OltreMare di Giuseppe Kalowski, corrispondente da Tel Aviv

 

 

Sono sul lungomare di Tel Aviv, e mi concedo una pausa prima di partire per Gerusalemme, in compagnia di un bicchierone di cappuccino e di due rugelach, oziosi e invitanti.

Il mare è agitato, questa mattina, e una lieve foschia si appoggia all’orizzonte. Lo guardo – questo mare – e mi viene da pensare quanto sia in realtà breve questo tratto d’acqua che ci separa, alla sua estremità orientale, dai confini sud dell’Europa: poco più di tre ore di volo, poco più di mille miglia nautiche e, invece, la distanza, in questi giorni mi appare siderale.

Lottiamo per confutare le bugie che in questi mesi hanno descritto e descrivono il conflitto in corso, ma cosa accade veramente in Israele? Noi per primi cerchiamo di capire, e di porci delle domande, per non subire l’onda della propaganda, ascoltando e leggendo le notizie che quotidianamente ci riguardano e non è sempre facile.

 

Il governo arranca a seguito degli avvenimenti degli ultimissimi giorni e la popolazione è arrabbiata e affranta allo stesso tempo, soprattutto dopo avere visto il filmato del 7 ottobre delle giovanissime osservatrici in TV. Bisogna precisare che quelle povere 5 ragazze sono le  uniche sopravvissute... e che altre 15 erano già state uccise poco prima senza pietà... Quel video è un peso enorme sull’anima e si fa fatica a respirare, guardandolo.

Che cosa fare? Questo è quello che si chiedono tutti, qui.

È impossibile avere il polso della situazione perché ci sono molte, troppe opinioni al riguardo.

Una cosa è sicura, secondo il mio parere: il governo che arranca, che prende tempo sull'attacco a Rafah, riflette esattamente il mood della gente, cioè divisione, indecisione, rabbia, paura.

Dopo la visione del filmato fa ancora più rabbia la delirante accusa del procuratore dell'Aja ed ex avvocato del figlio di Gheddafi che chiede l'arresto di Netanyahu e di Gallant.

La conclusione del procuratore è, di fatto, un premio ad Hamas e all'Anp, che non ha mai preso posizione contro lo scempio del 7 ottobre e che all'80 % appoggia Hamas...

Addirittura il giorno dopo, l'Irlanda la Norvegia e la Spagna  si accingono a riconoscere la Palestina come stato sovrano, autonomamente. Ma dove è – oggi – questo stato-from-the-river-to-the-sea, chi è il suo capo di stato, dove ha sede la sua capitale?

Viviamo tutto come una beffa, un oltraggio, dopo aver visto il filmato delle ragazze rapite, e mentre apprendiamo che i corpi di altri 3 ragazzi – che erano stati rapiti, da morti – sono stati recuperati dall’IDF e riportati in Israele.

In tutto questo, Israele, con il suo governo, deve prendere delle decisioni, per quanto dolorose possano essere; ma l'unica cosa che non può fare è rincorrere gli avvenimenti.

 

Il Corriere della Sera del 22 maggio 2024, a proposito dell’avvocato britannico Karim Khan, il Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, che chiede l’arresto del Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu, del Ministro della Difesa di Israele Joav Gallant e di tre appartenenti di Hamas, rileva che, come avvocato, difese l’ex dittatore liberiano Charles Taylor, distintosi per il ricorso ai bambini soldati, agli stupri e alle uccisioni di massa; che è stato consulente di Sauf al -Islam, figlio di Gheddafi, tornato alla ribalta grazie ai mercenari della Wagner; che “il vero capolavoro giuridico è stata la sua assistenza legale a William Ruto” dittatore e Presidente del Kenya, accusato di massacri, il quale Ruto “si è dimostrato molto riconoscente, perché nel 2021 il nome dell’avvocato britannico è apparso un po’ all’improvviso nella lista dei candidati alla presidenza della Corte Penale Internazionale”. E sarebbe arrivato all’Aja per indagare su personalità esterne all’Africa e al Global South, come per esempio Benjamin Netanyahu. Ha battuto, per il posto che occupa, la concorrenza di Italia, Irlanda e Francia.

