ISRAELE  HA  BISOGNO DELLE  VOCI  DELLA  DIASPORA

 di Delfine Horvilleur , filosofa e rabbino.

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

 

 

Drasha dell'ufficio di Kol Nidré 5784 pronunciato dal rabbino Delphine Horvilleur a Parigi, il 24 settembre 2023

 

Forse dovrei iniziare questo sermone dello Yom Kippur chiedendovi “perdono”. Non semplicemente perché è il giorno dell'espiazione, ma per un motivo più semplice, che potrei esprimere in una sola frase: “Ho provato, veramente provato, a non scrivere il sermone che state per ascoltare. Ma non ci sono riuscita”.

 

Mi ripetevo continuamente che non era una buona idea, che era meglio parlare d'altro, che si rischiava di arrabbiarci...

 

E poi, mentre lo scrivevo, ho pensato molto a quella famosa vignetta di stampa, pubblicata all'epoca del caso Dreyfus. Certamente conoscete questa immagine: si vede una tavola ben apparecchiata e una cena serena, mondana e civile. Sotto il disegno c'è scritto: “Soprattutto! Non parliamo dell’affare Dreyfus!”. E nell'immagine successiva, il tavolo è rovesciato, i piatti sono rotti e gli ospiti si strangolano a vicenda. La didascalia specifica semplicemente in quattro parole, nel caso non l'abbiate capita: "...Ne hanno parlato...".

 

E io, questa sera, sento una voce dentro di me che mi dice: non parliamone...

E un’altra che risponde: sì, non hai scelta.

E che dice: pensa alla data di oggi, ricordatene!

 

Cari amici, questa sera, giorno solenne dello Yom Kippur in cui entriamo, siamo proprio in una data anniversario, a tutti nota. Esattamente 50 anni fa, al servizio del Kol Nidré 1973, tra poche ore sarebbe iniziata la terribile guerra che avrebbe portato per sempre il nome di questo giorno solenne: la Guerra dello Yom Kippur.

E lo so, alcuni in questa stanza sanno esattamente dove si trovavano quel giorno, chi ha dato loro la notizia, come, nel cuore stesso degli uffici, sono stati accesi i transistor, cercando di capire da dove provenisse l’attacco, pregato con preoccupazione e anche pianto. Chiedendosi perché Israele si fosse fatto sorprendere o non fosse forse impreparato. Migliaia di soldati sarebbero morti. Molti israeliani furono bombardati dall'esercito egiziano nel deserto del Sinai. Cinquant’anni dopo, il dolore è ancora vivo per molte famiglie che hanno perso i propri figli.

 

Parlerò chiaro, senza preamboli: in questi giorni, mentre pensavo a scrivere questo sermone, mi è sembrato di non avere scelta e che questa sera vi dovevo parlare di Israele... per parlarvi del dolore che molti di noi provano oggi di fronte alla terribile crisi che attraversa questo paese, all'estrema polarizzazione che ha portato al potere un governo e ministri di estrema destra, con un messianismo ultranazionalista e, di fronte a ciò, per settimane, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per esprimere la loro preoccupazione (e questo è un eufemismo) per la democrazia, la loro preoccupazione per l’aumento del fanatismo religioso, della violenza politica, la minaccia ai diritti delle donne, l’ascesa del fondamentalismo che improvvisamente chiede loro di coprirsi per strada o di sedersi in fondo all’autobus, che spinge altri a tollerare o nascondere la violenza dei giovani Ebrei contro i villaggi arabi, gli attacchi contro le minoranze. E l’ascesa di discorsi di supremazia o di violenza contro la diversità religiosa, contro le sensibilità ebraiche non ortodosse. E la messa in discussione delle istituzioni giudiziarie nel loro ruolo di contropotere, il moltiplicarsi di argomenti populisti o di rivendicazioni ultra-ortodosse.

 

Certo, molti di noi guardano tutto ciò con angoscia, ma anche con la forza di tutto il nostro attaccamento e il nostro amore per questo Paese e, per molti di noi, con la convinzione del nostro sionismo che, all’improvviso, fatica a ritrovarsi nei discorsi di coloro che rivendicano questo stesso amore per Israele o per il sionismo, con un progetto che è l’antitesi delle nostre aspirazioni.

