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GLI ANGELI
Traduzione dall’inglese a cura di Barbara de Munari
Gli angeli sono esseri soprannaturali ampiamente presenti nella letteratura ebraica.
La parola ebraica per angelo, mal'ach, significa messaggero, e gli angeli nelle prime fonti bibliche trasmettono informazioni specifiche o svolgono una funzione particolare. Nella Torah, un angelo impedisce ad Abramo di uccidere suo figlio Isacco, appare a Mosè nel roveto ardente e dà indicazioni agli Israeliti durante il soggiorno nel deserto dopo la liberazione dall'Egitto. Nei testi biblici successivi, gli angeli sono associati a visioni e profezie e ricevono nomi propri.
Fonti rabbiniche e cabalistiche successive ampliano ulteriormente il concetto di angeli, descrivendo un vasto universo di angeli con nomi e ruoli particolari nel regno spirituale.
Angeli nella Bibbia
Gli angeli compaiono in tutta la Bibbia. Nelle loro prime apparizioni, fungono da portatori di informazioni. Nella Genesi, un angelo appare ad Agar, la serva di Sara, e la informa che partorirà un figlio i cui discendenti saranno numerosi. Un incontro simile avviene più tardi con la stessa Sara, quando tre visitatori le portano la notizia che partorirà l'anno successivo. Quando Abramo si mette in viaggio per sacrificare quel bambino, suo figlio Isacco, è un "angelo di Dio" che grida a lui e gli ordina di non fare del male al ragazzo.
Tra le storie più famose di angeli nella Bibbia c'è l'incontro tra il patriarca Giacobbe e un angelo con cui lotta tutta la notte. Al mattino, quando Giacobbe chiede al suo avversario di identificarsi, l'angelo lo ammonisce di non chiederlo. In seguito, Giacobbe nomina il luogo P'niel, letteralmente "volto di Dio". Nello spiegare questa scelta, la Torah chiarisce che l'avversario che lottava era un emissario di Dio: "Ho visto un essere divino faccia a faccia, eppure la mia vita è stata preservata".
Nei libri dei profeti, gli angeli continuano a svolgere la loro funzione di messaggeri, ma sono anche associati a visioni e profezie. Un resoconto particolarmente dettagliato è registrato nel primo capitolo di Ezechiele. Il profeta incontra quattro creature (chayot in ebraico) che assomigliano a esseri umani, ma ognuna ha quattro facce (umano, leone, bue e aquila), quattro ali e le loro gambe sono fuse in una sola gamba. Una visione parallela è registrata nel 10° capitolo, solo che lì gli angeli sono descritti come cherubini.
Non tutte le figure angeliche nella Bibbia sono identificate come tali. I tre visitatori che andarono da Abramo e Sara sono descritti nel testo come anashim, o uomini, sebbene fonti rabbiniche indichino che fossero angeli. Allo stesso modo, l'angelo che apparve a Giacobbe è descritto semplicemente come ish, o uomo. Quando agli angeli biblici viene chiesto di identificarsi, rifiutano. Nel Libro dei Giudici, Manoah, il padre di Sansone, chiede il nome di un angelo che aveva profetizzato un figlio per la moglie sterile. L'angelo rifiuta, dicendo che il suo nome è sconosciuto. Nel Libro di Daniele per la prima volta nella Bibbia compaiono angeli con un nome: Gabriele e Michele.
Gli angeli nella letteratura rabbinica antica
La letteratura rabbinica espone in modo significativo la natura degli angeli e i loro ruoli nelle storie bibliche. Il Midrash identifica Michele, Gabriele, Uriele e Raffaele come i quattro angeli principali che circondano il trono divino, ognuno dei quali ha attributi particolari. Il Talmud identifica Michele, Gabriele e Raffaele come i tre angeli che visitarono Abramo per annunciargli che sua moglie avrebbe avuto un figlio. Sebbene la Bibbia registri che gli uomini mangiarono un pasto che Abramo aveva preparato per loro, i rabbini stabiliscono che il trio sembrò solo mangiare, poiché, essendo angeli, non sono esseri fisici, ma semplicemente gli assomigliano.
Il Midrash include molte fantasiose rappresentazioni di angeli. Secondo una fonte, Michele è fatto interamente di neve e Gabriele interamente di fuoco, ma nonostante la loro vicinanza non si danneggiano a vicenda, un simbolo del potere di Dio di fare pace nelle sue altezze elevate. Molteplici fonti midrashiche identificano Michele come il difensore celeste di Israele in contrasto con il demone Sama'el. E un altro Midrash descrive un dibattito tra gli angeli sulla creazione di esseri umani. In questo dibattito, l'angelo dell'amore è a favore della creazione di esseri umani, a causa della capacità umana di esprimere amore, ma l'angelo della verità non è d'accordo, temendo che gli esseri umani siano inclini alle falsità. A sostegno della creazione di esseri umani, Dio mostra agli angeli esempi di persone giuste dalla Bibbia, ma l'angelo della terra si ribella e nega all'angelo Gabriele la polvere di cui ha bisogno per la creazione di persone, temendo che gli esseri umani possano causare devastazione sulla terra. Anche l'angelo della Torah si oppone alla creazione umana, sostenendo che le persone non dovrebbero essere create perché soffriranno.
Il Talmud riporta un insegnamento secondo cui due angeli ministranti, uno buono e uno cattivo, accompagnano una persona a casa dalla sinagoga la sera dello Shabbat. Se trovano la casa della persona preparata per lo Shabbat, l'angelo buono dichiara: "Possa essere la Tua volontà che sia così per un altro Shabbat". E l'angelo cattivo risponde contro la sua volontà: "Amen". Se la casa non è preparata, accade il contrario: l'angelo cattivo esprime il desiderio che sia così per un'altra settimana e l'angelo buono risponde "Amen". Shalom Aleichem , un canto liturgico che accoglie gli angeli in casa prima del pasto dello Shabbat, è ispirato da questo insegnamento.
Come nel Midrash, gli angeli nel Talmud occasionalmente discutono con Dio, il che conferisce loro un grado di autonomia che complica la nozione di angeli come semplici messaggeri che realizzano obiettivi divini. I rabbini del Talmud potrebbero essere stati preoccupati che gli angeli sarebbero diventati oggetti di adorazione in sé e per sé, una preoccupazione che alcuni ritengono essere alla base di vari testi talmudici che indicano che le persone giuste possono eguagliare o persino superare la santità degli angeli. Nel Trattato Sanhedrin, il Talmud afferma che le persone giuste sono più grandi degli angeli ministranti.
La gerarchia angelica di Maimonide
Maimonide, studioso del XII secolo, dedica una sezione del suo Mishneh Torah alla natura degli angeli. Sono esseri incorporei, scrive, dotati di forma ma non di sostanza. Le descrizioni degli angeli come alati o fatti di fuoco, dice Maimonide, sono semplicemente visioni profetiche "enigmatiche", ovvero tentativi inevitabilmente inadeguati di descrivere l'informe e lo spirituale entro i confini del linguaggio umano.
Maimonide descrive una gerarchia di angeli a 10 livelli, con diversi tipi come creature sacre (chayot hakodesh ), serpenti volanti e portatori di carri. Tutte queste forme sono vive e conoscono Dio intimamente, scrive Maimonide, ma mentre tutte conoscono Dio più profondamente degli esseri umani, persino il più elevato tra loro, sapendo più di tutti quelli sottostanti, non può conoscere la piena verità di Dio.
