senso dell’Appartenenza.

 

Ci ritroviamo, mi sembra, ancora una volta, con un messaggio e una missione, nella vita contemporanea, che noi Ebrei siamo obbligati a presentare incessantemente alla società: dobbiamo dire la verità al potere. È difficile farlo, ed è sempre stata un'impresa rischiosa per noi, soprattutto nella Diaspora.

E ci grava addosso il presentimento che la nostra società stia in qualche modo “scrivendo un tragico capitolo della nostra Storia; e che contemporaneamente non possa — o si rifiuti — di leggere ciò che ha scritto.

Aiutiamo dunque la nostra società a “leggere” questo capitolo, prima che sia troppo tardi per riparare ciò che è stato rotto.

 

 

 

DI LATTE E DI MIELE

 

Siamo probabilmente nel momento più difficile e pericoloso di questa lunga guerra; più difficile, perché i recenti caduti tra le forze armate israeliane hanno demoralizzato un'opinione pubblica già provata dalla durata del conflitto.

 

 

Più pericoloso, perché se da una parte Rafah sembra più vicina alla resa, dall'altra non si capisce cosa accadrà al nord, al confine con il Libano.

È anche il momento più pericoloso perché stanno affiorando sempre di più, ogni giorno di più, le divisioni all'interno della società israeliana che sembravano superate a causa di una guerra che richiede unità d’intenti e di “patriottismo”, senza “distinguo”di sorta.

E invece dobbiamo assistere a Netanyahu che va contro l'esercito, Israele-è-un-Paese-con-un-Esercito, non-un Esercito-con-un-Paese, alla legge sul reclutamento dei Haredim che, se approvata, scontenterà tutti, all'improvvida dimissione di Ganz dal governo, e alla possibilità di un nuovo schieramento politico di opposizione con Bennett , Lieberman e Saar, mentre la popolazione del nord si sente abbandonata dal governo.

Tutto questo, all'interno di un quadro di oggettiva difficoltà nel riuscire a liberare tutti gli ostaggi ancora in vita, rende la situazione drammatica e tesa.

Comunque la si pensi, politicamente parlando, quello che io vedo, vivendo a Tel Aviv, sono una tristezza e una malinconia diffuse, dopo l'adrenalina e la felicità per la liberazione di Noa Argamani e degli altri tre ostaggi.

Oggi ho incontrato un amico israeliano, religioso, sicuramente filogovernativo, che proprio non aveva voglia di parlare: era triste, pensieroso, preoccupato; l'ho salutato, abbracciandolo, non sapendo bene come congedarmi da lui.... E, tornando a piedi verso casa, a un incrocio mi passa davanti, a passo d'uomo, una automobile bianca guidata da una ragazza, sola; sul cofano anteriore e sui finestrini c'erano degli adesivi sui quali era scritto: “Mio papà è stato rapito il 7 ottobre”.

Ma l'altro ieri, mentre facevo jogging al tramonto al Yarkon Park, che costeggia l'omonimo fiume, ho visto, per caso, numerose famiglie arabe che, con tanti bambini, passeggiavano e mi sembravano tranquille e serene. La cosa mi ha incuriosito e li ho seguiti. Mi sono ritrovato a un vero e proprio sit in di famiglie arabe, che partiva dal vecchio porto di Tel Aviv e proseguiva verso nord fino alla spiaggia di Tel Baruch... centinaia di persone che passeggiavano,  chiacchieravano e preparavano carne alla brace. Era il “Giorno del Sacrificio”, una festività importantissima per il credo musulmano.

E non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia profondamente democratica e tollerante d'Israele; nessuno si è sognato di disturbarli o di mostrare insofferenza nei loro confronti. Era la cosa più normale del mondo. Nonostante tutto. Nonostante la guerra.

 

Terra di latte e miele è la definizione biblica della Terra promessa.

Una Terra, Erez, che da millenni ospita le dinamiche più turbolente e disturbanti della storia dei vecchi continenti.