 

Intanto, da Torino, tempio della laicità, mi raccontano che nella cornice di manifestazioni quotidiane e di atenei occupati da oltre dieci giorni dall’«intifada studentesca» dei pro Palestina, è esploso il caso della presenza dell’Imam Brahim Baya a Palazzo Nuovo, tra le sedi occupate nell’Università di Torino.

Ad ascoltarlo una trentina di manifestanti e fedeli, molti di origine straniera. Il video è stato interamente pubblicato su internet con il titolo “Cosa ci insegna la Palestina” e ha suscitato posizioni di condanna da parte di alcuni professori che hanno parlato di un «inno alla Jihad». Mi scrivono che le sue parole stanno facendo discutere, in Italia, e che «l’imam in preghiera all’Università di Torino è un altro triste capitolo della “cancel culture” e di quel sentimento di “cupio dissolvi” in cui trovano rifugio una parte delle nuove generazioni».

 

E io, che cerco la Vita nelle cose che accadono, io, Ebreo praticante, leggendo che a un Imam è stato concesso di elevare la sua preghiera nei locali dell'Università di Torino, mi permetto di ricordare che, anni fa, a Joseph Ratzinger fu impedito di pronunciare una lezione all’Università La Sapienza di Roma, con la motivazione che l'università è laica.

Ma tant’è…

 

La foschia sul mare sembra, per una frazione di secondo, essere calata anche su di me: mi sembra di vedere mio padre, Abram, seduto sul lungomare, vicino a me, che mi guarda, in silenzio.

Vorrei dirgli: - Vedi, cosa è successo. Vedi, cosa sta succedendo…

Vorrei chiedergli cosa ne pensa… Lui, sopravvissuto al ghetto di  Łódź e al campo di sterminio di Auschwitz.

Ma Abram tace, come ha taciuto per tutta la sua vita, mentre mi guarda con occhi colmi di amore e poi scompare nella foschia.

Già, l’amore.

Mi raccontano che, a Gaza, come qui, in Israele, le persone continuano a innamorarsi, a sposarsi, a mettere al mondo dei bambini.

E sì, non faccio fatica a crederlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sabato sera a Tel Aviv, tra speranze e contraddizioni. Di Giuseppe Kalowski corrispondente da Tel Aviv – 18 maggio 2024

 

Tel Aviv, 18 maggio – La piazza che conduce al museo di Tel Aviv non è mai stata un punto caldo della città. Ma oggi tutti la conoscono per essere divenuta l’epicentro del movimento a sostegno delle famiglie degli ostaggi detenuti da Hamas, dal 7 ottobre scorso.

Il Forum delle famiglie è un gruppo che si è creato spontaneamente l’8 ottobre; gestisce le attività nella piazza, ribattezzata il 24 ottobre dal consiglio comunale “Piazza degli ostaggi”.

Qui ora viene gente da tutto il Paese, a volte anche dall’estero. Tra bancarelle che vendono vari articoli, i volontari guidano gruppi, scuole, visitatori, li presentano ai parenti degli ostaggi. La piazza offre uno spazio alle famiglie per condividere le loro storie, agli artisti per esporre le loro opere, è un luogo libero per ogni attività di solidarietà: pullman di persone da tutto il Paese vengono qui per incontrarci, per vedere cosa succede qui, per identificarsi con le famiglie ed è per questo che è così importante per noi. Il nostro obiettivo è essere con le famiglie, stare con loro ed essere sempre nella mente e nel cuore della gente, in ogni momento. È importante, è rassicurante, vedere persone, ricevere abbracci, sentire frasi come ‘siamo con voi, non dimentichiamo, veniamo alle manifestazioni, per sostenervi’… È molto rassicurante.