Angeli nella Cabala
La tradizione mistica ebraica si dilunga ulteriormente sulla natura degli angeli. Le fonti cabalistiche descrivono gli angeli come forze di energia spirituale. Il rabbino David Cooper, che ha scritto ampiamente su Cabala e meditazione ebraica, ha descritto gli angeli come “fasci di energia metafisica invisibili” che agiscono come magneti, causando cambiamenti fisici per mezzo di forze invisibili all’occhio.
Nella Cabala, gli angeli risiedono nei mondi di beriah (creazione) e yetzirah (formazione), i due mondi centrali dei quattro mondi della Cabala, che rappresentano gli stadi spirituali attraverso i quali l'energia divina viene condotta verso il basso nel mondo materiale. Nella sua opera classica sulla Cabala, The Thirteen Petalled Rose, il rabbino Adin Steinsaltz scrive che il comportamento umano può creare angeli. In una controparte del modo in cui gli angeli biblici portano messaggi dal regno divino verso l'umanità, gli angeli creati dalle azioni umane trasportano le energie dell'umanità verso l'alto nei regni spirituali superiori.
Gli angeli sono singolari e immutabili nelle loro essenze, scrive Steinsaltz, e possono essere buoni o cattivi (demoni), questi ultimi sono il prodotto di esseri umani che fanno l'opposto di una mitzvah, ovvero covano pensieri malvagi o commettono atti di malvagità. Come gli angeli buoni, anche gli angeli malvagi agiscono in un duplice modo, portando il male dal mondo spirituale a quello materiale ispirando il peccato o causando sofferenza e punizione, mentre ricevono anche energia dalle malefatte degli esseri umani. "Certo, se il mondo sradicasse completamente ogni male, allora, come una cosa naturale, gli angeli sovversivi scomparirebbero, poiché esistono come parassiti permanenti che vivono sull'uomo", scrive Steinsaltz.
"Ma finché l'uomo sceglie il male, sostiene e nutre interi mondi e dimore del male, tutti attingendo alla stessa malattia umana dell'anima".
[Fonte MJL]
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IDENTITÀ E APPARTENENZA
di Giuseppe Kalowski, Tel Aviv, 8 dicembre 2024
Pochi giorni fa, in uno dei miei brevi periodi romani, sono andato alla splendida festa per il centenario della fondazione della Scuola Ebraica di Roma. Erano presenti molte autorità pubbliche, tra le quali spiccavano il Sindaco di Roma e il Presidente della Regione Lazio. È stata anche ufficializzata la cessione del Comune di Roma alla Scuola Ebraica dell'edificio di Via S. Ambrogio, attiguo alla sede attuale della scuola; con una gigantesca donazione da parte della Fondazione Lauder, della fondazione Yael e di altri anonimi donatori si potrà ristrutturare il nuovo edificio acquisito. Questi soldi, in un periodo di rinnovato antisemitismo, serviranno anche a garantire il rinnovamento e la crescita culturale di una scuola che già sfiora l'eccellenza.
Il Rabbino Capo Di Segni, nel suo intervento, ha fatto giustamente notare come Ernesto Nathan, sindaco ebreo di Roma, pensò e fece realizzare il Tempio Maggiore di Roma ma si dimenticò della Scuola Ebraica, spina dorsale della continuità culturale e religiosa degli ebrei romani. A questa mancanza sopperì venti anni dopo Vittorio Polacco, già Senatore del Regno d'Italia, per organizzare luoghi di studio per accogliere studenti ai quali trasmettere l'insegnamento della Torà come nozione di vita e di comportamento, e per acquisire il senso di appartenenza nei confronti della Comunità Ebraica.
Nella scuola ebraica si deve imparare a essere ebrei ma anche a vivere una socialità ebraica: quest'ultima è un elemento essenziale, fondamentale per esplicare la propria identità ebraica.
L'inviato della Fondazione Lauder, principale donatrice, con il suo intervento ha avuto parole lusinghiere nei confronti della Scuola e della Comunità Ebraica di Roma, mettendo l'accento che è sì una piccola comunità ma è famosa per la sua capacità di essere una comunità tradizionale e nello stesso tempo aperta alle istanze del mondo circostante. Questo grande riconoscimento è la chiave della tradizione ebraica romana.
Questo intervento ha stimolato in me alcune riflessioni: io, che per buona parte dell'anno vivo in Israele, credo che il grande problema nella Diaspora sia la confusione che noi ebrei troppo spesso facciamo tra "identità ebraica" e " senso di appartenenza". Questa confusione è spesso la causa dirompente dell'assimilazione.
Come ci fa notare Rav Michi Nazrolai in una delle sue lezioni intitolata " Che cosa fa di un ebreo un ebreo?", l'ebreo, secondo la Torà e il Talmud rimane ebreo anche se non rispetta i precetti, anche se li trasgredisce.
Nel Levitico è detto: "Hashem abita tra noi in mezzo alle nostre impurità", cioè il Suo rapporto con noi rimane invariato, indipendentemente dal nostro comportamento.
Chi è ebreo è e rimane ebreo.
Il problema invece è il futuro dell'ebraismo nella Diaspora.
Si è ebrei per fattori oggettivi: appartenere al popolo ebraico implica la discendenza, ma anche la storia, il modo di riconoscersi nella tradizione ebraica, il legame con Eretz Israel, l'osservanza delle mitzvot (precetti).
Nella Diaspora, molto più che in Israele, tutto ciò è una condizione necessaria ma non sufficiente per rendere il nostro ebraismo "pieno" e compiuto, a prova di assimilazione dal mondo circostante.
Si tratta del Senso di Appartenenza.
Non si può essere pienamente ebrei senza essere parte integrante di una comunità. Rispetto all'identità ebraica questo è un concetto più pragmatico, legato alle relazioni che abbiamo o meno con gli altri membri della società ebraica circostante.
La partecipazione alla vita comunitaria, come andare in Sinagoga o essere partecipi alle varie attività comunitarie, rappresenta il vero antidoto contro l'assimilazione e la dispersione delle nostre tradizioni.
Partecipando si forma gradualmente un’interazione e un sostegno reciproco tra i membri della comunità, che a loro volta creano un circolo virtuoso rendendo la comunità più coesa e i valori condivisi molto solidi, fortificando l'identità individuale.
Chi crede che nella Diaspora si possa fare a meno di appartenere, di partecipare alle dinamiche del mondo ebraico della propria comunità è destinato, prima o poi, a perdere anche la propria identità ebraica.
In Israele è tutto più facile: il senso di appartenenza è scontato, direi superfluo, perché si vive in una società circostante a maggioranza ebraica.
In Israele sono le altre minoranze a doversi "difendere", creando un loro legittimo sostegno reciproco.
L'identità ebraica nella Diaspora, soprattutto in un periodo di antisemitismo dilagante in Europa, non può rimanere "intima", solitaria: per resistere c'è bisogno di una massiccia partecipazione collettiva.
La convinzione che si può rimanere ebrei restando isolati e avulsi dalla comunità ebraica è un concetto perdente.
Un comportamento individualista comporta l'estinzione degli ebrei fuori da Israele.
L'identità ebraica ha bisogno di "alimentarsi" dal mondo ebraico che lo circonda per poter sopravvivere.
Chi non ha chiaro questo è destinato a perdere, con un break generazionale, la propria identità ebraica.
Creare un forte e appassionato Senso di Appartenenza è l'unico modo di sopravvivenza in Galut (Diaspora, Esilio).
Voglio concludere con un commosso e affettuoso ricordo di Marika Kaufmann Venezia che ci ha lasciato ieri.
Lei e Shlomo sono stati cari amici dei miei genitori e ho ancora vivo il ricordo passato con loro e con i figli Mario, Alessandro e Alberto.