 

Conosco a memoria tutte le resistenze e gli avvertimenti espressi da tutti contro coloro che, in diaspora, esprimono la loro critica al governo israeliano.

C’è chi dice: “Non è questo il nostro ruolo. Noi che non viviamo lì, non votiamo né prestiamo servizio nell’esercito”.

 

Quelli che dicono: “Laviamo i panni sporchi in famiglia. Non esponiamo al mondo difetti che renderebbero Israele vulnerabile ai nemici o alle persone mal intenzionate che cercano in ogni circostanza di distruggerlo”.

 

C’è chi dice: “Non siamo ingenui. Non dimentichiamo quali discorsi antisionisti e antisemiti possono essere pronunciati da così tanti leader che non ne “perderanno nemmeno uno per moltiplicare le ignominie”. Questa settimana, il leader palestinese Mahmoud Abbas ha espresso dichiarazioni chiaramente antisemite (rendo omaggio anche al sindaco di Parigi che gli ha immediatamente comunicato il ritiro della medaglia cittadina). E poi, appena tre giorni fa, il presidente tunisino ha dichiarato – tenetevi forte – che i disastri climatici che colpiscono il Nord Africa sono sicuramente un attacco sionista. La prova inconfutabile è che l’uragano Daniel ha un… nome ebraico. Lo so, è così grottesco che ti viene quasi da ridere.

 

E poi c’è chi, infine, dice: “Yom Kippur non è il giorno adatto per fare un discorso politico. È un giorno di unità, di consenso. Che senso ha sottolineare le tensioni tra noi o ricordarle alla nostra coscienza?”.

 

Tuttavia, cari amici, e pur conoscendo tutti questi argomenti, sono di fronte a voi in questo momento solenne, convinta che, più che mai e forse soprattutto questa sera, sia necessario parlarne.

 

Più che mai e soprattutto stasera, ISRAELE HA BISOGNO DELLE VOCI DELLA DIASPORA, di tutte le sue voci, comprese quelle più critiche. Quelle che parlano con la forza del loro amore e la solida convinzione del loro attaccamento a questo Paese. Quelle che parlano del disagio e del dolore che si sono impossessati di molti di noi.

Solo cinquant’anni fa, Israele, ancora ebbro dei miracolosi successi della Guerra dei Sei Giorni, dei territori conquistati e della forza del suo esercito, non si aspettava di percepirsi vulnerabile, di ritrovarsi inerme.

 

Al confine egiziano infuriavano i combattimenti e all'improvviso apparve un uomo inaspettato. Era venuto a visitare le truppe. Non so se conoscete la storia di questa visita, ma sicuramente conoscete questa persona. Il suo nome era LEONARD COHEN. Il famoso cantante Leonard Cohen accompagnò le truppe israeliane sul terreno. Ed è lì che l'uomo che scrisse il suo famoso HALLELUJAH quasi 10 anni dopo, compose un'altra melodia che senza dubbio conoscete.

Questa canzone che ha scritto durante la guerra dello Yom Kippur si chiama WHO BY FIRE?

 

Dice in sostanza: WHO BY FIRE? Chi morirà nel fuoco e chi nell'acqua, chi morirà in pieno giorno e chi quando scende la notte, chi morirà di fame e chi di sete, e la canzone struggente dice ancora e ancora e ancora: “Chi devo dire che sta chiamando?”, che significa in inglese (canadese) "Chi devo annunciare?".

 

Ma molti di voi conoscono queste parole, anche se non hanno mai sentito questa canzone di Leonard Cohen. Le conoscono se sono già stati qui, a Yom Kippur, in questa sinagoga o in un'altra.