 

Questo sabato sera siamo qui, come tutti gli altri sabato sera dopo il 7 ottobre, e si respira un’aria tesa, dolente e contraddittoria. Il vento umido che soffia dal mare agita lentamente le nostre bandiere, ma i cartelli con i volti dei nostri ostaggi sono fermi e bene issati. I loro volti ci guardano, sereni e sorridenti, dai cartelloni, ma i volti delle persone che mi circondano esprimono dolore e incredulità, sconforto, e sono tesi – mentre il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, annuncia in conferenza stampa che i militari hanno recuperato il corpo di un altro ostaggio: Ron Benjamin, ucciso il 7 ottobre, vicino a Mefalsim, e il cui corpo era stato portato in ostaggio a Gaza.

Quasi contemporaneamente, il ministro senza portafoglio Benny Gantz fissa l’8 giugno come scadenza per il piano di Gaza e minaccia di lasciare il governo se le richieste non verranno soddisfatte… e l’ufficio di Netanyau risponde un’ora dopo con un ultimatum. Gantz sostiene che si deve scegliere tra sionismo e cinismo, tra unità e divisione, tra responsabilità e negligenza, tra la vittoria e il disastro.

 

… Ma i nostri ostaggi non hanno la tranquillità necessaria per aspettare fino all’8 giugno che si decida se riportarli a casa o meno…

 

E su tutto questo l’affermazione, in merito a Gaza, di Itamar Ben Gvir,  ministro della sicurezza, e leader di destra radicale: “È morale, razionale, giusto, è la Torah ed è l’unico modo. E sì, è anche – ha aggiunto, il leader di ‘Potere ebraico’ – umanitario”, e invoca la cacciata di Benny Gantz (e di Gallant) dal gabinetto di guerra.

 

Tre settimane per cambiare strategia, alla scadenza di otto mesi dal 7 ottobre, altrimenti alla guerra si aggiungerà la crisi politica. È l’ultimatum che il centrista Benny Gantz ha dato ieri a Benjamin Netanyahu. La richiesta si articola in sei punti: restituire gli ostaggi; demolire Hamas e smilitarizzare la Striscia di Gaza; fornire un’alternativa di governo “americano-europeo-arabo-palestinese” nella Striscia, che “non sia Hamas e il presidente dell’autorità palestinese”; riportare i residenti del nord entro il 1° settembre e riabilitare il Negev occidentale; promuovere la normalizzazione con l’Arabia Saudita; creare un servizio nazionale israeliano standardizzato…

Queste mosse, che potrebbero aggravare la tensione politica ai più alti livelli di governo, ci inquietano – naturalmente – e appesantiscono gli animi, perché la nazione dovrebbe sentirsi protetta con uno spirito buono e forte e dare ai combattenti al fronte la sensazione di essere sostenuti da un destino condiviso.

 

Viviamo momenti di grande emozione quando sui maxi schermi scorrono le immagini in diretta, in collegamento, con gli interventi dell’ambasciatore austriaco, dell’ambasciatore tedesco, dell’ambasciatore inglese, dell’ambasciatore americano e di Hilary Clinton – a nome anche del Presidente Biden.

L’Ambasciatore austriaco colpisce favorevolmente per la sua totale partecipazione alla tragedia che stiamo vivendo; e ammette senza mezzi termini che l'antisemitismo si è di nuovo affacciato brutalmente in Europa e in Austria dopo il 7 ottobre.

L’Ambasciatore tedesco invece, parlando in un ebraico quasi perfetto, sostiene la necessità di un accordo e di un cessate il fuoco e l’importanza di sostenere con aiuti  umanitari la popolazione di Gaza, che non è Hamas. Per lui non ci sono alternative per liberare gli ostaggi. Ha detto che a Berlino c'è una Piazza degli Ostaggi analoga a quella di Tel Aviv

L’Ambasciatore inglese legge un messaggio di Cameron, attuale ministro degli esteri. Esprime la totale partecipazione al dolore dei parenti degli ostaggi e a voce alta rassicura il pubblico e Israele: “Non vi abbandoneremo, non vi lasceremo soli. Mai!”.

