La Rete Ebraica Europea per Israele, per la Pace e per la soluzione dei due Stati

 

 

«È ora che questa guerra finisca e che abbia inizio il giorno dopo».

 

Con queste parole il presidente Biden ha concluso il suo discorso del 31 maggio, in cui ha delineato un piano in tre fasi per porre fine alla guerra a Gaza e consentire il rilascio di tutti gli ostaggi. Ha presentato questo piano come quello israeliano, mettendo Benjamin Netanyahu in una posizione difficile. Se il primo ministro israeliano contraddicesse il presidente americano, lo farebbe passare per un bugiardo. Se approvasse questo piano, ciò porterebbe di fatto allo scioglimento della sua coalizione perché i suoi alleati di estrema destra non accetterebbero mai di sostenerlo.

 

Questo piano riprende il contenuto dei negoziati che si svolgono da diversi mesi tra le due parti attraverso l'Egitto, gli Stati Uniti e il Qatar. Si dettagliano le tre fasi durante le quali gli ostaggi verrebbero rilasciati gradualmente, parallelamente all'instaurazione di un cessate il fuoco, all'aumento degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e al loro ritorno nelle aree abitate liberate dalla presenza dell'esercito israeliano. Rendendo pubblico questo piano, il presidente americano si è rivolto all'ala sinistra del Partito Democratico, da un lato per dimostrare il suo impegno a porre fine alla guerra, preoccupato per la sicurezza e il benessere delle due popolazioni civili, e dall’altro alle due parti per costringerle a prendere posizione. Per il momento nessuno di loro ha dato una risposta ufficiale a questo piano che ha ottenuto il sostegno dei leader del G7. Da parte israeliana si insiste sui numerosi dettagli che restano da chiarire, mentre Hamas ha indicato che ci sono «molti elementi positivi» in questo piano. «Avevano però bisogno di vederli scritti su un foglio di carta».

 

In realtà questo piano è costruito su un’ambiguità. Per Israele, la cessazione delle ostilità può essere definitiva solo con «l’eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas». E per Hamas deve garantire la sua sopravvivenza come organizzazione politica che dovrà essere associata alla gestione di Gaza dopo la guerra.

 

Biden è consapevole di queste differenze. Ma è anche consapevole che i due partiti hanno ciascuno la loro «buona» ragione per voler continuare questa guerra: Netanyahu perché è la condizione per la sopravvivenza del suo governo e, inoltre, gli permette di beneficiare di un rialzo dei sondaggi; Hamas perché gli permette di affermarsi come il vero rappresentante della causa palestinese nonostante il prezzo pagato dalla popolazione di Gaza, di cui certamente non si preoccupa. Per rompere questo blocco, Biden ha quindi rischiato di forzare la mano alle due parti con il rischio calcolato di provocare elezioni anticipate in Israele che, spera, rimuoverebbero Netanyahu dal potere e con la speranza di spingere il Qatar a esercitare le necessarie pressioni su Hamas per costringerlo ad accettare questo piano.

 

Biden si è rivolto anche direttamente all'opinione pubblica israeliana, presentando questo piano come l'ultima possibilità per recuperare gli ostaggi. Sapeva che avrebbe trovato in essa l’alleato necessario nella situazione di stallo tra lui e Netanyahu. E non aveva torto. Il giorno dopo il suo discorso, 250.000 israeliani hanno manifestato per sostenerlo. L'ultimo sondaggio mostra che il 62% di loro è favorevole alla liberazione degli ostaggi piuttosto che alla continuazione della guerra. Le loro famiglie si sentono sempre più abbandonate dal governo dopo che è stata appena annunciata la morte di quattro ostaggi in custodia. Le organizzazioni che avevano partecipato al movimento di protesta contro la riforma giuridica si stanno mobilitando sempre più per chiedere la caduta di questo governo e l'organizzazione di elezioni. Hanno intenzione di manifestare dal 16 giugno davanti alla Knesset e sperano di bloccare il Paese.