Marika e Shlomo sono stati un esempio di resilienza e di come si deve creare una famiglia ebraica.
Un esempio per tutti.
Shalom
Tel Aviv, 8 dicembre 2024
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A GERUSALEMME È NATA UNA BAMBINA…
di Giuseppe Kalowski, Roma, 21 novembre 2024
Durante la festività di Sukkot trascorsa da poco, sono stato invitato da mio nipote David e da Tami nella splendida casa dei genitori di Tami a Bayit VeGan (Casa e Giardino) a Gerusalemme, per festeggiare la nascita del loro terzo figlio, una splendida bimba di nome Esther.
Bayit VeGan è un elegante quartiere religioso a Gerusalemme, situato accanto al Monte Herzl. Il quartiere domina la città dall'alto offrendo un panorama unico.
David e Tami sono una coppia di ebrei religiosi Haredim italiani che si sono trasferiti e sposati in Israele. Si sono integrati rapidamente nella nuova realtà israeliana e conducono una vita felice con due bambini maschi e la terza, femmina, appena arrivata.
La loro Aliyah (Ascesa in Israele) ha prodotto un "effetto volano" sui genitori di Tami, hanno rotto gli indugi e si sono trasferiti anche loro in Israele.
Tra i tanti ospiti presenti al festeggiamento, un Rabbino ci ha spiegato l'importanza di avere figli in un momento così drammatico per Israele ; la sua lezione ha suscitato in me una serie di riflessioni.
Concepire e festeggiare la nascita di un figlio in tempo di guerra, in un conflitto che il mondo stenta a comprendere, strumentalmente, rappresenta un’immagine di speranza.
Nascere a Gerusalemme ha un significato spirituale significativo: la continuità, la speranza di tempi migliori.
Nascere durante la guerra diventa un simbolo, un inno alla pace, una volontà di resistere.
La bambina di David e Tami rappresenta per tutti noi la vita che continua anche nel buio più profondo del conflitto.
L'apparente fragilità di una bambina appena nata rappresenta la vita contro la morte e ci ricorda che la vita continua anche nei momenti più bui.
Sì. Tempi sempre più bui per noi ebrei: sono quelli che quotidianamente dobbiamo affrontare e fronteggiare in Europa e non solo.
È ormai opinione comune, anche del Papa purtroppo, che a Gaza si stia compiendo un genocidio nei confronti del popolo palestinese per opera dell'esercito israeliano e che in Libano stia accadendo qualcosa di simile nei confronti della popolazione locale.
Per troppe persone il 7 ottobre 2023 è passato nel dimenticatoio o, peggio, è considerato il momento più alto della resistenza palestinese contro l'usurpatore sionista.
Ormai sembra di essere arrivati a un punto di svolta, forse di non ritorno, se in paesi come la Francia moltissimi ebrei scappano per trasferirsi in Israele nonostante il martellamento di razzi che lo stato ebraico subisce quotidianamente dagli Hezbollah dal Libano, dall’Irak, dallo Yemen e dalla Siria.
Paradossalmente noi ebrei abbiamo la netta sensazione di sentirci molto più al sicuro in Israele perché lì il nemico è delineato, configurato.
Il mondo occidentale, o almeno una parte considerevole, ha fatto solo finta di averci difeso per alcuni decenni. Non riusciamo più a identificare in modo chiaro e intellegibile chi sta ancora dalla nostra parte e chi invece ci ha abbandonato.
L’antisemitismo di stampo musulmano all'interno delle nazioni europee si è mescolato con quello moderno europeo, rendendo il fenomeno subdolo, infido e penetrante nella società.
Uno degli ultimi episodi più odiosi è accaduto ad Amsterdam pochi giorni fa in occasione della partita di calcio Ayax Maccabi TA: una vera e propria caccia all'ebreo premeditata si è svolta nel centro della città olandese da parte di centinaia di cittadini olandesi musulmani e non, che non ha causato morti solo per puro miracolo.
Anche in questo caso c'è chi ha tentato di addossare la colpa ai tifosi israeliani che prima della partita avevano cantato cori contro la Palestina e tirato giù una bandiera palestinese da una finestra di un condominio.
Per molti si è trattato di una legittima difesa da parte dei cittadini musulmani contro la provocazione sionista: ormai siamo al delirio e all’aberrazione molto simile all’ideologia nazista.
L'ultimo episodio, passato in sordina, è stato l'irresponsabile tentativo di Joseph Borrell, responsabile uscente della politica estera dell’Unione Europea, di fare votare una mozione in cui i paesi europei si sarebbero dovuti impegnare a congelare le relazioni con Israele fino alla cessazione delle ostilità, per le presunte violazioni dei diritti umani da parte dello stato ebraico... E gli ostaggi ancora in cattività a Gaza?? Neanche una sillaba!
Purtroppo non è la prima volta che Borrell assume palesemente iniziative contro Israele ma stavolta è andato oltre il comune senso del pudore.
Fortunatamente questa proposta non è stata presa neanche in considerazione da parte della maggioranza degli Stati membri dell’Unione Europea, Italia compresa.
E oggi arriva l'incredibile notizia dell'ennesima infamia nei confronti di Israele e di tutti gli ebrei, anche per chi non condivide la politica di Netanyahu : la Corte Penale Internazionale dell' Aia ha emesso un mandato di arresto per Bibi Netanyahu e Gallant. In sostanza la Corte ha accettato la richiesta del giudice Karim Kahn, attualmente indagato per abusi sessuali.
Questo è il livello al quale siamo ormai ridotti.
Ma l'ingiustizia che si è compiuta avrà l'effetto di compattare ancora di più la società israeliana.
La mia convinzione è che il popolo ebraico nella Diaspora abbia concluso il proprio ciclo in Europa : adesso più che mai ha bisogno dello Stato d'Israele e, viceversa, Israele ha bisogno che gli ebrei si convincano a costruirsi una nuova vita nella Terra Promessa, senza indugi.
È una questione di sopravvivenza.
AM ISRAEL HAI
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IL PENSIERO COME MEZZO PER ALLONTANARSI
DALL'ORRORE ESTREMO
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari
Dicembre 2024
Il pensiero critico è uno strumento di resistenza alla disumanità, spiega il filosofo Ezequiel Burstein, che cerca di pensare l'impensabile dopo il 7 ottobre. In questa rubrica pubblicata inizialmente in Argentina, analizza i limiti del linguaggio e della rappresentazione di fronte al male radicale, non senza criticare silenzi o giustificazioni ideologiche.
Che cosa succede quando l'esperienza ci allontana dalle nostre certezze più basilari e supera la nostra capacità di concettualizzare la realtà? Dopotutto, concettualizzare è in un certo senso chiamare le cose con il loro nome: istituzione del simbolico dal caos del fenomenico, per comprendere e apprendere il mondo che ci circonda. Ma cosa succede quando ci imbattiamo in un limite radicale che, come un colpo – sordo ma certo – ci viene imposto dall’esterno e ci priva di ogni capacità di dare un nome alla realtà? Che cosa dovremmo fare con il materiale della nostra percezione, se non possiamo elaborarlo intellettualmente? Questa sensazione paralizzante di non riuscire nemmeno a dare un nome a ciò che vediamo è ciò che in teoria è noto come il problema dei limiti della rappresentazione, in particolare negli studi sull'Olocausto e su altre esperienze del male radicale del recente passato.
