IL PENSIERO COME MEZZO PER ALLONTANARSI
DALL'ORRORE ESTREMO
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
Dicembre 2024
Il pensiero critico è uno strumento di resistenza alla disumanità, spiega il filosofo Ezequiel Burstein, che cerca di pensare l'impensabile dopo il 7 ottobre. In questa rubrica pubblicata inizialmente in Argentina, analizza i limiti del linguaggio e della rappresentazione di fronte al male radicale, non senza criticare silenzi o giustificazioni ideologiche.
Che cosa succede quando l'esperienza ci allontana dalle nostre certezze più basilari e supera la nostra capacità di concettualizzare la realtà? Dopotutto, concettualizzare è in un certo senso chiamare le cose con il loro nome: istituzione del simbolico dal caos del fenomenico, per comprendere e apprendere il mondo che ci circonda. Ma cosa succede quando ci imbattiamo in un limite radicale che, come un colpo – sordo ma certo – ci viene imposto dall’esterno e ci priva di ogni capacità di dare un nome alla realtà? Che cosa dovremmo fare con il materiale della nostra percezione, se non possiamo elaborarlo intellettualmente? Questa sensazione paralizzante di non riuscire nemmeno a dare un nome a ciò che vediamo è ciò che in teoria è noto come il problema dei limiti della rappresentazione, in particolare negli studi sull'Olocausto e su altre esperienze del male radicale del recente passato.
Proprio il non saper gestire linguisticamente l'esperienza di ciò che percepiamo ci mette in una situazione di ansia di fronte a quello che, fino allora, costituiva il nostro strumento simbolico fondamentale: il linguaggio. Sperimentare il limite della nostra capacità espressiva di fronte a ciò che non riusciamo a collocare in una catena simbolica del conosciuto non è un fenomeno quotidiano, è dell'ordine dell'inaspettato, è destabilizzante. Ci fa perdere l’orientamento e, per questo, ci mette ansia. Non capire è angosciante; non capire è frustrante: una possibile spiegazione per le sensazioni che molti di noi provano dal 7 ottobre.
Non capiamo come una persona possa deliberatamente tagliare la gola e bruciare vivi bambini e neonati; non capiamo come una persona possa prestarsi all'omicidio dei genitori davanti ai figli, dei nonni davanti ai nipoti; come si possa violentare le adolescenti e poi esibirle davanti alle masse che filmano e festeggiano, traboccanti di sadismo e oscenità. Non capiamo. Tutti questi atti barbarici, compiuti con l'esplicita intenzione di essere trasmessi e riprodotti quante più volte possibile. Nessuna maschera, nessun occultamento. Nessun respingimento. Viralizzazione deliberata, diffusione contagiosa del male peggiore, propagazione all'infinito.
L'idea che necessariamente s’impone in primo luogo, è quella della follia, del delirio: per realizzare queste azioni, sembra che sia necessario un radicale lasciarsi andare. Il termine “delirio” trova la sua etimologia in campagna: designa uno spostamento rispetto alla “lira”, il solco in cui viene seminato quello che poi diventerà il raccolto; un atteggiamento irrazionale, poiché implica una perdita inutile nel guadagno futuro. Delirio, dunque: irrazionalità totale come modo di una spiegazione dei fatti che, a prima vista, non ravvediamo.
Non capiamo nemmeno come persone apparentemente pensanti, favorevoli alla difesa dei diritti umani, sedicenti progressiste (in riferimento, ovviamente, al progresso dell’umanità), abbiano preso e continuino a sostenere la vergognosa decisione etico-politica di non denunciare pubblicamente gli avvenimenti del 7 ottobre. In considerazione delle molteplici espressioni di personalità politiche, culturali e intellettuali legate all'ambito della “sinistra”, il rapporto, sempre complesso e delicato, tra antisionismo (posizione critica o spesso direttamente ostile nei confronti dello Stato di Israele) e antisemitismo (odio o pregiudizio contro gli ebrei) subisce una metamorfosi chiarissima. La totale assenza di condanna rivela graficamente il travestimento cinico della correttezza politica; è chiaro che coloro che sono incapaci di denunciare l'atrocità di questi crimini senza ricorrere a giustificazioni storiche e geopolitiche non sono altro che un'ulteriore espressione dell'antisemitismo come patologia sociale, endemìa storica dell'umanità. La particolarità, mi sembra, sta nel fatto che questo antisemitismo è accompagnato dall’epurazione ideologica delle teorie postcolonialiste che gli permettono di esistere senza destare il minimo sospetto.