 

Per rassicurare l'opinione pubblica israeliana, il presidente Biden ha dichiarato che le capacità militari di Hamas oggi sono molto ridotte e che non è più in grado di organizzare un altro 7 ottobre. Inoltre, prendendo il controllo dell'asse Filadelfia, che costituisce il confine tra Gaza e l'Egitto, l'esercito israeliano ha iniziato a demolire tutti i tunnel che lo attraversavano e attraverso i quali Hamas si riforniva di armi e si arricchiva con le tasse sulle merci. Questa continua pressione su Hamas spiega senza dubbio l’aumento del lancio di Hezbollah, su richiesta degli iraniani, sul nord di Israele – quasi 1.000 razzi durante il mese di maggio. Il rischio di vedere scoppiare una guerra lì è forte e sarebbe molto più difficile di quella condotta per 8 mesi a Gaza – il numero degli Hezbollah è stimato in 200.000 uomini. Se è così, allora sarà senza dubbio difficile per i generali Benny Gantz e Gadi Eisenkot lasciare la coalizione di governo nonostante l’ultimatum che Gantz ha dato a Netanyahu di definire un piano d’azione per il dopoguerra entro l’8 giugno.

 

Le manifestazioni filo-palestinesi nelle università europee e americane, uno degli ultimi esempi è stato il tentativo di impedire la partecipazione di Elie Barnavi a una conferenza prevista per il 3 giugno presso l'Università Libera di Bruxelles, costringendo al trasferimento in un'altra sala sotto scorta, mi hanno spinto a scrivere questi pochi pensieri.

 

Le generazioni che si sono succedute dagli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di impegnarsi contro guerre paragonabili a quella del Vietnam – una guerra “imperialista” condotta dalla superpotenza americana contro un paese povero del continente asiatico. Con l’eccezione della guerra in Iraq, contro la quale i giovani occidentali hanno manifestato, le cause che li hanno mobilitati negli ultimi anni sono state generalmente cause sociali o ecologiche.

Gli anni di pace che l’Occidente ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale hanno fortunatamente risparmiato ai suoi giovani il confronto diretto con la guerra. Tuttavia, la guerra è lungi dall’essere scomparsa dal pianeta. Non si possono più contare quelle che hanno devastato il continente africano, l’Asia, l’America Latina o il Medio Oriente, nella quasi indifferenza della gioventù occidentale, nonostante i milioni di morti di tutsi, sudanesi, siriani, curdi e uiguri, sahrawi, yemeniti, congolesi … E la guerra che, da due anni, vede una democrazia nel cuore dell’Europa attaccata dal suo vicino russo, non mobilita nemmeno le masse nelle strade delle capitali occidentali.

 

Quando si è verificato il barbaro attacco commesso da Hamas il 7 ottobre sul territorio israeliano, le immagini filmate e trasmesse in diretta dagli stessi aggressori hanno turbato per diverse ore tutti quelli che le hanno viste. Ma, dal primo bombardamento effettuato in risposta dall’esercito israeliano a Gaza, queste immagini sono state cancellate, al punto che alcuni cominciarono addirittura a dubitare della loro veridicità. E le manifestazioni di sostegno all’uno o all’altro campo non si sono fatte attendere.

 

Non è certo la prima volta che il conflitto mediorientale infiamma gli animi e si impone nel dibattito pubblico in Occidente. Ma le manifestazioni non avevano mai raggiunto un tale livello di mobilitazione, soprattutto tra quei giovani che sostengono la causa delle vittime palestinesi ignorando le vittime dell’altra parte.

Come spiegare questo «doppio standard» tra, da un lato, un silenzio assordante di fronte alle guerre vicine o lontane, e, dall’altro, le reazioni alla guerra in corso tra israeliani e palestinesi? C’è innanzitutto un punto comune tra questa guerra e quelle intraprese dagli Stati Uniti in Vietnam o in Iraq: una democrazia “potente” si oppone a una popolazione “più debole”. In Occidente è ovviamente facile, e soprattutto potenzialmente più efficace, manifestare contro una democrazia che contro una dittatura. Manifestare contro la guerra in Ucraina o i massacri degli uiguri in Cina difficilmente disturberebbe i regimi di Putin o Xi Jinping.