Proprio il non saper gestire linguisticamente l'esperienza di ciò che percepiamo ci mette in una situazione di ansia di fronte a quello che, fino allora, costituiva il nostro strumento simbolico fondamentale: il linguaggio. Sperimentare il limite della nostra capacità espressiva di fronte a ciò che non riusciamo a collocare in una catena simbolica del conosciuto non è un fenomeno quotidiano, è dell'ordine dell'inaspettato, è destabilizzante. Ci fa perdere l’orientamento e, per questo, ci mette ansia. Non capire è angosciante; non capire è frustrante: una possibile spiegazione per le sensazioni che molti di noi provano dal 7 ottobre.
Non capiamo come una persona possa deliberatamente tagliare la gola e bruciare vivi bambini e neonati; non capiamo come una persona possa prestarsi all'omicidio dei genitori davanti ai figli, dei nonni davanti ai nipoti; come si possa violentare le adolescenti e poi esibirle davanti alle masse che filmano e festeggiano, traboccanti di sadismo e oscenità. Non capiamo. Tutti questi atti barbarici, compiuti con l'esplicita intenzione di essere trasmessi e riprodotti quante più volte possibile. Nessuna maschera, nessun occultamento. Nessun respingimento. Viralizzazione deliberata, diffusione contagiosa del male peggiore, propagazione all'infinito.
L'idea che necessariamente s’impone in primo luogo, è quella della follia, del delirio: per realizzare queste azioni, sembra che sia necessario un radicale lasciarsi andare. Il termine “delirio” trova la sua etimologia in campagna: designa uno spostamento rispetto alla “lira”, il solco in cui viene seminato quello che poi diventerà il raccolto; un atteggiamento irrazionale, poiché implica una perdita inutile nel guadagno futuro. Delirio, dunque: irrazionalità totale come modo di una spiegazione dei fatti che, a prima vista, non ravvediamo.
Non capiamo nemmeno come persone apparentemente pensanti, favorevoli alla difesa dei diritti umani, sedicenti progressiste (in riferimento, ovviamente, al progresso dell’umanità), abbiano preso e continuino a sostenere la vergognosa decisione etico-politica di non denunciare pubblicamente gli avvenimenti del 7 ottobre. In considerazione delle molteplici espressioni di personalità politiche, culturali e intellettuali legate all'ambito della “sinistra”, il rapporto, sempre complesso e delicato, tra antisionismo (posizione critica o spesso direttamente ostile nei confronti dello Stato di Israele) e antisemitismo (odio o pregiudizio contro gli ebrei) subisce una metamorfosi chiarissima. La totale assenza di condanna rivela graficamente il travestimento cinico della correttezza politica; è chiaro che coloro che sono incapaci di denunciare l'atrocità di questi crimini senza ricorrere a giustificazioni storiche e geopolitiche non sono altro che un'ulteriore espressione dell'antisemitismo come patologia sociale, endemìa storica dell'umanità. La particolarità, mi sembra, sta nel fatto che questo antisemitismo è accompagnato dall’epurazione ideologica delle teorie postcolonialiste che gli permettono di esistere senza destare il minimo sospetto.
La scelta personale e collettiva di dare priorità al sostegno di una leadership politica manifestamente criminale, terrorista, fondamentalista e intollerante conferma la logica dei doppi standard che attribuisce più importanza alle alleanze politiche che alla capacità umana più elementare, quella del giudizio razionale che consente la possibilità di empatia umana su qualsiasi strategia orientata dall’interesse. Il potere del desiderio, il potere dell'immaginazione: la fede in un'idea rassicurante mette in moto l'industria dell'immaginazione interna, funzionando come fondamento della pace interiore dell'individuo. Il Prozac morale quotidiano, l'analgesico ideale per la coscienza del soggetto benpensante.
Di fronte alle posizioni non condannanti che continuiamo a osservare, non posso che pensare che il desiderio abbia finito per prendere le redini della percezione, oscurando il discernimento e provocando la perdita di ogni forma di capacità critica. Il desiderio di credere come motore della più potente facoltà creativa dell'essere umano: la capacità immaginativa. “L’immaginazione crea, oggettiva in immagini, incarna. L’intelletto fa un pisolino sul morbido cuscino dell’immaginazione”, dice ingegnosamente il filosofo Ludwig Feuerbach. O questo è vero, oppure si tratta di posizioni permeate da un profondo e, ormai, esplicito antisemitismo. Non vedo davvero alcuna alternativa.
Cerchiamo di essere chiari: la situazione a Gaza è estremamente grave e ogni morte civile deve essere condannata. Non c’è spazio per ambiguità su questo punto. Le notizie di tutti i giorni sono disastrose e ci distruggono, di là dall’odio antisemita che infiammano. Ma c’è una differenza fondamentale: s’inseriscono nel contesto (deplorevole, certo) di una guerra concretamente provocata da un’aggressione non solo terribile ed esplicita, ma soprattutto molto puntuale; una guerra per la quale purtroppo non è prevista alcuna soluzione a breve termine, e che evidenzia ancora una volta l’urgente necessità di una soluzione politica tra Israele e Palestina che implica necessariamente l’esistenza di due Stati confinanti come la più importante garanzia per una pace duratura.
Questa situazione solleva, ancora una volta, la questione della natura della violenza e del suo intrinseco e iperbolico potere distruttivo; non vediamo immediatamente come la violenza non possa generare altra violenza. La necessità del rilascio e della restituzione degli ostaggi è importante quanto un cessate il fuoco che protegga la popolazione civile palestinese. Ma anche in questo caso improbabile, cosa fare con Hamas? Come puoi vivere nello stesso edificio con un vicino il cui primo scambio con gli altri comproprietari è dichiarare apertamente che vuole ucciderti e gettarti dal balcone in strada? Quale futuro di coesistenza pacifica può esistere con Hamas? Domande fondamentali che tutti noi che abbiamo un legame con Israele ci poniamo oggi.
Oggi ho fatto l'esercizio di rivedere alcuni video e foto del 7/10, disponibili su https://www.hamas-massacre.net/, uno dei siti che si è preso la briga di raccogliere tutto il materiale audiovisivo disponibile dell'attacco. Inutile dire che il contenuto è pesante; alcune parti sono molto difficili da guardare. Questo è quello che mi è successo.
La prima reazione alle immagini è dire di no: espressione verbale del rifiuto più elementare di ciò che la psiche sa che deve essere una barriera. Dire no: negazione della veridicità dei fatti, della condizione stessa di possibilità che siano quello che sono.
Un video di almeno dieci corpi senza vita e insanguinati ammucchiati uno sopra l'altro sul pavimento del festival Nova. NO. L'immagine di una coppia bruciata viva in un'auto; espressioni di orrore immortalate sui loro volti carbonizzati. NO. Un bambino bruciato vivo, irriconoscibile. No, no, no.
Il desiderio di negare ciò che vedo avviene in modo irrefrenabile; mi rendo conto che ne ho bisogno: è la mia unica risorsa per sopportare le immagini. La voce come enunciatore fonetico della negazione si rivela così un meccanismo psicologico di adattamento di fronte all'orrore.
La seconda reazione, ancora più fisica: voglia viscerale di vomitare, nausea. Rifiutare attraverso il tratto digestivo ciò che il corpo riceve sensorialmente attraverso gli occhi. Controdigestione etica come rifiuto ontologico: non posso consumarlo; quindi questo non può essere. Se l'essere umano è ciò che mangia, non può che fare di questa ingestione d’immagini una vera dieta di intossicazione per qualsiasi corpo che voglia vivere.
Che cosa fare con tante immagini, tanti stimoli che circolano sui social network e nei media? La deriva informatica imposta con la forza da algoritmi ritagliati su misura sulla singolarità di ciascun utente-consumatore. La sovrarappresentazione del male radicale contrasta con la mancanza di risorse intellettuali per comprenderlo.