L’Ambasciatore americano ricorda che: “Dal 7 ottobre stiamo quotidianamente cercando una soluzione per il rilascio di tutti gli ostaggi. Gli USA sono con voi. Serve assolutamente qualcosa che sblocchi la situazione”.

(È chiaro l'intento non detto della necessità di un accordo e non di un'azione militare).

Hilary Clinton invia un messaggio dagli Usa, breve ma significativo: “Totale vicinanza, sono sconvolta dagli avvenimenti del 7 ottobre”. Lei e Biden chiedono il rilascio immediato di tutti gli ostaggi, ricordando che hanno più nazionalità e sono di più fedi religiose.

 

Prima della Hatikva, si esibisce per la prima volta in Israele da quando è tornata dall' Eurovision,  Eden Golan, che canta la sua canzone nella versione originaria non accettata “October rain”.

Le sue parole e quelle della Hatikva ci leniscono gli animi, anche il vento si è calmato ed è scesa la notte, scura e profonda.

Dalla Redazione di Torino mi scrivono, in diretta: “Troveremo solo corpi, alla fine…”; “Esattamente…”, rispondo.

Poi ci dispiace di esserci scritti queste parole: “Fintanto che nell'intimo del cuore freme l'anima ebraica e l'occhio guarda a Sion, là nell'oriente lontano, non è ancora perduta la nostra speranza, due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme” – così recita la Hatikva. Ma, per questa notte, ci permettiamo il lusso di essere politicamente scorretti. Domani, ricominceremo a sperare.

 

 

 

 

 

Durante la trasmissione in diretta della seconda semifinale dell’Eurovision Song Contest 2024, in corso a Malmö in Svezia, la Rai ha erroneamente diffuso in video le percentuali del televoto.

Si è così appreso che, al termine della votazione, Eden Golan per Israele era al primo posto con il 39,31 dei voti.

Noi, Ebrei in Israele, con la nostra proverbiale autoironia – che ci ha consentito di sopravvivere nei secoli a pogrom e stermini di vario genere – questa mattina ci diciamo di avere l’impressione che l'ebraismo italiano abbia dato in mano i cellulari anche ai neonati per arrivare al 39,31% dei voti italiani a Eden Golan (in Israele non potevamo votarla, per regolamento).

E ovviamente non è così, e ovviamente va benissimo così! Grazie!

 

Di certo, se la percentuale dovesse essere confermata a livello internazionale e anche nella serata finale, questo significherebbe che Israele ha un'altissima probabilità di vincere la competizione.

 

L’anello, le nuvole, il brano musicale che lei interpreta molto bene. Oltre a dare prova di una bellissima voce. L’anello, che tutto racchiude e conferma, il cerchio da chiudere, l’inizio e la fine, speriamo, di un orrore senza tempo, il vento, e la semplicità disarmante della mise di scena, con i due colori, il rosso e il bianco écru: Eden Golan diviene, con drammatica bellezza e naturalezza, l’icona incarnata della gioventù di un altro festival, quello di esattamente sette mesi fa.

 

Ammettiamo che, alla vigilia dell’Eurovision, la gioventù israeliana fosse sconfortata, se non pessimista: i sondaggi erano buoni, ma non ottimali.

Ma si doveva comunque partecipare e, senza isolarsi, resistere alle intemperie.

Questo non ci ha impedito di notare che alla presentazione di “October Rain” (prima versione della attuale “Hurricane”) nessun paese ha solidarizzato con Israele; che il timore della politicizzazione della manifestazione (come avvenuto due anni fa) era forte; che i fischi e le contestazioni durante le prove e dopo l’esibizione ci sono stati; che a qualcuno è stato permesso (o forse gli organizzatori non se ne sono accorti…) di salire sul palco ed esibirsi con una kefia legata al polso, e insomma: la gioventù ( laica) israeliana vorrebbe sentirsi internazionale, globale, ma si deve confrontare con la realtà occidentale.