 

Non ho dubbi sul grado di impegno degli attuali manifestanti a favore della causa palestinese. Ma noto che, mobilitandosi contro di lui, questi manifestanti riconoscono che lo Stato di Israele, nonostante le sue imperfezioni, appartiene alla famiglia delle democrazie liberali e che possiamo quindi sperare di spingere il suo governo a cambiare la sua politica. Gli israeliani, del resto, fanno la stessa cosa. Lo hanno dimostrato durante tutto l’anno scorso, riunendo ogni settimana diverse centinaia di migliaia di manifestanti – l’equivalente di altrettanti milioni in tutta la Francia – contro una riforma giuridica che metteva in discussione i poteri della Corte Suprema, che il governo voleva fosse adottata. E gli israeliani continuano a manifestare anche oggi per chiedere il rilascio degli ostaggi o le elezioni anticipate.

 

Un’altra spiegazione di questo «doppio standard» mi sembra molto più preoccupante in termini di conseguenze. Nasce da una lettura manichea del conflitto, con, da un lato, la parte dei «buoni», dei «deboli», dei «non bianchi», degli «oppressi», dei «non occidentali» e, dall'altro, la parte del «malvagio», del «forte», del «bianco», del «colonialista», dell’«occidentale»… Una visione così semplicistica, frutto della cultura wokista oggi in voga, promette disgrazie attuali e future per entrambi popoli. A questi manifestanti che aspirano soprattutto a stare dalla «parte buona» vorrei ricordare ciò che ha scritto Amos Oz sul conflitto in «Aiutateci a divorziare! Israele-Palestina, due Stati adesso», Gallimard 2004.[1]

 

A ciò si aggiunge, purtroppo, un’altra lettura che non mi aspettavo più di vedere emergere con questa forza nel dibattito pubblico: la rinascita dell’antisemitismo. Ci eravamo abituati (anche se non rassegnati) alla presenza dell’antisemitismo nelle frange nauseanti dell’estrema destra.

Ma oggi la parola «sionista» viene usata al posto della parola «Ebreo» per attaccare chiunque, israeliani o cittadini Ebrei che vivono nella diaspora, sostenga il diritto degli israeliani a difendere il proprio Stato – anche coloro che criticano la politica del loro governo nei confronti dei palestinesi. E questo non inganna nessuno.

Perché cosa significa la parola «sionista»? Significa riconoscere che gli Ebrei hanno diritto al loro Stato, anche perché lì si è radunata la metà del popolo ebraico e buona parte di coloro che vivono nella diaspora vi sono indefettibilmente legati. E non riconoscere questo diritto equivale ad antisemitismo, quando il movimento sionista ha al suo interno, come tutti i movimenti nazionali, tanti sostenitori sia di destra sia di sinistra – e questi ultimi da anni si battono per uno Stato palestinese accanto a Israele.

Constatare che oggi, in Francia, è tra i cittadini che affermano di appartenere ad una certa sinistra che il discorso antisionista è sempre più dominante, è molto preoccupante per il futuro delle nostre democrazie e per quello della sinistra. E il fatto che alcune persone sostengano questo discorso per elettoralismo – o, peggio, sotto l’influenza degli islamisti – è ancora più preoccupante.

[Di David Chemla. Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari] – David Chemla è membro fondatore, con Alain Rozenkier, dellAssociazione “La Paix Maintenant”.

 

 

 [1]

Questa non è una lotta tra il Bene e il Male. Si tratta piuttosto di una tragedia nel senso antico del termine, di un conflitto tra due cause uguali l'una e l'altra... I palestinesi sono in Palestina, perché la Palestina è la patria, e l’unica patria, del popolo palestinese…. Gli Ebrei israeliani sono in Israele, perché non c’è nessun altro paese al mondo che gli Ebrei, come popolo, come nazione, possano chiamare la loro patria…. I palestinesi vogliono il paese che chiamano Palestina. Hanno buone ragioni per volerlo. Gli Israeliani vogliono esattamente lo stesso paese, esattamente per le stesse ragioni…. Ciò si traduce in una tragedia… Ciò di cui abbiamo bisogno è un compromesso doloroso…. Per me la parola compromesso significa vita. Il contrario significa fanatismo e morte…. Compromesso significa che il popolo palestinese, come il popolo ebraico israeliano, non sarà mai più schiacciato e umiliato”. E Amos Oz conclude dicendo agli europei: «Se avete il più piccolo slancio di aiuto e di simpatia da offrire, che non vada all'uno o all'altro, ma a entrambi. Non dovete più scegliere tra filo-israeliani o filo-palestinesi, dovete essere a favore della pace ».