 

Perché queste parole, appena ritoccate, sono tratte dal libro che avete tra le mani. Le canteremo domani mattina, nel cuore del servizio di Musaf. Nella preghiera solenne dell'Unetanneh Tokef è scritto:

“A Rosh Hashanah il giudizio è pronunciato e a Yom Kippur è sigillato”. E la liturgia ebraica continua così, come nel canto di Cohen, «Chi vivrà e chi morirà?»; “Chi dal fuoco? Chi dall'acqua? Chi a tempo debito e chi ben prima dell'orario previsto? etc.".

 

Ora lo capite: durante la guerra dello Yom Kippur, Leonard Cohen fu testimone dei terribili combattimenti sui campi di battaglia. Attingerà poi alla liturgia dello Yom Kippur per scrivere uno dei brani più belli del suo repertorio, una riflessione sulla vulnerabilità, sulla mortalità e sulla finitezza della nostra condizione umana.

 

E nessuna festività del calendario ebraico racconta questa consapevolezza meglio di quella in cui entriamo questa sera. Lo diremo ancora e ancora nelle preghiere: stiamo davanti a Dio, “senza vere buone azioni e senza potere”,“polvere e cenere” e consapevoli della nostra impotenza.

 

Cosa c’entra tutto questo con la questione di Israele, con la crisi che sta attraversando e con il malessere che molti di noi percepiscono oggi? Lasciatemici arrivare lentamente.

 

E, per farlo, fare una piccola deviazione nel calendario ebraico. Yom Kippur cade sempre nel mese di Tishri, nella stessa stagione dell'anno, ovviamente e sistematicamente nel momento in cui, nel rotolo della Torah, leggiamo gli stessi brani. Per dirla in altro modo, durante tutto l'anno, leggiamo la parasha della settimana, nella Torah, episodio dopo episodio, libro dopo libro del Pentateuco. Ma quando arriva Kippur, il momento del giudizio e dell’introspezione, continuiamo, anno dopo anno, a leggere lo stesso passo della Torah.

 

Entriamo nei “giorni terribili” durante la lettura nella sinagoga del libro del Deuteronomio, l'ultimo libro del Pentateuco, che a volte viene chiamato il “testamento di Mosè”.

Insomma, se siete venuti in sinagoga nelle ultime settimane (non importa in quale Shabbat), avrete sentito leggere il libro del Deuteronomio. E i nostri saggi ci dicono: assicuratevi di mettere in dialogo il messaggio del Deuteronomio con i giorni terribili.

 

Allora cosa dice questo libro? È un messaggio che Mosè rivolge agli ebrei, al popolo radunato alle soglie della terra promessa dove si prepara ad entrare. Mosè sa, in questo momento del racconto, che non entrerà in Israele: è un uomo della Diaspora, è nato in Egitto e morirà nel deserto. Non metterà mai piede nella terra promessa. Ma in questo libro rivolge raccomandazioni, avvertimenti, dalla Diaspora, agli uomini e alle donne che si preparano a stabilirsi lì.

 

Naturalmente questi uomini e donne dovranno essere forti e combattere, lottare e fare guerre per stabilirsi, ma questo non è il messaggio che Mosè trasmette loro. Invece, metterà ripetutamente in risalto tre idee, e si tratta di ciò che potremmo chiamare “la lezione del Deuteronomio”.

 

Mosè disse agli Ebrei:

“Verrà il giorno in cui vi stabilirete pacificamente su questa terra. Verrà il giorno in cui avrete la sovranità su questo territorio e, in quel momento, vi succederanno diverse cose”.

 

“In primo luogo”, dice Mosè, “quando sarete proprietari terrieri, dovrete assolutamente raccogliere le primizie dei vostri campi e, subito, portarle al Sommo Sacerdote, dargliele e privarvene. E poi dovrete dire: il mio antenato era migrante”.

Frase strana per una persona sedentaria, vero? Strano modo di celebrare il tuo raccolto sbarazzandosene.

 

Ma non è tutto.

Secondo messaggio dal libro del Deuteronomio: Mosè disse agli Ebrei “Verrà un giorno in cui vi stabilirete su questa terra. E subito vorrete mettere alla vostra testa un re, un capo, un condottiero, proprio come fanno le altre nazioni. Badate dunque”, continua Mosè, “che questo re non sia troppo arrogante. Assicuratevi che non abbia troppi soldi, troppe donne o troppi cavalli”.