 

Negli ultimi mesi ci è apparso sempre più chiaro chi è contro di noi, e non passa giorno senza che si smascherino forze malevole, potenze straniere, siti web e account sui social media che diffondono disinformazione e propaganda.

In un mondo dove le persone che non vivono in una democrazia sono più di quelle che vivono in un sistema democratico, anche noi abbiamo la responsabilità collettiva di riflettere con spirito critico su ciò che viviamo e lo facciamo, qui, cercando di fare sentire la nostra voce, con onestà e trasparenza.

E ci piacerebbe anche – come Israeliani - partecipare a uno dei più grandi esercizi democratici al mondo: l’Europa, e non dare l'Europa per scontata. Difenderla. Plasmarla. Viverla. Votarla.

Perché noi non diamo la Vita per scontata. La Difendiamo. La Plasmiamo. La Viviamo. E (quando possiamo) La votiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al Teatro Habimah di Tel Aviv è stato uno Yom HaZikaron molto sentito e molto temuto da un punto di vista politico per le pressioni interne (i movimenti che guidano le famiglie dei rapiti) e per le pressioni esterne (gli USA in primis), in particolare con Biden che continua a "chiamare una tregua che non esiste". E la vede solo lui, per evidenti ragioni elettorali.

 

 La guerra non va bene, Israele è tornata a combattere a Jabalia dove si pensava fosse finita... Arrivano razzi a Beer Sheva e stamattina ad Ashkelon un razzo ha colpito una casa dopo tanto tempo ferendo tre persone.

Temo, con i debiti scongiuri, che la pressione su Rafah faccia arrivare razzi a Tel Aviv...

 

Una cosa che mi è balzata agli occhi è stato vedere pochissime bandierine con la stella di Davide sui finestrini delle macchine rispetto agli anni scorsi... c'è poca voglia di festeggiare ma sono sicuro che alla fine, dopodomani, lo spirito di resilienza vincerà lo sconforto.

 

Un Memorial Day sentito come non mi era mai capitato di vivere. E mi ha fatto commuovere vedere coppie anche di una certa età abbracciarsi forte e piangere durante i 2 minuti della sirena di ieri sera... mentre, più in là, i bambini piccoli guardavano perplessi i loro genitori… e al Cimitero di Ashdod Ben Gvir era contestato da alcuni e poi difeso da altri...

Anche questa è Israele.

 

Quando nel 1951 fu istituito Yom HaZikaron, il Giorno della memoria israeliano per i soldati caduti in guerra e le vittime di atti di terrorismo, fu deliberatamente inserito nel calendario il giorno prima di Yom HaAtzmaut, il Giorno dell'Indipendenza di Israele.

Sebbene l’accostamento dei due giorni richieda un drammatico passaggio emotivo dal lutto alla celebrazione, la scelta comunica anche un messaggio chiaro: questi soldati e vittime del terrorismo non sono morti invano, e non possiamo celebrare la creazione dello Stato di Israele senza il riconoscimento del suo prezzo in vite umane.

Quest'anno, mentre le sirene suonano in tutto Israele, dal tramonto al mattino, il loro suono penetrante ricorda le vite di coloro che sono stati uccisi nel corso dei 76 anni di Israele e di quelle perse  solo negli ultimi 7 mesi.

Una risposta alla domanda “come possiamo cantare?” questo Yom HaZikaron potrebbe essere la musica emersa in Israele negli ultimi sei mesi. Queste canzoni non solo catturano il polso di gran parte della società israeliana, ma ci danno uno strumento per attingere alla rabbia, al dolore e alla disperazione di quest’anno, così come alla speranza.