Uno dei problemi cruciali qui è che così tante rappresentazioni stordiscono, assordano e rendono opaco ciò che cercano di chiarire. L'immagine nella sua riproduzione totale non fa altro che ostacolare il pensiero, perché segue la logica del non-stop: l'alimentazione non si ferma mai, ha sempre qualcosa di nuovo da nutrirci.
Il contenuto sembrerebbe sempre inesauribile, con un volume inversamente proporzionale alla capacità di attenzione del soggetto. “Nessuno può pensare se non si ferma”, ha detto Hannah Arendt in un’intervista. Una verità perenne.
Al posto della riflessione e della moderazione, la dinamica della riproduzione iterativa che tende all’infinito impone la necessità fittizia del bipolarismo: o siamo da una parte – il bene, la coscienza pulita – o siamo dall’altra – il male, la colpa. Ma questo posizionamento sconsiderato non può esistere senza la sua necessaria pubblicità, una condizione sine qua non di possibilità. Sembrerebbe che, secondo questa logica manichea e pericolosa, non si possa prendere alcuna posizione senza rispettarne allo stesso tempo il carattere eminentemente pubblico: bisogna scegliere da che parte stare, e non appena la si sceglie, bisogna comunicarla. Se non lo pubblico, non esiste; pubblico, quindi esisto come soggetto morale. Cartesianesimo woke del 21° secolo.
Questa dinamica di immediatezza risulta nell'impossibilità di qualsiasi posizione sfumata; la natura brutalmente effimera dei social network richiede una presa di posizione immediata. Di fronte al processo discorsivo del pensiero, che funge da mediazione linguistica tra sentimento e azione, l'opinione è immediata; non può essere altrimenti, lo esige la sua natura profondamente dicotomica. Il che ha l’ulteriore grave corollario di imporre il condizionale “se non sei con noi, sei con gli altri”. La disciplina morale come cancellazione di ogni dissenso, morte del pensiero critico e di ogni possibilità di dialogo.
Tuttavia, di fronte alla frustrazione dell’aporìa, è opportuno ricordare una frase che mi accompagna fin dall’adolescenza: “Con l’antisemitismo non discutiamo, lo combattiamo”. Perché questa frase? Perché è una frase che, nella sua semplicità, ci permette di cambiare atteggiamento nei confronti di ciò che ci è dato. All’improvviso il pensiero non è più semplice pensiero: diventa strumento di combattimento, arma contro la disperazione collettiva, possibilità di incontro. Insomma, pensare come prospettiva per il futuro, come apertura all'ignoto, all'altro. L'iniziale impossibilità di nominare si è trasformata nella possibilità di pensare. E di fronte all’impotenza generata dal delirio collettivo che sembra impadronirsi del mondo, un’ultima frase della Arendt da tenere a portata di mano: “È meglio essere in disunione con il resto del mondo che con se stessi, perché io sono un'unità. Altrimenti c’è un conflitto interno che diviene insopportabile”.
Testo inizialmente pubblicato sul quotidiano La Nación (Argentina), supplemento “Idee”, 30 dicembre 2023.
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LA FINE DELL’ERA POST-OLOCAUSTO
Il 7 ottobre ha infranto la fede degli israeliani che lo Stato li avrebbe protetti e ha scosso il senso di piena accettazione sociale dell'ebraismo americano, ma c'è una via d'uscita.
di Yossi Klein Halevi in The Times of Israel
Traduzione dall’inglese a cura di Barbara de Munari
Già un anno? Solo un anno?
Dal 7 ottobre 2023, molti di noi si sono sentiti alla deriva nel tempo. Raramente ricordo la data; a volte dimentico il mese.
Il disorientamento è la risposta specifica alla fine dell'era post-Olocausto, un momento fondamentale in cui molti dei nostri più cari presupposti sono stati capovolti.
L'era post-Olocausto degli ultimi otto decenni è stata definita dall'ottimismo sul futuro ebraico. Per quanto improbabile, eravamo emersi, più forti che mai, dall'evento destinato a distruggerci. Nonostante tutte le sue fluttuazioni, la traiettoria post-Olocausto puntava in avanti.
Durante duemila anni di esilio, il popolo ebraico fu sostenuto da due sogni. Il primo, considerato così fantastico da essere relegato ai tempi messianici, era che un popolo disperso e impotente avrebbe in qualche modo reclamato la sua antica patria. Il secondo era che, nel lungo intervallo prima della venuta del Messia, gli ebrei avrebbero trovato un rifugio accogliente nella diaspora.
Dopo l'Olocausto, entrambi i sogni si sono realizzati. Sono emersi due grandi centri della vita ebraica: un Israele sovrano e un ebraismo nordamericano sicuro di sé, la diaspora di maggior successo della storia. Insieme, Israele e il Nord America contengono quasi il 90 percento degli ebrei del mondo. Questi due centri hanno presieduto al rinnovamento post-Olocausto del popolo ebraico, che è passato dal suo nadir storico all'apice del suo potere militare, economico e politico.
Niente di simile era mai accaduto agli ebrei, o forse a nessun altro popolo. La transizione dalla crisi al potere fu così rapida e decisiva che alcuni ebrei conclusero che questa doveva essere l'era messianica.
Ogni comunità ha reagito alle sue circostanze particolari con la saggezza dell'adattabilità ebraica. Per gli israeliani, ciò significava deterrenza militare in una regione che cercava di distruggerli. Per gli ebrei della diaspora, e specialmente in Nord America, ciò significava rispondere con "soft power" - lobbying, filantropia e costruzione di alleanze con altre minoranze - in società che li abbracciavano.
Cosa ha perso Israele il 7 ottobre
Per gli israeliani, l'era post-Olocausto era definita dalla fiducia nella nostra capacità di difenderci, indipendentemente dalle circostanze. Tale fiducia si basava sulla nostra capacità di proiettare una deterrenza militare credibile contro nemici genocidi, ciò che il leader sionista Ze'ev Jabotinsky chiamava "il muro di ferro".
Il 7 ottobre, il muro di ferro è stato violato. Il colpo più devastante della nostra storia è stato sferrato dal nostro nemico più debole; il nostro confine ad alta tecnologia e all'avanguardia è stato invaso da terroristi su trattori.
Il 7 ottobre è stato un microcosmo che poteva anticipare la distruzione di Israele: le IDF allo sbando, il governo disperso, i civili abbandonati a se stessi, armati di pistole.
I recenti, sorprendenti successi di Israele contro Hezbollah hanno contribuito a rinnovare in parte la nostra autostima. Il morale tra i nostri soldati è presumibilmente più alto che in qualsiasi altro momento dalla guerra dello Yom Kippur. Questo potrebbe essere l'elemento più significativo nel ripristino della nostra deterrenza a lungo termine, una deterrenza interna israeliana contro la disperazione.
Tuttavia, la guerra per il ripristino della nostra deterrenza è appena iniziata. Il massiccio attacco balistico dell'Iran la scorsa settimana dimostra che i nostri nemici sono difficilmente scoraggiabili. Decine di migliaia di missili e razzi sono puntati verso le città israeliane da più direzioni. Se l'Iran e i suoi delegati scatenassero il loro arsenale completo, il sistema antimissile Iron Dome verrebbe sopraffatto.