E il latte e il miele sono simbolo di abbondanza e benessere della Terra che il Signore ha donato al Suo popolo.

Una Terra di abbondanza, non solo di cibo ma anche di Giustizia.

Mentre il latte e il miele hanno in comune una qualità paradossale.

Il miele è kosher, ma è il prodotto di un insetto non kosher.

Il latte è kosher pur provenendo da una mucca la cui carne non può essere mangiata insieme al latte.

Oltre al significato letterale, il latte e il miele hanno anche un significato squisitamente spirituale. Rappresentano la dolcezza e il nutrimento della parola e della presenza del Signore.

E così penso che la bontà di Israele possa spesso provenire da luoghi inaspettati e in modi inattesi.

Io di certo non sono un profeta. E lo spirito della storia ha certamente delle conseguenze involontarie. Forse dovremmo confidare in quello e sperare per il meglio. Oppure, dovremmo forse esaminare meglio quali scelte future saremo chiamati a fare. Non inseguendo miraggi, non cercando conforto rincorrendo grandiosi cliché.

Ma, soprattutto, non odiando. Perché l’odio non affligge solo l’animo, ma distrugge anche la nostra capacità di ragionare con lucidità. Aprendoci a un discorso serio e onesto circa le reali future opportunità che si profilano, facciamolo senza rabbia, senza pregiudizio.

 

Yair Lapid, il leader dell'opposizione israeliana, partecipando alla conferenza “Democracy Under Fire” dell'Università di Reichman, ha detto: «I valori non sono qualcosa che tieni solo quando ti fa comodo. Valori e princìpi sono pensati proprio per i momenti difficili. Se rinunciamo ai nostri valori, questo Paese è in pericolo esistenziale».
Secondo il leader di Yesh Atid «Il governo americano, l'Unione Europea e i Paesi liberali non credono più che siamo una nazione sana, seria e liberale, vincolata dal diritto internazionale... Nonostante abbiamo intrapreso la guerra più giusta nella storia…», e accusa il governo di aver sperperato il credito “quasi infinito” post-7 ottobre.

Dunque, prendiamoci il tempo, quel poco o tanto che ci rimane, mettiamo da parte le nostre certezze per farci delle domande. Senza cercare di rispondere subito. Senza dividerci. Senza aspettarci di appartenere ad un unico campo. Accettare di non essere d'accordo è uno dei fondamenti dell'ebraismo, giusto?

 

#ideologia  #postideologia  #sguardi  #tolleranza  #contrapposizione  #pace

 

 

 

La Rete Ebraica Europea per Israele, per la Pace e per la soluzione dei due Stati

 

 

«È ora che questa guerra finisca e che abbia inizio il giorno dopo».

 

Con queste parole il presidente Biden ha concluso il suo discorso del 31 maggio, in cui ha delineato un piano in tre fasi per porre fine alla guerra a Gaza e consentire il rilascio di tutti gli ostaggi. Ha presentato questo piano come quello israeliano, mettendo Benjamin Netanyahu in una posizione difficile. Se il primo ministro israeliano contraddicesse il presidente americano, lo farebbe passare per un bugiardo. Se approvasse questo piano, ciò porterebbe di fatto allo scioglimento della sua coalizione perché i suoi alleati di estrema destra non accetterebbero mai di sostenerlo.

 

Questo piano riprende il contenuto dei negoziati che si svolgono da diversi mesi tra le due parti attraverso l'Egitto, gli Stati Uniti e il Qatar. Si dettagliano le tre fasi durante le quali gli ostaggi verrebbero rilasciati gradualmente, parallelamente all'instaurazione di un cessate il fuoco, all'aumento degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e al loro ritorno nelle aree abitate liberate dalla presenza dell'esercito israeliano. Rendendo pubblico questo piano, il presidente americano si è rivolto all'ala sinistra del Partito Democratico, da un lato per dimostrare il suo impegno a porre fine alla guerra, preoccupato per la sicurezza e il benessere delle due popolazioni civili, e dall’altro alle due parti per costringerle a prendere posizione. Per il momento nessuno di loro ha dato una risposta ufficiale a questo piano che ha ottenuto il sostegno dei leader del G7. Da parte israeliana si insiste sui numerosi dettagli che restano da chiarire, mentre Hamas ha indicato che ci sono «molti elementi positivi» in questo piano. «Avevano però bisogno di vederli scritti su un foglio di carta».