La scelta personale e collettiva di dare priorità al sostegno di una leadership politica manifestamente criminale, terrorista, fondamentalista e intollerante conferma la logica dei doppi standard che attribuisce più importanza alle alleanze politiche che alla capacità umana più elementare, quella del giudizio razionale che consente la possibilità di empatia umana su qualsiasi strategia orientata dall’interesse. Il potere del desiderio, il potere dell'immaginazione: la fede in un'idea rassicurante mette in moto l'industria dell'immaginazione interna, funzionando come fondamento della pace interiore dell'individuo. Il Prozac morale quotidiano, l'analgesico ideale per la coscienza del soggetto benpensante.
Di fronte alle posizioni non condannanti che continuiamo a osservare, non posso che pensare che il desiderio abbia finito per prendere le redini della percezione, oscurando il discernimento e provocando la perdita di ogni forma di capacità critica. Il desiderio di credere come motore della più potente facoltà creativa dell'essere umano: la capacità immaginativa. “L’immaginazione crea, oggettiva in immagini, incarna. L’intelletto fa un pisolino sul morbido cuscino dell’immaginazione”, dice ingegnosamente il filosofo Ludwig Feuerbach. O questo è vero, oppure si tratta di posizioni permeate da un profondo e, ormai, esplicito antisemitismo. Non vedo davvero alcuna alternativa.
Cerchiamo di essere chiari: la situazione a Gaza è estremamente grave e ogni morte civile deve essere condannata. Non c’è spazio per ambiguità su questo punto. Le notizie di tutti i giorni sono disastrose e ci distruggono, di là dall’odio antisemita che infiammano. Ma c’è una differenza fondamentale: s’inseriscono nel contesto (deplorevole, certo) di una guerra concretamente provocata da un’aggressione non solo terribile ed esplicita, ma soprattutto molto puntuale; una guerra per la quale purtroppo non è prevista alcuna soluzione a breve termine, e che evidenzia ancora una volta l’urgente necessità di una soluzione politica tra Israele e Palestina che implica necessariamente l’esistenza di due Stati confinanti come la più importante garanzia per una pace duratura.
Questa situazione solleva, ancora una volta, la questione della natura della violenza e del suo intrinseco e iperbolico potere distruttivo; non vediamo immediatamente come la violenza non possa generare altra violenza. La necessità del rilascio e della restituzione degli ostaggi è importante quanto un cessate il fuoco che protegga la popolazione civile palestinese. Ma anche in questo caso improbabile, cosa fare con Hamas? Come puoi vivere nello stesso edificio con un vicino il cui primo scambio con gli altri comproprietari è dichiarare apertamente che vuole ucciderti e gettarti dal balcone in strada? Quale futuro di coesistenza pacifica può esistere con Hamas? Domande fondamentali che tutti noi che abbiamo un legame con Israele ci poniamo oggi.
Oggi ho fatto l'esercizio di rivedere alcuni video e foto del 7/10, disponibili su https://www.hamas-massacre.net/, uno dei siti che si è preso la briga di raccogliere tutto il materiale audiovisivo disponibile dell'attacco. Inutile dire che il contenuto è pesante; alcune parti sono molto difficili da guardare. Questo è quello che mi è successo.
La prima reazione alle immagini è dire di no: espressione verbale del rifiuto più elementare di ciò che la psiche sa che deve essere una barriera. Dire no: negazione della veridicità dei fatti, della condizione stessa di possibilità che siano quello che sono.
Un video di almeno dieci corpi senza vita e insanguinati ammucchiati uno sopra l'altro sul pavimento del festival Nova. NO. L'immagine di una coppia bruciata viva in un'auto; espressioni di orrore immortalate sui loro volti carbonizzati. NO. Un bambino bruciato vivo, irriconoscibile. No, no, no.