Il 7 ottobre ha messo alla prova la nostra fede nella promessa sionista di porre fine alla condizione di senzatetto degli ebrei. Per la prima volta nella storia di Israele, è stata creata una "zona di sicurezza" - svuotata dei civili nel nord - dalla nostra parte del confine. L'incapacità dello Stato di garantire che gli israeliani possano vivere nelle loro case mina la credibilità della nostra patria nazionale. Annullare questa percezione disastrosa è anche un obiettivo strategico di questa guerra.
Il ritorno dell'Olocausto
L'ultima guerra esistenziale combattuta da Israele fu quella dello Yom Kippur del 1973. Le nostre guerre successive, a partire dal Libano del 1982, furono asimmetriche, nessuna delle quali mise a repentaglio la sopravvivenza di Israele. Di conseguenza, gli israeliani giunsero ad accettare la permanenza dello Stato ebraico come un dato di fatto. Un'indicazione significativa di tale autostima fu il graduale svanire dell'Olocausto dal nostro discorso politico.
Sebbene il Primo Ministro Benjamin Netanyahu abbia ripetutamente invocato l'Olocausto nei suoi avvertimenti su un Iran nucleare, la maggior parte degli israeliani tendeva a evitare quella retorica. Nel suo discorso del 2017 sul Giorno della Memoria dell'Olocausto, l'ex presidente e membro del Likud Ruby Rivlin ha implicitamente sfidato Netanyahu, mettendo in guardia dal paragonare l'Olocausto alle minacce contemporanee.
Ma il 7 ottobre Israele è diventato il posto più pericoloso al mondo in cui essere ebrei. E ora l'Olocausto è tornato. Gli israeliani descrivono il 7 ottobre come il più grande massacro di ebrei dall'Olocausto, anche se una descrizione più appropriata sarebbe: il più alto numero di israeliani (compresi i cittadini arabi) uccisi in un giorno qualsiasi in un secolo di conflitto arabo-israeliano. Non meno delle atrocità di Hamas, l'impotenza delle vittime ci tormenta con le immagini dell'Olocausto. Invocando l'Olocausto, gli israeliani stanno dicendo: non siamo riusciti a sconfiggere il passato ebraico.
Un altro segno del nuovo stato d'animo è la ripetizione costante dello slogan, Am Yisrael Chai , il popolo di Israele vive. Questa espressione era popolare tra gli ebrei della diaspora che avevano bisogno di rassicurazioni dopo l'Olocausto sul fatto che il popolo ebraico fosse effettivamente sopravvissuto. Gli israeliani non hanno mai adottato lo slogan, il che ha rivelato un'ansia che pensavamo di aver superato. Ovviamente il popolo di Israele vive: questo era il punto di uno stato ebraico. Ora, però, lo slogan appare sui cartelloni pubblicitari delle autostrade, nelle pubblicità sui giornali e nelle canzoni popolari. Improvvisamente, la sfida dimostrativa sembra molto israeliana.
L'anti-Entebbe
Infine, il 7 ottobre ha infranto l'idea che lo Stato ci avrebbe protetti e che gli israeliani si sarebbero protetti a vicenda.
La nostra incapacità di liberare gli ostaggi tenuti in spazi soffocanti a Gaza è una provocazione costante, che ci ricorda il fallimento del 7 ottobre. Nel 1976, l'IDF salvò un centinaio di ostaggi israeliani il cui aereo era stato dirottato all'aeroporto di Entebbe in Uganda. Il salvataggio di Entebbe divenne il simbolo dell'era post-Olocausto della resilienza ebraica. (Il fatto che gli ostaggi fossero tenuti da terroristi tedeschi di estrema sinistra rese il simbolismo di Entebbe ancora più potente).
Ora, però, l'IDF, che sta operando a distanza di lancio di un grido dai nostri ostaggi, è riuscita a liberare solo otto delle decine che si stima siano ancora vive. Questo è il momento anti-Entebbe di Israele.
Parlando a una manifestazione per gli ostaggi, Meirav Cohen, un membro dell'opposizione della Knesset, ha detto: "Lo stato di Israele è stato fondato affinché non ci fosse un altro Olocausto. Quando i cittadini israeliani vengono tenuti nei tunnel, affamati e maltrattati e poi giustiziati dai nazisti, questo governo ha fallito totalmente".
Non stava parlando di un fallimento operativo nel salvare gli ostaggi, ma di un fallimento della volontà politica. Secondo i suoi stessi negoziatori degli ostaggi, Netanyahu ha ripetutamente sabotato un accordo, temendo che i suoi partner di estrema destra avrebbero fatto crollare la coalizione.
Certamente si può sostenere che si debba dare priorità alla vittoria rispetto a un accordo sugli ostaggi. Ma Netanyahu e la maggior parte dei suoi ministri hanno rivelato una sorprendente mancanza di empatia per gli ostaggi e le loro famiglie. I media pro-Netanyahu hanno trattato i familiari disperati che protestavano contro la politica del governo come nemici virtuali dello stato; i sostenitori di Netanyahu li hanno aggrediti fisicamente per strada.
Anche se sembra che Hamas non sia più interessata a un accordo, il sacro rapporto di fiducia tra israeliani e Stato è stato infranto.
L'ethos che definisce l'era post-Olocausto era la protezione reciproca: quando gli ebrei erano in crisi ovunque, i loro connazionali ebrei ovunque facevano il possibile per aiutare. La grande espressione di quell'impegno fu il movimento internazionale di 25 anni per liberare gli ebrei sovietici.
L'idea che il primo ministro dello Stato ebraico anteponga le sue esigenze politiche alla vita dei prigionieri ebrei ha sconvolto la credibilità di tale ethos.
Il ritorno dell'accettazione condizionata
Per la diaspora, la promessa dell'era post-Olocausto era che l'umanità, umiliata fino alla contrizione, sarebbe stata finalmente guarita dalla sua ossessione ebraica. Gli ebrei non sarebbero più stati trasformati in un simbolo di ciò che una data civiltà considerava il male supremo: assassini di Cristo per il cristianesimo, capitalisti avidi di denaro per il marxismo, inquinatori razziali per il nazismo.
Di certo, gran parte del mondo non ha mai aderito al programma di penitenza. Il mondo arabo ha cercato di distruggere il neonato stato ebraico appena tre anni dopo l'Olocausto e poi ha distrutto le sue antiche comunità ebraiche. L'Unione Sovietica ha promosso un'aggressiva campagna antisemita appena camuffata da "antisionismo". E nell'Europa occidentale, gli ebrei sono stati violentemente presi di mira dagli islamisti radicali.
Ma nel Nord America la promessa di sicurezza per gli ebrei prese piede.
Negli ultimi anni, ci sono stati segnali di avvertimento che l'atmosfera stava cambiando. L'omicidio del 2018 di 11 fedeli nella sinagoga Tree of Life di Pittsburgh è stato il peggior massacro nella storia ebraica americana. Le sinagoghe sono diventate gli unici luoghi di culto che richiedevano sicurezza 24 ore su 24. E l'antisionismo, l'ideologia che definisce l'esistenza di uno stato ebraico come un crimine, ha penetrato i dipartimenti di scienze umane in tutto il mondo accademico.
Tuttavia, nulla aveva preparato gli ebrei statunitensi e canadesi al cambiamento successivo al 7 ottobre: di fatto, l'europeizzazione della vita ebraica nordamericana.
Nei recenti viaggi attraverso le comunità ebraiche nordamericane, ho incontrato un livello di paura che non avevo mai sperimentato prima. Alcuni si chiedevano se ci fosse un futuro nella diaspora per la vita ebraica. Alcuni hanno persino evocato la Germania degli anni '20. "Ora so da cosa cercavano di mettermi in guardia i miei nonni", mi ha detto un amico. Sospetto che gli ebrei nordamericani che paragonano la loro situazione all'Europa pre-Olocausto sappiano che l'analogia è assurda, ma attingere alla nostra esperienza più oscura è un modo per segnalare lo shock della loro nuova realtà.