 

In realtà questo piano è costruito su un’ambiguità. Per Israele, la cessazione delle ostilità può essere definitiva solo con «l’eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas». E per Hamas deve garantire la sua sopravvivenza come organizzazione politica che dovrà essere associata alla gestione di Gaza dopo la guerra.

 

Biden è consapevole di queste differenze. Ma è anche consapevole che i due partiti hanno ciascuno la loro «buona» ragione per voler continuare questa guerra: Netanyahu perché è la condizione per la sopravvivenza del suo governo e, inoltre, gli permette di beneficiare di un rialzo dei sondaggi; Hamas perché gli permette di affermarsi come il vero rappresentante della causa palestinese nonostante il prezzo pagato dalla popolazione di Gaza, di cui certamente non si preoccupa. Per rompere questo blocco, Biden ha quindi rischiato di forzare la mano alle due parti con il rischio calcolato di provocare elezioni anticipate in Israele che, spera, rimuoverebbero Netanyahu dal potere e con la speranza di spingere il Qatar a esercitare le necessarie pressioni su Hamas per costringerlo ad accettare questo piano.

 

Biden si è rivolto anche direttamente all'opinione pubblica israeliana, presentando questo piano come l'ultima possibilità per recuperare gli ostaggi. Sapeva che avrebbe trovato in essa l’alleato necessario nella situazione di stallo tra lui e Netanyahu. E non aveva torto. Il giorno dopo il suo discorso, 250.000 israeliani hanno manifestato per sostenerlo. L'ultimo sondaggio mostra che il 62% di loro è favorevole alla liberazione degli ostaggi piuttosto che alla continuazione della guerra. Le loro famiglie si sentono sempre più abbandonate dal governo dopo che è stata appena annunciata la morte di quattro ostaggi in custodia. Le organizzazioni che avevano partecipato al movimento di protesta contro la riforma giuridica si stanno mobilitando sempre più per chiedere la caduta di questo governo e l'organizzazione di elezioni. Hanno intenzione di manifestare dal 16 giugno davanti alla Knesset e sperano di bloccare il Paese.

 

Per rassicurare l'opinione pubblica israeliana, il presidente Biden ha dichiarato che le capacità militari di Hamas oggi sono molto ridotte e che non è più in grado di organizzare un altro 7 ottobre. Inoltre, prendendo il controllo dell'asse Filadelfia, che costituisce il confine tra Gaza e l'Egitto, l'esercito israeliano ha iniziato a demolire tutti i tunnel che lo attraversavano e attraverso i quali Hamas si riforniva di armi e si arricchiva con le tasse sulle merci. Questa continua pressione su Hamas spiega senza dubbio l’aumento del lancio di Hezbollah, su richiesta degli iraniani, sul nord di Israele – quasi 1.000 razzi durante il mese di maggio. Il rischio di vedere scoppiare una guerra lì è forte e sarebbe molto più difficile di quella condotta per 8 mesi a Gaza – il numero degli Hezbollah è stimato in 200.000 uomini. Se è così, allora sarà senza dubbio difficile per i generali Benny Gantz e Gadi Eisenkot lasciare la coalizione di governo nonostante l’ultimatum che Gantz ha dato a Netanyahu di definire un piano d’azione per il dopoguerra entro l’8 giugno.

