IDENTITÀ E APPARTENENZA

di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 8 dicembre 2024 

 

Pochi giorni fa, in uno dei miei brevi periodi romani, sono andato alla splendida festa per il centenario della fondazione della Scuola Ebraica di Roma. Erano presenti molte autorità pubbliche, tra le quali spiccavano il Sindaco di Roma e il Presidente della Regione Lazio. È stata anche ufficializzata la cessione del Comune di Roma alla Scuola Ebraica dell'edificio di Via S. Ambrogio, attiguo alla sede attuale della scuola; con una gigantesca donazione da parte della Fondazione Lauder, della fondazione Yael e di altri anonimi donatori si potrà ristrutturare il nuovo edificio acquisito. Questi soldi, in un periodo di rinnovato antisemitismo, serviranno anche a garantire il rinnovamento e la crescita culturale di una scuola che già sfiora l'eccellenza.

Il Rabbino Capo Di Segni, nel suo intervento, ha fatto giustamente notare come Ernesto Nathan, sindaco ebreo di Roma, pensò e fece realizzare il Tempio Maggiore di Roma ma si dimenticò della Scuola Ebraica, spina dorsale della continuità culturale e religiosa degli ebrei romani. A questa mancanza sopperì venti anni dopo Vittorio Polacco, già Senatore del Regno d'Italia, per organizzare luoghi di studio per accogliere studenti ai quali trasmettere l'insegnamento della Torà come nozione di vita e di comportamento, e per acquisire il senso di appartenenza nei confronti della Comunità Ebraica.

Nella scuola ebraica si deve imparare a essere ebrei ma anche a vivere una socialità ebraica: quest'ultima è un elemento essenziale, fondamentale per esplicare la propria identità ebraica.

L'inviato della Fondazione Lauder, principale donatrice, con il suo intervento ha avuto parole lusinghiere nei confronti della Scuola e della Comunità Ebraica di Roma, mettendo l'accento che è sì una piccola comunità ma è famosa per la sua capacità di essere una comunità tradizionale e nello stesso tempo aperta alle istanze del mondo circostante. Questo grande riconoscimento è la chiave della tradizione ebraica romana.

Questo intervento ha stimolato in me alcune riflessioni: io, che per buona parte dell'anno vivo in Israele, credo che il grande problema nella Diaspora sia la confusione che noi ebrei troppo spesso facciamo tra "identità ebraica" e " senso di appartenenza". Questa confusione è spesso la causa dirompente dell'assimilazione.

 Come ci fa notare Rav Michi Nazrolai in una delle sue lezioni intitolata " Che cosa fa di un ebreo un ebreo?", l'ebreo, secondo la Torà e il Talmud rimane ebreo anche se non rispetta i precetti, anche se li trasgredisce.

Nel Levitico è detto: "Hashem abita tra noi in mezzo alle nostre impurità", cioè il Suo rapporto con noi rimane invariato, indipendentemente dal nostro comportamento.

Chi è ebreo è e rimane ebreo.

Il problema invece è il futuro dell'ebraismo nella Diaspora.

Si è ebrei per fattori oggettivi: appartenere al popolo ebraico implica la discendenza, ma anche la storia, il modo di riconoscersi nella tradizione ebraica, il legame con Eretz Israel, l'osservanza delle mitzvot (precetti).

Nella Diaspora, molto più che in Israele, tutto ciò è una condizione necessaria ma non sufficiente per rendere il nostro ebraismo "pieno" e compiuto, a prova di assimilazione dal mondo circostante.

Si tratta del Senso di Appartenenza.

Non si può essere pienamente ebrei senza essere parte integrante di una comunità. Rispetto all'identità ebraica questo è un concetto più pragmatico, legato alle relazioni che abbiamo o meno con gli altri membri della società ebraica circostante.

La partecipazione alla vita comunitaria, come andare in Sinagoga o essere partecipi alle varie attività comunitarie, rappresenta il vero antidoto contro l'assimilazione e la dispersione delle nostre tradizioni.

Partecipando si forma gradualmente un’interazione e un sostegno reciproco tra i membri della comunità, che a loro volta creano un circolo  virtuoso rendendo la comunità più coesa e i valori condivisi molto solidi, fortificando l'identità individuale.

Chi crede che nella Diaspora si possa fare a meno di appartenere, di partecipare alle dinamiche del mondo ebraico della propria comunità è destinato, prima o poi, a perdere anche la propria identità ebraica.

In Israele è tutto più facile: il senso di appartenenza è scontato, direi superfluo, perché si vive in una società circostante a maggioranza ebraica.

In Israele sono le altre minoranze a doversi "difendere", creando un loro legittimo sostegno reciproco.

L'identità ebraica nella Diaspora, soprattutto in un periodo di antisemitismo dilagante in Europa, non può rimanere "intima", solitaria: per resistere c'è bisogno di una massiccia partecipazione collettiva.

La convinzione che si può rimanere ebrei restando isolati e avulsi dalla comunità ebraica è un concetto perdente.

Un comportamento individualista comporta l'estinzione degli ebrei fuori da Israele.

L'identità ebraica ha bisogno di "alimentarsi" dal mondo ebraico che lo circonda per poter sopravvivere.

Chi non ha chiaro questo è destinato a perdere, con un break generazionale, la propria identità ebraica.

Creare un forte e appassionato Senso di Appartenenza è l'unico modo di sopravvivenza in Galut (Diaspora, Esilio).

Voglio concludere con un commosso e affettuoso ricordo di Marika Kaufmann Venezia che ci ha lasciato ieri.

Lei e Shlomo sono stati cari amici dei miei genitori e ho ancora vivo il ricordo passato con loro e con i figli Mario, Alessandro e Alberto.

Marika e Shlomo sono stati un esempio di resilienza e di come si deve creare una famiglia ebraica.

Un esempio per tutti.

Shalom

Tel Aviv, 8 dicembre 2024