Parlando al pubblico ebraico nordamericano, ho notato che, mentre Israele era diventato il paese più pericoloso per gli ebrei fisicamente, era anche diventato il paese più sicuro per gli ebrei psicologicamente: l'unico posto in cui potevi essere certo che i tuoi vicini condividessero il tuo orrore del 7 ottobre. Nessuno ha contestato questa valutazione.
Questa è la prima volta che israeliani ed ebrei nordamericani sperimentano un senso di vulnerabilità condiviso. In passato, quando Israele era in guerra, la diaspora si è schierata a suo sostegno. Ora, molti ebrei della diaspora sembrano preoccuparsi tanto del loro futuro quanto del nostro.
Le statistiche che tracciano l'aumento degli attacchi antisemiti in tutto il mondo dal 7 ottobre raccontano solo una parte della storia. Il trauma più profondo per gli ebrei della diaspora è psicologico: la sensazione che la loro accettazione nella società, dalle università al sistema politico alle strade, si stia erodendo.
Il grande risultato post-Olocausto degli ebrei nordamericani fu la graduale fine della loro accettazione condizionata. Fino ad allora, gli ebrei avevano capito che il progresso sociale dipendeva dall'attenuare la propria ebraicità. Molti ebrei accettarono il compromesso, persino cambiando i loro cognomi.
Entro gli anni '70, la discriminazione anti-ebraica – dalle quote universitarie ai quartieri "limitati" e agli studi legali – era in gran parte finita. Per la prima volta nella diaspora, gli ebrei si sentivano pienamente accettati.
L'integrazione dell'antisionismo nelle università e in altri spazi progressisti ha ripristinato l'era dell'accettazione condizionata. Gli antisionisti insistono su un difetto fondamentale nell'identità ebraica che deve essere corretto come prezzo di ammissione all'equivalente progressista della "società educata". Vi accetteremo tra noi, dicono gli antisionisti ai giovani ebrei nel campus, e potrete persino tenere preghiere dello Shabbat e seder di Pesach nei nostri accampamenti di tende, a una condizione: che espungiate Israele dalla vostra identità, un impegno che lega la stragrande maggioranza degli ebrei del mondo.
Ai fini pratici, il dibattito se l'antisionismo sia una forma di antisemitismo è irrilevante. L'antisionismo è una minaccia per il benessere ebraico, ironicamente, molto di più nella diaspora che in Israele, dove siamo ampiamente immuni al suo impatto. Una conseguenza immediata dell'umore antisionista è quella di instillare negli ebrei un profondo senso di insicurezza. Dal 7 ottobre, secondo un sondaggio, oltre un terzo degli studenti ebrei nei campus americani si sente spinto a nascondere la propria ebraicità.
La scorsa primavera ho incontrato studenti ebrei alla Northwestern University vicino a Chicago. Ho frequentato la Northwestern negli anni '70, poco dopo che le quote anti-ebraiche erano state rimosse. La mia esperienza come studente lì è stata esaltante: crescendo in una famiglia di sopravvissuti all'Olocausto, dove il mondo non ebraico era visto come intrinsecamente ostile, ho scoperto un livello di accettazione che i miei genitori non avrebbero potuto immaginare.
La realtà ebraica che ho incontrato alla Northwestern nel 2024 era l'opposto della mia. Gli studenti ebrei che si rifiutano di rinnegare Israele tendono a sperimentare l'esclusione sociale e a socializzare principalmente tra loro.
L'esperienza degli studenti ebrei che ho incontrato in giro per il paese varia da campus a campus. Tuttavia, la maggior parte di coloro con cui ho parlato concorda sul fatto che l'antisionismo sta avvelenando una generazione. Come ha detto uno studente: ciò che fa più male sono i commenti pieni di odio di studenti che non sono particolarmente politicizzati ma hanno assorbito l'atmosfera antisionista.
L'integrazione del "supersessionismo politico"
La campagna antisionista che ha preso piede a partire dal 7 ottobre è una guerra contro la storia ebraica del XX secolo, fatta di distruzione e rinnovamento.
Per quanto inconsciamente, quella guerra attinge a vecchie forme di guerra contro gli ebrei. La prima è il "supersessionismo", la dottrina cristiana pre-Olocausto che sostiene che la Chiesa ha sostituito gli ebrei come legittimi eredi dell'identità di "Israele". Secondo quella dottrina, gli ebrei avevano perso il diritto alla propria storia. La Bibbia ebraica non apparteneva agli ebrei, ma ai cristiani.
L'equivalente politico del supersessionismo è negare agli ebrei il diritto alla loro terra, un diritto superato dalla rivendicazione palestinese.
La guerra ideologica contro Israele attinge a una vecchia ossessione cristiana per il "peccato" ebraico. Trasformare Israele nel criminale tra le nazioni richiede di ingigantire i crimini di Israele - veri, esagerati o del tutto inventati - ignorando quelli dei suoi nemici. Richiede la cancellazione dell'umanità degli israeliani - come strappare i manifesti degli ostaggi di Gaza o oscurare i loro volti, una vera e propria deturpazione.
Trasformare la guerra di Israele contro Hamas in genocidio dipende dalla cancellazione delle condizioni in cui combatte l'IDF, contro terroristi senza uniformi che operano all'interno di una popolazione civile, in centinaia di chilometri di tunnel e in migliaia di appartamenti con trappole esplosive. Cancellare la narrazione israeliana della guerra si estende al modo in cui la maggior parte dei media cita i tassi di vittime di Gaza, senza notare quanti dei morti siano combattenti di Hamas. (Delle stime attuali di Hamas di 41.000 morti, l'IDF afferma che circa 18.000 sono terroristi, un rapporto combattenti-civili ben al di sotto della norma di altri conflitti asimmetrici di questo secolo e in circostanze molto più difficili di quelle affrontate da altri eserciti).
Gli antisionisti applicano questo schema di cancellazione all'intera storia del ritorno a casa degli ebrei. Trasformare il sionismo nell'espressione del colonialismo europeo della nostra generazione richiede la cancellazione del legame ebraico di 4000 anni con la loro terra. Ridurre la storia della fondazione di Israele alla pulizia etnica dei palestinesi richiede di minimizzare la guerra di distruzione dichiarata dai leader arabi contro il neonato stato ebraico e l'espulsione postbellica di quasi un milione di ebrei dalle loro antiche comunità nel mondo arabo. Trasformare Israele nell'occupante e nell'aggressore richiede di omettere la storia delle offerte di pace israeliane e del rifiuto palestinese.
La fonte più profonda di animus anti-israeliano è la simbolizzazione dell'ebreo come incarnazione del male. L'ebreo satanico è stato sostituito dallo stato ebraico satanico. Nelle dimostrazioni, le caricature di Netanyahu lo ritraggono con le zanne, il sangue che gli gocciola dalla bocca.
La fine dell'era post-Olocausto è espressa in modo più netto nell'inversione dell'Olocausto. Non solo la memoria dell'Olocausto non è riuscita a proteggere gli ebrei; è diventata un'ispirazione e una giustificazione per l'ultima iterazione dell'odio per gli ebrei. In questi giorni, quando una sinagoga viene deturpata con svastiche, non sappiamo se l'intento è celebrare il nazismo o condannarci come nuovi nazisti. Un murale a Milwaukee ha colto il nuovo stato d'animo: una svastica incastonata in una stella di David, con le parole "L'ironia di diventare ciò che una volta odiavi".