 

Le manifestazioni filo-palestinesi nelle università europee e americane, uno degli ultimi esempi è stato il tentativo di impedire la partecipazione di Elie Barnavi a una conferenza prevista per il 3 giugno presso l'Università Libera di Bruxelles, costringendo al trasferimento in un'altra sala sotto scorta, mi hanno spinto a scrivere questi pochi pensieri.

 

Le generazioni che si sono succedute dagli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di impegnarsi contro guerre paragonabili a quella del Vietnam – una guerra “imperialista” condotta dalla superpotenza americana contro un paese povero del continente asiatico. Con l’eccezione della guerra in Iraq, contro la quale i giovani occidentali hanno manifestato, le cause che li hanno mobilitati negli ultimi anni sono state generalmente cause sociali o ecologiche.

Gli anni di pace che l’Occidente ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale hanno fortunatamente risparmiato ai suoi giovani il confronto diretto con la guerra. Tuttavia, la guerra è lungi dall’essere scomparsa dal pianeta. Non si possono più contare quelle che hanno devastato il continente africano, l’Asia, l’America Latina o il Medio Oriente, nella quasi indifferenza della gioventù occidentale, nonostante i milioni di morti di tutsi, sudanesi, siriani, curdi e uiguri, sahrawi, yemeniti, congolesi … E la guerra che, da due anni, vede una democrazia nel cuore dell’Europa attaccata dal suo vicino russo, non mobilita nemmeno le masse nelle strade delle capitali occidentali.

 

Quando si è verificato il barbaro attacco commesso da Hamas il 7 ottobre sul territorio israeliano, le immagini filmate e trasmesse in diretta dagli stessi aggressori hanno turbato per diverse ore tutti quelli che le hanno viste. Ma, dal primo bombardamento effettuato in risposta dall’esercito israeliano a Gaza, queste immagini sono state cancellate, al punto che alcuni cominciarono addirittura a dubitare della loro veridicità. E le manifestazioni di sostegno all’uno o all’altro campo non si sono fatte attendere.

 

Non è certo la prima volta che il conflitto mediorientale infiamma gli animi e si impone nel dibattito pubblico in Occidente. Ma le manifestazioni non avevano mai raggiunto un tale livello di mobilitazione, soprattutto tra quei giovani che sostengono la causa delle vittime palestinesi ignorando le vittime dell’altra parte.

Come spiegare questo «doppio standard» tra, da un lato, un silenzio assordante di fronte alle guerre vicine o lontane, e, dall’altro, le reazioni alla guerra in corso tra israeliani e palestinesi? C’è innanzitutto un punto comune tra questa guerra e quelle intraprese dagli Stati Uniti in Vietnam o in Iraq: una democrazia “potente” si oppone a una popolazione “più debole”. In Occidente è ovviamente facile, e soprattutto potenzialmente più efficace, manifestare contro una democrazia che contro una dittatura. Manifestare contro la guerra in Ucraina o i massacri degli uiguri in Cina difficilmente disturberebbe i regimi di Putin o Xi Jinping.

 

Non ho dubbi sul grado di impegno degli attuali manifestanti a favore della causa palestinese. Ma noto che, mobilitandosi contro di lui, questi manifestanti riconoscono che lo Stato di Israele, nonostante le sue imperfezioni, appartiene alla famiglia delle democrazie liberali e che possiamo quindi sperare di spingere il suo governo a cambiare la sua politica. Gli israeliani, del resto, fanno la stessa cosa. Lo hanno dimostrato durante tutto l’anno scorso, riunendo ogni settimana diverse centinaia di migliaia di manifestanti – l’equivalente di altrettanti milioni in tutta la Francia – contro una riforma giuridica che metteva in discussione i poteri della Corte Suprema, che il governo voleva fosse adottata. E gli israeliani continuano a manifestare anche oggi per chiedere il rilascio degli ostaggi o le elezioni anticipate.