Un’altra opzione è quella di celebrare le due giornate ricordando le espressioni di gentilezza, grazia e amore degli ultimi 7 mesi che offrono speranza, comunità e resilienza di fronte a traumi continui e prolungati.

Vedere la Terra d’Israele non come un’eredità passiva (morasha) ma come un fidanzamento (meorasa) per il quale dobbiamo lavorare, su cui investire e verso cui sognare.  

Queste fonti di speranza cui ci aggrappiamo possono essere il momento per ritornare ai sogni precedenti, su ciò che Israele può e dovrebbe essere. Queste idee, ideali e valori, ci ricordano qual è la posta in gioco e perché persistiamo nella lotta per l'anima e la sopravvivenza di Israele.

Iniziare a re-immaginare ciò che Israele può essere moralmente, culturalmente e spiritualmente. Chiedendo agli ebrei di sfidare la storia e ricostruire una casa che possa essere condivisa. Ogni pezzo rimane un progetto ambizioso per un futuro migliore. Servono a evocarci e spingerci a impegnarci nuovamente a favore dell’Israele di oggi e di domani.

 

"Magash Hakesef" (Il piatto d'argento), è una poesia scritta da Nathan Alterman durante la Guerra d'Indipendenza del 1948, fu negli anni '50 e '60 la lettura più comune per le cerimonie di Yom Hazikaron.

La poesia raggiunse uno status quasi simile al discorso di Gettysburg di Lincoln nella cultura statunitense.

Fu pubblicata su un giornale ebraico nel 1947 prima della fondazione di Israele e non parlava dei caduti nelle guerre israeliane, ma di una previsione delle morti che sarebbero avvenute nelle prossime guerre per la libertà e per lo Stato di Israele.

 

Di seguito è riportata una traduzione di questa poesia emotivamente paralizzante.

Il piatto d'argento

Traduttore: David P. Stern

…E la terra si calmerà
Cieli cremisi che si offuscano, si appannano
Lentamente impallidiscono di nuovo
Sulle frontiere fumanti
Mentre la nazione si alza
Lacerata nel cuore ma esistente
Per ricevere la sua prima meraviglia
In duemila anni
Mentre il momento si avvicina
Sorgerà, l’oscurità di fronte

Stai dritto al chiaro di luna

Con terrore e gioia
Quando di fronte escono
Verso di esso camminando lentamente

In bella vista di tutti

Una giovane ragazza e un ragazzo
Vestiti con abiti da battaglia, sporchi
Scarpe pesanti di sporcizia
Sul sentiero si arrampicheranno
Mentre le loro labbra rimangono sigillate
Per cambiare abito, per asciugarsi la fronte

Non hanno ancora trovato il tempo

Ancora stanchi per i giorni

E per le notti trascorse nei campi
Pieni di infinita fatica
E tutti prosciugati di emozioni
Eppure la rugiada della loro giovinezza
Si vede ancora sulle loro teste
Così come statue essi rimangono
rigidi e immobili senza movimento e nessun segno che mostri se vivono o sono morti
allora una nazione in lacrime
e stupita di questa faccenda chiederà: chi siete?

E i due allora diranno
Con voce sommessa: Noi –
Siamo il piatto d'argento

Su cui è stato presentato oggi lo Stato ebraico
Poi ricadranno nell'oscurità
Mentre la nazione guarda stordita

E il resto può essere trovato

Nei libri di storia.



 

 




 

 

Dal nostro corrispondente da #Tel #Aviv,#Giuseppe #Kalowski.

In occasione delle Celebrazioni in corso in Israele per Yom HaShoah (5 – 6 maggio 2024) è stato proiettato domenica sera, 5 maggio 2024, presso il Centro di Quartiere “Beit iedei levanim” (lett. “Casa delle mani bianche”) del Comune di Tel Aviv il docufilm “#GIADO”.