Il desiderio di negare ciò che vedo avviene in modo irrefrenabile; mi rendo conto che ne ho bisogno: è la mia unica risorsa per sopportare le immagini. La voce come enunciatore fonetico della negazione si rivela così un meccanismo psicologico di adattamento di fronte all'orrore.
La seconda reazione, ancora più fisica: voglia viscerale di vomitare, nausea. Rifiutare attraverso il tratto digestivo ciò che il corpo riceve sensorialmente attraverso gli occhi. Controdigestione etica come rifiuto ontologico: non posso consumarlo; quindi questo non può essere. Se l'essere umano è ciò che mangia, non può che fare di questa ingestione d’immagini una vera dieta di intossicazione per qualsiasi corpo che voglia vivere.
Che cosa fare con tante immagini, tanti stimoli che circolano sui social network e nei media? La deriva informatica imposta con la forza da algoritmi ritagliati su misura sulla singolarità di ciascun utente-consumatore. La sovrarappresentazione del male radicale contrasta con la mancanza di risorse intellettuali per comprenderlo.
Uno dei problemi cruciali qui è che così tante rappresentazioni stordiscono, assordano e rendono opaco ciò che cercano di chiarire. L'immagine nella sua riproduzione totale non fa altro che ostacolare il pensiero, perché segue la logica del non-stop: l'alimentazione non si ferma mai, ha sempre qualcosa di nuovo da nutrirci.
Il contenuto sembrerebbe sempre inesauribile, con un volume inversamente proporzionale alla capacità di attenzione del soggetto. “Nessuno può pensare se non si ferma”, ha detto Hannah Arendt in un’intervista. Una verità perenne.
Al posto della riflessione e della moderazione, la dinamica della riproduzione iterativa che tende all’infinito impone la necessità fittizia del bipolarismo: o siamo da una parte – il bene, la coscienza pulita – o siamo dall’altra – il male, la colpa. Ma questo posizionamento sconsiderato non può esistere senza la sua necessaria pubblicità, una condizione sine qua non di possibilità. Sembrerebbe che, secondo questa logica manichea e pericolosa, non si possa prendere alcuna posizione senza rispettarne allo stesso tempo il carattere eminentemente pubblico: bisogna scegliere da che parte stare, e non appena la si sceglie, bisogna comunicarla. Se non lo pubblico, non esiste; pubblico, quindi esisto come soggetto morale. Cartesianesimo woke del 21° secolo.
Questa dinamica di immediatezza risulta nell'impossibilità di qualsiasi posizione sfumata; la natura brutalmente effimera dei social network richiede una presa di posizione immediata. Di fronte al processo discorsivo del pensiero, che funge da mediazione linguistica tra sentimento e azione, l'opinione è immediata; non può essere altrimenti, lo esige la sua natura profondamente dicotomica. Il che ha l’ulteriore grave corollario di imporre il condizionale “se non sei con noi, sei con gli altri”. La disciplina morale come cancellazione di ogni dissenso, morte del pensiero critico e di ogni possibilità di dialogo.
Tuttavia, di fronte alla frustrazione dell’aporìa, è opportuno ricordare una frase che mi accompagna fin dall’adolescenza: “Con l’antisemitismo non discutiamo, lo combattiamo”. Perché questa frase? Perché è una frase che, nella sua semplicità, ci permette di cambiare atteggiamento nei confronti di ciò che ci è dato. All’improvviso il pensiero non è più semplice pensiero: diventa strumento di combattimento, arma contro la disperazione collettiva, possibilità di incontro. Insomma, pensare come prospettiva per il futuro, come apertura all'ignoto, all'altro. L'iniziale impossibilità di nominare si è trasformata nella possibilità di pensare. E di fronte all’impotenza generata dal delirio collettivo che sembra impadronirsi del mondo, un’ultima frase della Arendt da tenere a portata di mano: “È meglio essere in disunione con il resto del mondo che con se stessi, perché io sono un'unità. Altrimenti c’è un conflitto interno che diviene insopportabile”.
Testo inizialmente pubblicato sul quotidiano La Nación (Argentina), supplemento “Idee”, 30 dicembre 2023.