 

Un’altra spiegazione di questo «doppio standard» mi sembra molto più preoccupante in termini di conseguenze. Nasce da una lettura manichea del conflitto, con, da un lato, la parte dei «buoni», dei «deboli», dei «non bianchi», degli «oppressi», dei «non occidentali» e, dall'altro, la parte del «malvagio», del «forte», del «bianco», del «colonialista», dell’«occidentale»… Una visione così semplicistica, frutto della cultura wokista oggi in voga, promette disgrazie attuali e future per entrambi popoli. A questi manifestanti che aspirano soprattutto a stare dalla «parte buona» vorrei ricordare ciò che ha scritto Amos Oz sul conflitto in «Aiutateci a divorziare! Israele-Palestina, due Stati adesso», Gallimard 2004.[1]

 

A ciò si aggiunge, purtroppo, un’altra lettura che non mi aspettavo più di vedere emergere con questa forza nel dibattito pubblico: la rinascita dell’antisemitismo. Ci eravamo abituati (anche se non rassegnati) alla presenza dell’antisemitismo nelle frange nauseanti dell’estrema destra.

Ma oggi la parola «sionista» viene usata al posto della parola «Ebreo» per attaccare chiunque, israeliani o cittadini Ebrei che vivono nella diaspora, sostenga il diritto degli israeliani a difendere il proprio Stato – anche coloro che criticano la politica del loro governo nei confronti dei palestinesi. E questo non inganna nessuno.

Perché cosa significa la parola «sionista»? Significa riconoscere che gli Ebrei hanno diritto al loro Stato, anche perché lì si è radunata la metà del popolo ebraico e buona parte di coloro che vivono nella diaspora vi sono indefettibilmente legati. E non riconoscere questo diritto equivale ad antisemitismo, quando il movimento sionista ha al suo interno, come tutti i movimenti nazionali, tanti sostenitori sia di destra sia di sinistra – e questi ultimi da anni si battono per uno Stato palestinese accanto a Israele.

Constatare che oggi, in Francia, è tra i cittadini che affermano di appartenere ad una certa sinistra che il discorso antisionista è sempre più dominante, è molto preoccupante per il futuro delle nostre democrazie e per quello della sinistra. E il fatto che alcune persone sostengano questo discorso per elettoralismo – o, peggio, sotto l’influenza degli islamisti – è ancora più preoccupante.

[Di David Chemla. Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari] – David Chemla è membro fondatore, con Alain Rozenkier, dellAssociazione “La Paix Maintenant”.

 

 

 [1]

Questa non è una lotta tra il Bene e il Male. Si tratta piuttosto di una tragedia nel senso antico del termine, di un conflitto tra due cause uguali l'una e l'altra... I palestinesi sono in Palestina, perché la Palestina è la patria, e l’unica patria, del popolo palestinese…. Gli Ebrei israeliani sono in Israele, perché non c’è nessun altro paese al mondo che gli Ebrei, come popolo, come nazione, possano chiamare la loro patria…. I palestinesi vogliono il paese che chiamano Palestina. Hanno buone ragioni per volerlo. Gli Israeliani vogliono esattamente lo stesso paese, esattamente per le stesse ragioni…. Ciò si traduce in una tragedia… Ciò di cui abbiamo bisogno è un compromesso doloroso…. Per me la parola compromesso significa vita. Il contrario significa fanatismo e morte…. Compromesso significa che il popolo palestinese, come il popolo ebraico israeliano, non sarà mai più schiacciato e umiliato”. E Amos Oz conclude dicendo agli europei: «Se avete il più piccolo slancio di aiuto e di simpatia da offrire, che non vada all'uno o all'altro, ma a entrambi. Non dovete più scegliere tra filo-israeliani o filo-palestinesi, dovete essere a favore della pace ».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SPOSARSI IN TEMPO DI GUERRA IN ISRAELE, di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 31 maggio 2024

 

 

Ieri sono stato al matrimonio del figlio di un mio carissimo amico, a Tel Aviv: Michael e Benedetta – che vivono entrambi da tempo in Israele – sono stati sposati dalla spina dorsale della Rabbanut di Roma, Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rav Yoseph Pino Arbib e Rav Avraham Alberto Funaro.

