Questo libro raccoglie la testimonianza di 510 giorni di conflitto in Israele, segnati dal dolore e dall’angoscia per la sorte dei suoi ostaggi, presi in cattività il 7 ottobre 2023, ma anche da quella resistenza e resilienza tutte israeliane – o meglio, ebraiche.
Si tratta di articoli redatti nel corso dei mesi da parte di Joseph G. Kalowski, autore italo – israeliano che vive e lavora tra Roma, Tel Aviv e Gerusalemme.
Gli articoli sono nati come contributo periodico a uno spazio giornalistico di ETICA Associazione Culturale – Edizioni che si propone di ospitare, appunto dopo il 7 ottobre, riflessioni, testimonianze, confronti, sogni, speranze, delusioni, paure.
Per cercare di capire.
Per testimoniare.
Per non dimenticare.
Si tratta di una cronaca rispettosa, concentrata, che cerca di leggere complessità e controversie: una sorta di diario dell’anima, scritto attraverso la cronaca della vita quotidiana in Israele, in quei 510 giorni.
Il lettore potrà rendersi conto, attraverso le parole di chi scrive, quanto sia oggi necessario fare un passo indietro, ascoltare e ascoltarsi, raccontare le differenze, cercare di lasciare andare almeno i preconcetti.
E, d’altra parte, non possiamo fare altro in un momento complicato come quello che stiamo vivendo, un’epoca in cui tutto è polarizzato, ma in cui, proprio per questo motivo, ci sembra necessario condividere con capacità di empatia: si tratta di un momento storico sicuramente complesso e di difficile interpretazione: per gli Ebrei in Israele e nella Diaspora, infatti, sembrano sgretolarsi in maniera progressiva certezze e sicurezze, mentre una realtà distopica si sta progressivamente affacciando.
Ci sembra inoltre utile ricordare che il popolo ebraico ha vissuto in questi decenni con la speranza che la memoria della Shoah servisse a evitare il ritorno dell’antisemitismo.
Ma le testimonianze di quanto recentemente avvenuto in Israele, tralasciando in queste pagine quanto avviene in Diaspora, anche quando trattate con rispetto e non in modo diretto, ci riportano ai peggiori pogrom della storia.
Dunque il minimo che possiamo fare, come singoli individui e come società, è testimoniare.
Non possiamo chiudere gli occhi.
Non possiamo voltarci dall’altra parte. Dobbiamo continuare a guardare e a vedere, oltre le propagande, le notizie false, oltre le inevitabili divisioni fra noi.
Condividendo, condividiamo anche quel peso atroce dal quale i sopravvissuti, i loro parenti, e le famiglie di chi non ce l’ha fatta e ha perso brutalmente la vita in quei giorni orribili, non potranno mai liberarsi.
Dobbiamo a tutti loro non solo il ricordare, ma anche il condividere con il mondo intero.
Quanto sopra detto ha inoltre provocato nel mondo una sorta di cambiamento nella coscienza collettiva, che sta trasformando lo Stato ebraico da vittima sanguinante a colpevole sanguinario e che quasi ci fa assaporare una sensazione di “perdita dell’innocenza”.
Ma Israele non è riconducibile a un lembo di terra valorizzato dallo sforzo sionista tra il Mediterraneo e il Giordano, Israele, che piaccia o meno, è l'aleph che brilla nel cuore degli occidentali.
Il suo contributo all'avventura umana, il contributo del popolo ebraico, è incommensurabile e magnificamente sproporzionato (considerando i suoi numeri).
Di fronte, Hamas, idra dell'odio e della certezza senza dubbi.
Si sa che portiamo i luoghi dentro di noi. O almeno un po' dello spirito che da essi emana. Qual è lo spirito di un luogo? La somma della sua influenza storica e della sua influenza culturale, del suo significato e del suo paesaggio, mescolati ai nostri ricordi, ai nostri incontri e alle nostre predilezioni.
E questa alchimia perfettamente confusa e spesso inconscia finisce per comporre, nel cuore dell’essere, una geografia interiore scivolata silenziosamente sotto il piano della geografia reale da cui è nata. In altre parole, così come proviamo nostalgia di tempi che non abbiamo conosciuto, possiamo sentirci figli di terre da cui non proveniamo. Veniamo da qualche parte e ci sentiamo come se fossimo da qualche altra parte.
Questa è la riflessione finale che offriamo ai lettori: Israele risale a ben prima del 1947.
Israele è il debito di ciò che dobbiamo ai suoi artisti, agli scienziati, agli scrittori, ai filosofi, ai pensatori… Israele è la somma di ciò che gli Ebrei hanno dato nei secoli, la stella a sei punte che brilla silenziosa dentro di noi.
Ogni europeo, anche se non lo sa, porta in sé una piccola parte del kibbutz universale irrigato dal genio ebraico.
Israele è anche – ma non solo – il soffitto di Chagall, dove lo sguardo si perde in un turbinio di oro blu; l’insopportabile malinconia degli occhi di Jankélévitch illuminati da un’intelligenza troppo dolorosa; i dubbi fastidiosi di Gary che portavano la sua penna verso la promessa di albe crepuscolari e la canna del fucile sulla bocca; la disperata goffaggine di Woody Allen che porta a spasso il suo genio come un barboncino smarrito tra l'arroganza dei grattacieli.
Israele, con il suo portato culturale, è anche – e soprattutto – il “luogo dell’anima”, spesso inconscia, di una terra di Occidente e di un’Europa che in queste ore sembrano avere smarrito se stesse… ma tutto poggia sullo stesso suolo e la polvere non è tutta la terra, così, dentro di noi, continuiamo a combattere l’oblio con parole che vogliono continuare a ricordare e a sperare, nonostante tutto.
Barbara de Munari, Torino, marzo 2025