La traduzione di questa allegoria è: assicuratevi, dice Mosè, che il vostro leader non sia troppo ossessionato dal suo potere, finanziario o militare (rappresentato qui dai cavalli) o dal potere politico (simboleggiato dalle donne, cioè dalle alleanze contratte con altri territori).

 

E poi, il terzo avvertimento del libro del Deuteronomio, e questo continua a ripeterlo: Mosè disse agli ebrei “Avverrà che, stabilendovi nella vostra terra, diventerete idolatri e adorerete altre divinità locali”. Queste divinità cananee, nel libro del Deuteronomio, hanno un nome particolare. Sono chiamate Bealim. Il culto di Baal è il servizio di un dio cananeo. Sì, ma questa parola, in ebraico, significa un'altra cosa: Baal significa “proprietario”. Il culto di Baal, in ebraico, è quindi letteralmente il culto del possesso, della proprietà.

 

Mi fermo qui un attimo per fare risuonare le parole, che non sono le mie, ma quelle del libro che leggiamo oggi in tutte le sinagoghe, queste parole che devono essere lette ogni anno, prima di entrare nello Yom Kippur. Il popolo alle porte della terra promessa e noi, alle porte dei giorni terribili, dobbiamo sentire le stesse cose:

– Ogni sovranità è accompagnata da minacce, semplicemente perché ogni forza e ogni insediamento sono accompagnati da minacce: la minaccia di credersi proprietario, la minaccia di idolatrare il possesso, o la forza militare, o il potere finanziario, o il culto del leader…

– E poi, Mosè insegna, in modo paradossale e potente, che la prima cosa che un proprietario può fare sulla terra è essere pronto a cedere parte della sua proprietà, a dare un po’ dei frutti del suo campo, e di ricordarsi della sua migrazione, cioè la sua fragilità e tutto ciò che i suoi antenati non possedevano.

 

E mentre leggo questi testi, settimana dopo settimana nella sinagoga, non smetto mai di pensare a ciò che lacera oggi il popolo di Israele e questo Paese a noi tanto caro. Il modo in cui, bisogna ammetterlo, per alcuni il sionismo è divenuto sinonimo di potere, potenza, proprietà, e il modo in cui un partito di estrema destra, oggi al comando in posizioni chiave, si è dato un nome strano: il partito di Itamar Ben Gvir. Il partito si chiama “Otzma Yehudit”, “il potere ebraico”. Ma che potere è questo? Dove ci porterà esattamente nella Storia?

 

Ed è così che oggi i leader politici pretendono di rappresentare i valori ebraici, di difendere uno Stato ebraico, anche se non democratico, vestendo il loro ebraismo con nomi o discorsi che potrebbero facilmente essere definiti problematici per una certa saggezza ebraica biblica o rabbinica. Una saggezza della vulnerabilità e una consapevolezza di un dialogo necessario, dentro di noi, tra potere e impotenza.

 

E so cosa pensano, o sicuramente diranno, alcuni qui: Israele è minacciato, e forse non può permettersi il lusso di essere indifeso, fallibile e vulnerabile. Deve essere forte e impegnato in una lotta per la sopravvivenza da decenni sì…, certamente,eppure, al di là di questa minaccia esterna, ce n’è una ancora più terrificante, quella che la Storia ci ha già insegnato.

 

Perché questa situazione non è priva di precedenti storici. Già due volte gli ebrei hanno sperimentato la sovranità sulla terra di Israele e hanno guidato una forma statale, vale a dire un potere politico, una continuità territoriale, un esercito e tutto ciò che costituisce una sovranità piena e completa.

 

Una piccola lezione di storia.