E, nel momento più emozionante della cerimonia, con la Chuppah che ci regalava un ineguagliabile tramonto sul mare, non ho potuto fare a meno di pensare (ma dove va la testa, in certi momenti?) al sindaco di Bologna che ha esposto la bandiera palestinese dal Palazzo comunale della sua città. Inutile e superfluo chiedersi perché non abbia fatto lo stesso il 7 ottobre con la bandiera israeliana...

Peccato non fosse presente, magari come invitato, al matrimonio... Forse (dico forse) ci avrebbe ripensato e, sempre forse, avrebbe capito lo stato d'animo – degli ebrei, israeliani e non – in questo tempo di guerra in cui si celebrano (ancora e sempre) matrimoni.

 

In Israele, da sempre, la voglia di pace, di convivenza e di felicità, prevale su tutto, e tuttavia, in Israele, la via di mezzo, il compromesso – portatore di guai più gravi in futuro – non è mai piaciuta.

Con questo sentimento nazionale, sebbene trascinati in una guerra sanguinosa non voluta – che ogni giorno provoca morti e feriti nella gioventù – e nonostante che il nord d'Israele sia rimasto disabitato per evitare vittime civili, la società israeliana risponde con il Matrimonio che, oltre ad essere grande mitzvah, rappresenta l'aspetto più alto della resilienza ebraica.

 

Portiamo con noi le nostre ferite, ricordando che, oggi come un tempo, le alleanze e le amicizie sono fondamentali per affrontare il male. Per riemergere dalle tenebre alla luce: questa è la storia ebraica. Superiamo il male attraverso l’unità e, non meno importante, grazie ai legami e alle profonde amicizie e, nelle ore più buie, dalla persecuzione nazifascista alla strage di Hamas, il popolo ebraico comunque riesce a guardare avanti.

Le voci e le parole dei Rabbanim, che celebrano un rito antichissimo e prezioso, calmano la mia anima inquieta – che vaga avvolta dalla luce di un tramonto accecante – e aprono un sempre nuovo e rinnovato varco tra noi e il Divino. Ne abbiamo tutti bisogno, consapevolmente o meno.

In realtà, ammettiamolo, abbiamo pochissimi luoghi fisici, nel mondo, che ci accolgano per celebrare i nostri riti e le nostre sacre ricorrenze, ma di tempo, tempo dello spirito e della preghiera, oh, di quello ne abbiamo tanto, tantissimo, infinito e circolare.

E le parole, già, le parole del Rito matrimoniale e anche altre parole (ieri sera tutte le parole si intrecciavano, con significanze arcane): qui, in Israele, diciamo insieme vinceremo; ma chi è incluso in insieme?

Insieme Ebreo? Insieme Israeliani? Insieme di chi vuole la pace? Insieme a chi cerca la luce?

 

Forse dovremmo iniziare a decodificare le parole.

Ma non oggi, domani.

Oggi cè la cerimonia del matrimonio, con il suo fortissimo impatto emotivo e visivo che ci ricorda di rispettare e di non perdere tradizioni antiche e forti. La sua celebrazione è coinvolgente, ricca di usanze, rituali, nenie e litanie, è un'unione spirituale tra due persone e rappresenta l'adempimento dei comandamenti del Signore.

 

Oggi Israele non è guerra a Gaza, non è gioventù in divisa senza anima. Oggi si crea una nuova famiglia e, senza dimenticare quelle distrutte e gli ostaggi, si continua a guardare al futuro.

La vita, alle volte, diviene un turbine di impegni, obblighi e incertezze, ma oggi è un universo completo in se stesso e possiede in sé sentimenti ed emozioni, tocca corde differenti, che se ne stavano lì, tranquille, sopite, prima di cominciare il Rito.