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Giado, è una località a 180 chilometri a sud di Tripoli, dove la Comunità ebraica della Cirenaica corse il rischio di morire in pochi mesi, per malattie, malnutrizione e cattive condizioni di vita in un campo dove fu deportata per ordine di Mussolini. In un solo mese, dal 19 maggio al 21 giugno del 1942, 15 scaglioni di ebrei per un totale 2.527 unità furono deportati con l’accusa di “connivenza” con il nemico. Il campo, una vecchia caserma, era gestito dalle autorità italiane, con la presenza di qualche soldato tedesco e l’ausilio di ascari arabi.

Cinquecentosessanta persone, poco meno di un quarto della comunità ebraica della Cirenaica, perirono in pochi mesi per fame, sete, malversazioni e malattie. Il crimine fu consumato nell’isolamento e fuori dallo sguardo pubblico, contro una popolazione indifesa, duramente vessata dalle leggi razziste e provata dalla guerra.

Sarebbero morti tutti per l’epidemia di tifo, se le truppe alleate non avessero liberato il campo dopo la vittoria di El Alamein.

Il campo di Giado fu il peggiore dei campi di concentramento italiani in Africa settentrionale. Fu il più spaventoso dei campi di detenzione e di lavori forzati, dove per ordine di Mussolini nel febbraio del ’42 fu deportata l’intera popolazione ebraica della Cirenaica.

Nel gennaio del 1939, Italo Balbo aveva suggerito di “attutire” l’impatto della legislazione razzista nei territori coloniali poiché gli ebrei erano ormai da considerarsi dei “fantasmi morenti”, che non potevano comportare alcun pericolo per la metropoli. Grazie alle loro competenze, gli ebrei potevano essere “utili”. A differenza che nel ’39, Balbo ora affermava che “gli ebrei” sembravano “morti”. In realtà “non morivano” mai “definitivamente”…. [David Meghnagi, in MOKED].

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SINOSSI

Alla giovane età di 20 anni, Yosef Dadosh era tra i 3.000 ebrei mandati dalle loro case di Bengasi al campo di concentramento di Giado, situato nel cuore del deserto libico.

In condizioni estreme, ha coraggiosamente raccontato la vita nel campo attraverso un diario segreto.

Per sette decenni, il suo diario rimase chiuso in un armadio, nascosto al mondo, fino alla sua morte.

Il diario di Yosef offre una finestra straordinaria e rara sulla straziante routine di Giado.

Cattura le atrocità subite dai suoi abitanti in tempo reale, offrendo un resoconto intimo e agghiacciante della loro sofferenza.

Nonostante il suo impegno nel sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Olocausto degli ebrei libici e nella lotta per il suo riconoscimento da parte dello Stato di Israele, Yosef ha scelto di tenere nascosta la sua vicenda personale ai suoi stessi figli.

Con l’intento di dare vita a questa avvincente storia sullo schermo, è stato costruito e fotografato un modello unico del campo.

Attraverso l'uso delle animazioni, questo modello funge da ponte visivo, collegando i testi inquietanti del diario con la cruda realtà del campo.

Il film che ne risulta fonde l'accuratezza storica con un linguaggio cinematografico distintivo, offrendo un'esplorazione potente e coinvolgente del profondo viaggio di Yosef e dell'oscura eredità che si è lasciato alle spalle.

Un documentario importante, anche se, per forza di cose, non capillare.

Gli Italiani e i tedeschi diedero l’uno all'altro la responsabilità morale e penale del campo di Giado per evitare i risarcimenti.

Solo negli ultimi due decenni gli scampati hanno avuto un risarcimento dal governo d'Israele.

Da lì nacque una polemica per il trattamento avuto invece dagli ebrei in Europa.

Di seguito, il trailer del docufilm: https://go2films.com/films/giado/

[#Israele, #Documentario 2023, 55 minuti, Regia: #Golan #Rise, #Sharon #Yaish, Produttore(i): #Hagar #Alroey.

#Storia #Olocausto #MedioOriente #Attualità #Nuoveversioni #Sefardita].