Quasi 3.000 anni fa, in Israele si stabilì la prima sovranità ebraica: una continuità territoriale, un esercito, un leader tra i più conosciuti. Questo re si chiama Davide e, dopo aver sconfitto Golia, instaura un regno che unisce i territori della Giudea e di Israele, e fa di Gerusalemme la sua capitale. Davide regnò su Gerusalemme per 33 anni, suo figlio Salomone gli successe e regnò per 40 anni. Il regno è potente. Il figlio di Salomone, un certo Rehovoam, assumerà il ruolo di leader: è la terza generazione che conosce il potere e l'insediamento. Sotto il suo regno, le tribù d'Israele si dividono, il popolo combatte al proprio interno... E così, nel giro di due anni, solo due anni, i regni di Giuda e di Israele divengono nemici e si separarono l'uno dall'altro. . Fine della prima sovranità ebraica su tutto il territorio. Sono passati in tutto solo 75 anni.

Circa mille anni dopo, si instaura una seconda sovranità ebraica: sul paese regnano i re Asmonei, gli eredi dei Maccabim e della storia di Hanukkah. Questa monarchia, fondata nel 140 a.e.v., stabilì la piena sovranità, ricca e potente. Essa durerà fino al 63 a.e.v, quando, dopo lotte interne alla popolazione ebraica, Pompeo e i Romani presero il potere su Gerusalemme. Fine della sovranità: sono passati 77 anni.

E si dovrà attendere il 1948 per vedere emergere una terza sovranità, quella dello Stato di Israele che conosciamo.

 

Ma sentiamo risuonare queste cifre terrificanti: la prima sovranità durò 75 anni, e la seconda appena 2 anni.

E adesso la terza viene oggi divorata dagli stessi scontri, dagli stessi fanatismi che rinascono, di visioni del mondo, di ebraismo e di sionismo che non riescono a conciliarsi. E ora Israele ha 75 anni, l’età in cui tutte le sovranità precedenti sono crollate. C'è una maledizione? Siamo tragicamente condannati a ripetere uno scenario catastrofico?

Riusciremo finalmente a trovare come non separare Giuda e Israele, come non vedere crollare una casa a noi così cara?

 

Scusatemi. Desideravo tanto non scrivere il sermone che ho appena pronunciato. Ma non ci sono riuscita. Credo che oggi tutti noi dobbiamo affrontare una sfida. Quelli, certo, che vivono lì e che devono trovare il modo di convivere, ma anche noi che viviamo lontano da lì, che abbiamo a cuore il futuro di Israele e che abbiamo il dovere, mi sembra, di far risuonare la voce del Deuteronomio, quella di Mosè che, dalla Diaspora, parla a un popolo in cammino verso l'insediamento.

 

E magari dirgli, fuori dallo Stato di Israele: “Accadrà che una volta insediato nella tua terra, tu creda di essere forte ma che, all'improvviso, tu percepisca la tua fragilità... Accadrà che risuonino voci apparentemente inconciliabili, tribù che si odiano e aspirano a separarsi, e dovrete allora, più di ogni altra cosa, avere cara non la forza ma la fragilità, non cercare l’unità, ma rispettare le voci dissonanti che risuonano dentro di voi e che possono ancora trovare una via di dialogo”.

 

È questo stesso insegnamento che, a suo modo, un uomo di nome Leonard Cohen, che non era un combattente dell'esercito israeliano, fece risuonare nelle orecchie dei soldati su un campo di battaglia, 50 anni fa. Siate consapevoli della vostra forza, ma anche della vostra fragilità.

Diffidate del potere quando vi porta semplicemente a volervi schiacciare l’un l'altro. Perché, altrimenti, chi dovrei annunciare? Quale terribile futuro potrebbe aspettarci?

 

Molto più tardi, questo stesso cantante scriverà uno straordinario HALLELUJAH e tante altre canzoni che sono, secondo me, vere e proprie preghiere….

Una di esse dice quanto segue:

“C’è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che si insinua la luce”.

 

Nel cuore dell'oscurità della notte dello Yom Kippur, nel cuore dell'oscurità del mondo che ci circonda, facciamo in modo, ovunque ci troviamo, di lasciare passare un po' di luce attraverso di noi, attraverso i nostri dubbi e le nostre convinzioni.

 

Possiamo noi essere scritti nel Libro della Vita.