Mi accorgo che solo così, solo attraverso il Rito, possiamo recuperare il giusto abbandono verso la Vita e ricominciare di nuovo tutto da capo.

 

Il Rito matrimoniale di Michael e Benedetta, così bello e compiuto nella sua perfezione, mi induce quella sensazione dolce-malinconica, quel delicato senso di perdita, quel piacevole struggimento che vorremmo sempre replicare… Mi sento come travolto da una tensione fisica che genera il mondo attorno a me.

Il fatalismo non appartiene allanima ebraica, ma lostinazione e la nostalgia, quelle sì.

E oggi parlo anche di uno struggimento, di una melancolia agra e dolce alla fine, con la sensazione di incrociare qualcosa di immenso, che travalica la nostra vita, la supera e assurge a caposaldo per manifestare tutto, mentre fisso le onde che – lente – si increspano sul bagnasciuga.

 

E non posso evitare di pensare a tutte le vite che abbiamo perso, dal 7 ottobre in poi. A chi non cè più, agli ostaggi, ai nostri giovani al fronte – tutti celebravano ogni giorno la Vita e lAmore, come noi, questa sera.

C’è forse bisogno del giusto periodo, un tempo di cura, per guarire dalla finema voglio ancora stupirmi delle cose semplici, sorridere, perché dopo il dolore la vita continua, perché, quando provi un dolore insopportabile devi pensare che la vita va avanti e vivere con il sorriso.

 

Resistono gli affetti che non hanno bisogno del tempo materiale, i rapporti che non hanno bisogno di essere nutriti dal tempo materiale.

Per questa sera, evitiamo di dividerci in buoni e cattivi, anche se mai nella storia così tanti si sono trasformati in utili strumenti di un asse del male.

Decido di non farmi risucchiare e, con parole antiche, non chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano, di preservarci dal timore di poter perdere qualcosa della vita, di non darci ciò che desideriamo ma ciò di cui abbiamo bisogno, di insegnarci l’arte dei piccoli passi.

 

Mazal Tov, Michael e Benedetta!

 

https://morasha.it/sposarsi-in-tempo-di-guerra-in-israele/

 

https://riflessimenorah.com/sposarsi-in-tempo-di-guerra-in-israele

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ULTIMO ABBRACCIO - di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv,

06 giugno 2024

All’interno del mondo ebraico, e questa è la sua forza e la sua bellezza, convivono mille pensieri, mille posizioni, mille modi di intendere il mondo, di leggerlo e di immaginarlo. La guerra tra Israele e Hamas, innescata dall’atroce attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, non fa eccezione a questa diversità. 

È con lo sguardo di un ebreo italo - israeliano, innamorato di questa doppia identità, della sua storia e dei suoi valori comuni, di ciò che trasmette dell'anima e della civiltà occidentale, che sempre tento di sostituire la tentazione del fatalismo e della disperazione con un'azione a favore della pace e della vita durature – anche se gli ultimi mesi sono stati tra i più difficili della nostra vita. E sappiamo ormai che Hamas non vuole né la liberazione degli ostaggi, né la salute, né la felicità dei palestinesi; ama solo la morte, quella degli ebrei soprattutto, ma anche quella di coloro che pretende di rappresentare.

Il male esiste, ecco tutto.

È con questo stato d’animo, e con questi pensieri, che alle 18.30 di oggi mi sono recato alla manifestazione dell'associazione “Casa di Ben Gurion” – proprio davanti alla casa dove ha vissuto a Tel Aviv il Primo Ministro d’Israele.

La via ora si chiama Ben Gurion Boulevard, ed ha ospitato una cerimonia molto più intima di quella che, quasi contemporaneamente, si teneva a “Piazza degli Ostaggi”.

Si tratta di una casa semplice, in una via modesta, eppure è riuscita, e riesce sempre, a catalizzare emozioni e sentimenti fortissimi – quasi sovraumani.