L'ebreo-nazista è il punto di arrivo del supersessionismo politico: non solo abbiamo perso la nostra identità di "Israele", ma abbiamo assunto l'identità del nostro peggior nemico.
Combattere il male
Forse uno dei motivi per cui non riusciamo ad andare oltre il 7 ottobre è perché, quel giorno, abbiamo incontrato ancora una volta il male assoluto.
Nel secolo scorso, il popolo ebraico è stato preso di mira in successione da tre ideologie totalitarie: il nazismo, il comunismo sovietico e ora l'islamismo radicale. Ognuno di questi movimenti aspirava a rifare l'umanità a sua immagine. Ognuno era ossessionato dagli ebrei come ostacolo primario al raggiungimento del suo obiettivo. Ognuno si sentiva giustificato a usare qualsiasi metodo per perseguire il dominio del mondo.
Per contrastare efficacemente il male è necessaria una determinazione senza compromessi.
L'8 ottobre, gli israeliani di tutto lo spettro politico hanno concordato che le regole di base della nostra guerra contro il terrore devono cambiare. Fino ad allora, l'obiettivo era contenere Hamas e dissuaderlo dal lanciare razzi sulle comunità israeliane; ora l'obiettivo era distruggere la sua capacità di governare. Ciò significava negare l'immunità ad Hamas: ai terroristi non sarebbe stato permesso di massacrare i nostri civili, di rientrare a Gaza e di nascondersi dietro i loro civili. Invece, avremmo perseguitato gli agenti di Hamas ovunque si trovassero, compresi ospedali e moschee. Il risultato terribile è stata la guerra più brutale di Israele, e una delle più necessarie.
Ora queste regole vengono applicate anche a Hezbollah.
Ma combattere le enclave terroristiche ai nostri confini non è sufficiente. Dobbiamo affrontare la fonte del male, che è il regime iraniano.
Nella sua guerra contro Israele, l'Iran ha ottenuto due vittorie strategiche. La prima è stata quella di circondarci con enclave terroristiche, un "anello di fuoco". La seconda è stata quella di superare in astuzia la decennale campagna israeliana per impedire all'Iran di avvicinarsi alla soglia nucleare.
Ora finalmente ci occupiamo dei mini-stati terroristici ai nostri confini. Ma finché l'Iran rimarrà a portata di bomba, non rivendicheremo la nostra deterrenza né dissiperemo la minaccia esistenziale che è tornata alla nostra vita nazionale con il 7 ottobre. L'obiettivo strategico di questa guerra, quindi, deve essere la distruzione del programma nucleare iraniano, accelerando il processo che porterà alla caduta degli ayatollah. Questa è la vera risposta "proporzionata" al 7 ottobre.
Insieme alla risolutezza militare, c'è un'altra mossa essenziale nella lotta al male, ed è rivolta verso l'interno: dobbiamo resistere alla tentazione di adottare i modi dei nostri nemici. L'estrema destra israeliana erode la credibilità morale della nostra guerra contro il male infettandoci con il male. Mette a repentaglio il sostegno e la comprensione dei nostri amici all'estero e divide amaramente il pubblico israeliano.
Preservare un Israele dignitoso e democratico è una componente essenziale nella guerra per la nostra storia. Quegli ebrei che cercano di trasformare Israele in uno stato criminale sono un dono per coloro che insistono che lo sia già.
Vivere con l'incertezza
Con la fine dell'era post-Olocausto, gli ebrei devono adattarsi a un'ambiguità profondamente disorientante. Ciò richiede, prima di tutto, una valutazione realistica delle minacce e della nostra capacità di rispondere a esse.
Ancora una volta Israele sta lottando per la sopravvivenza; eppure, come dimostrano i giorni recenti, possediamo ancora la volontà e i mezzi per difenderci. Gli ebrei nordamericani non godono più di un'accettazione incondizionata, eppure le loro comunità rimangono le più fortunate nella storia della diaspora. Il "problema ebraico" - come un tempo veniva definita l'esistenza ebraica nell'Europa pre-Olocausto - è stato sostituito dal "problema dello stato ebraico". Ma Israele non è solo in un mondo ostile, anche se a volte sembra così.
Il grande risultato della generazione post-Olocausto è stata la rivendicazione del potere. Inevitabilmente, quel risultato ha avuto un prezzo: la perdita della nostra innocenza. Ora dobbiamo assumerci le conseguenze.
Siamo intrappolati in un circolo vizioso patologico, condannati come aggressori anche se molti ebrei ci vedono ancora una volta come vittime. Nessuna delle due identità è utile per comprendere questo momento ebraico. Non siamo carnefici: qualsiasi Paese al nostro posto avrebbe reagito come abbiamo fatto noi al 7 ottobre, se non altro con ancora maggiore veemenza. E non siamo nemmeno indifesi: le rovine di Gaza e di Beirut attestano tristemente la nostra recuperata capacità di difenderci.
La mattina dopo la guerra per ristabilire la nostra deterrenza militare, Israele si troverà di fronte a una sfida esistenziale interna: sanare la divisione che ci ha lacerato. Nell'anno che ha preceduto il 7 ottobre, gli israeliani hanno vissuto il peggior scisma della nostra storia. Quella divisione ha segnalato una debolezza fatale ai nostri nemici e li ha incoraggiati ad attaccare.
Eppure l'8 ottobre, anziché disintegrarci dall'interno, ci siamo immediatamente trasformati in uno dei momenti di punta della solidarietà israeliana. Non meno impressionante, non abbiamo aspettato di essere mobilitati e ispirati dai nostri leader. Anche quando il governo è effettivamente crollato, ci siamo mobilitati. Quello è stato il momento della nostra maturazione.
Siamo eredi, quindi, di due modelli opposti di Israele. Il primo è una vecchia storia ebraica: divoriamo noi stessi, e poi i nostri nemici fanno il resto. La seconda storia è nuova: dalle profondità della nostra divisività, rivendichiamo gli istinti del popolo.
Per fare ciò sarà necessario un accordo sul fatto che nessun campo ideologico possa imporre la totalità della sua agenda politica e culturale a questo popolo frazionato. Né un processo simile a Oslo né un colpo di stato giudiziario possono verificarsi senza un referendum nazionale o qualche altro meccanismo che garantisca un ampio sostegno. E quando adottiamo politiche dolorose che infiammeranno le tensioni sociali, ad esempio cambiando la natura del rapporto ultra-ortodosso con lo Stato, lo facciamo con rispetto, apprezzando il fatto che ogni campo ideologico incarna una verità essenziale della nostra identità ed esperienza come popolo.
L'altro giorno a Gerusalemme ho visto un adesivo paraurti che diceva: "La nostra storia avrà un buon finale". Queste parole sono state pronunciate da Sarit Zussman al funerale di suo figlio Ben, un soldato caduto a Gaza. Un tempo quel sentimento sarebbe sembrato ovvio agli israeliani. Ora ha la commozione di una preghiera.
(Parte di questo saggio è apparsa sul Globe and Mail.)
Yossi Klein Halevi è un senior fellow presso lo Shalom Hartman Institute, dove è co-direttore, insieme all'Imam Abdullah Antepli della Duke University e a Maital Friedman, della Muslim Leadership Initiative (MLI), e membro dell'iEngage Project dell'istituto. Il suo ultimo libro, Letters to My Palestinian Neighbor, è un bestseller del New York Times. Il suo libro precedente, Like Dreamers, è stato nominato Libro dell'anno 2013 dal National Jewish Book Council.
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