È come se, recandosi lì – in una sorta di preghiera laica, ma attenzione, nell’Ebraismo in generale e in Israele in particolare, laicità e spiritualità sono indissolubili – le persone cercassero e trovassero conforto, come se stessero appoggiando la testa sulla spalla di qualcuno che è lì per ascoltare e per spiegare, in una parola, per confortare.

E quel qualcuno è e rimane l’immagine e il ricordo di David Ben Gurion.

 

Insieme a Ghil Segal, membro dell'esecutivo dell’Organizzazione Sionistica Mondiale, si è voluto ricordare le madri di quei giovanissimi e di quelle giovanissime che non ce l'hanno fatta il 7 ottobre.

Erano presenti molti parenti di queste famiglie in lutto e gente, come me, passata lì per caso.

Due madri hanno preso la parola sul palco, due mamme che hanno perso i loro figli e che in comune hanno la data del compleanno: oggi, 6 giugno.... e la data della loro morte, il 7 ottobre.

La compostezza e la dignità delle madri sono state impressionanti e struggenti.

La prima, che ha perso una splendida ragazza, che oggi avrebbe compiuto 22 anni, ha raccontato gli ultimi giorni prima del 7 ottobre e di come ha saputo dalla stessa figlia, telefonicamente, che non l'avrebbe più rivista. 

La seconda che ha perso il suo Idan, 21 anni oggi, inconsolabile ma composta, misurata, si è chiesta e ci ha chiesto se era possibile abbracciare per l'ultima volta il proprio figlio attraverso una foto, un'immagine.

Non era possibile, purtroppo, ma il suo rimarrà un abbraccio che continuerà finché vivrà. E per il suo compleanno, oggi, i suoi amici lo hanno festeggiato come se lui fosse lì tra loro, con un abbraccio, quello sì, eterno.

 

La manifestazione, discreta, composta, straziante, si intitolava, appunto, “L'ultimo abbraccio”, ed era l'abbraccio delle madri ai figli che non ci sono più.

Le donne hanno un nesso essenziale con il potere di elevare il potenziale del mondo fisico e quando Hashem va oltre i limiti del finito e dell'infinito, la massima prova della Sua trascendenza è la sua essenza, che si deve cercare nella materia.

E così è avvenuto oggi, alla “Casa di Ben Gurion”: le donne sono state l’anello di congiunzione tra il mondo e Hashem.

 

Ho scritto che il male esiste. E qui, ieri, ce n’era un esempio tangibile, quanto tangibile, è difficile anche descriverlo, delle sue conseguenze, all’interno di ciascuno noi, nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra anima.

Amalek sa esattamente che cosa dire, a chi e in quale momento.

Può essere anche come un vento freddo che spegne lentamente la nostra sensibilità verso la provvidenza e l’amore con cui Hashem guida e anima la nostra vita.

 

Le madri di “L'ultimo abbraccio ci insegnano molto, in questo senso.

Che cosa si fa quando si è disperati?

Si cerca di ricucire. Lentamente. Guardando in faccia la disperazione. Affrontandola. Dandole forma. Attraversandola. Tentando di andare oltre.

E, così, sembra di riuscire a raggiungere altri mondi.

E il groviglio di fili emotivi dentro di te si ammorbidisce.

Ci si focalizza sul punto, sul presente, e lo si affronta.

Si affronta tutto ciò che è divenuto improvvisamente disarmonico, confuso, caotico e vuoto.

Non si vince. Si accoglie. E si cerca di comprendere – anche se è difficilissimo.

Tuttavia, cucendo tutto questo dolore immenso, ci colleghiamo a quel filo sottilissimo che appartiene a tutta l'umanità e ai suoi misteri.

Cucendo tutto questo strazio infinito è come se ci trasformassimo in un ragno che tesse la sua ragnatela, raccontando silenziosamente al mondo tutti i segreti della vita.

Intrecciando i fili, intrecci i tuoi pensieri, le tue emozioni.

E ti colleghi al divino che è in te e che tiene in mano l'inizio del filo.