Legambiente Circolo Verdeblu di Casale Monferrato, in collaborazione con il Comune di Casale Monferrato e l’Afeva (Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto), in occasione del compleanno del Parco Eternot e delle udienze al Tribunale di Novara, Processo ETERNIT BIS, ritiene importante organizzare il 19 settembre 2021 un evento pubblico - che segue quello del 10 Settembre 2021. Il 19 settembre 2021 verranno consegnate le piante di Davidia Involucrata Sonoma, Premio Eternot per la Cultura.

La Davidia Involucrata è nota come albero dei fazzoletti, o albero delle anime, o albero delle colombe.

 

Chi ha avuto la fortuna, almeno una volta nella vita, di trovarsi, in un giorno di aprile sotto un grande albero di Davidia involucrata, quando i suoi petali bianchi cadono a terra, difficilmente dimentica la bellezza e la struggente poesia di quel momento.

Davidia involucrata è un grande albero che si alza e si allarga con dei rami possenti e irregolari anche per 20 metri. Le sue foglie sono ovate e appuntite con una dentellatura molto marcata, e sin qui niente di eccezionale sino a quando non si assiste alla sua fioritura. Questa è talmente abbondante da far assumere alla pianta un colore bianco verdastro anche da lontano. I veri fiori sono piccoli e insignificanti ma alla base portano un calice formato da due brattee in posizione opposta. Una di queste, la più grande, ha la stessa esatta forma delle foglie che riproduce curiosamente in ogni più piccolo dettaglio: nella dimensione, nelle nervature, nelle dentellature, tanto da sembrare anch’essa una foglia, ma di colore bianco latte.

La bellezza di Davidia involucrata è nella sfioritura. Normalmente, in tutte le piante, i petali dei fiori cadono quando appassiscono, in questa pianta invece le brattee si staccano nel momento del loro massimo turgore e cadono a terra dolcemente con intervalli regolari e la delicatezza di un fazzoletto. Sotto e intorno alla pianta si forma un tappeto immacolato, uno spettacolo che dura alcuni giorni, talvolta accentuato da sbuffi di vento che creano vere nuvole bianche.

 

I fazzoletti di padre David

Il nome scientifico del genere è un omaggio a padre Armando David, (1826–1900), missionario francese dell’ordine Vincenziano, che visse a lungo in Cina, e che fu anche un naturalista esperto. Fu proprio padre David a descrivere per primo, nel 1869, l’albero dei fazzoletti, quando ne trovò un unico esemplare sulle montagne della Cina centrale, ad oltre 2000 m di quota.

Riuscì a mandarne a Parigi alcune parti essiccate in erbario per la classificazione, che fu eseguita da Henri Baillon: nuovo genere e nuova specie, ovviamente dedicata a padre David.

Il “cacciatore di piante” scozzese Augustine Henry qualche anno dopo trovò un altro albero nella zona delle Tre Gole, e lo inviò al Kew Garden di Londra.

Una pianta così eccezionale aveva ormai suscitato il desiderio dei botanici d’Europa, così che si decise di mandare un altro cacciatore di piante, Ernest H. Wilson, nella stessa zona dell’esemplare trovato da Henry.

Ma quando Wilson arrivò sul posto, scoprì che quegli alberi erano stati abbattuti per fare legna. Ne trovò comunque degli altri qualche settimana dopo, li raccolse e li portò con sé in nave, destinazione Europa. La quale nave naufragò, ma alcuni alberi dei fazzoletti si salvarono, e finalmente giunsero da noi.

 

Un paradosso? Minacciato in Cina, suo paese d’origine, l’albero fu rivalutato in patria solo a seguito di due viaggi diplomatici in Occidente. Il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese Zhou Enlai, a Ginevra per la Conferenza del 1954, rimase affascinato dagli esemplari in fiore visti nei giardini. Nel 1972 una delegazione cinese ammirò quelli cresciuti di fronte alla Casa Bianca e così, anche da queste due esperienze, l’albero dei fazzoletti iniziò a essere finalmente tutelato nel suo paese.

 

 

 

Si svolgerà dal 12 al 14 settembre a Bologna il G20 Interfaith Forum 2021, una delle più importanti iniziative collaterali al G20, che quest’anno è guidato dalla presidenza italiana. 

Il tema centrale attorno al quale ruoteranno le attività e i lavori del Forum è “Time to Heal”, il tempo della guarigione.

 “L’obiettivo del G20 è quello di costruire uno spazio di incontro e di dialogo, non solo fra capi religiosi, ma anche fra autorità politiche dei Paesi e delle organizzazioni internazionali, autorità spirituali e figure intellettuali su temi e programmi di carattere e rilevanza globale”. 

Il prologo verrà affidato al presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, mentre ad aprire ufficialmente il Forum sarà la lezione del presidente della Slovenia, Borut Pahor, il cui Paese ha la presidenza del semestre europeo.

Interverranno tra gli altri:

Ø il primo ministro dello Sri Lanka, Mahinda Rajapaska,

Ø il presidente del Congresso ebraico mondiale, Ronald S. Lauder,

Ø cui seguiranno i messaggi della Adg delle Nazioni Unite Amina Mohammed

Ø e del patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Nel corso delle giornate saranno promosse attività finalizzate a stimolare la discussione pubblica, grazie all’intervento di figure autorevoli delle relazioni internazionali, di protagonisti dei dibattiti teologici, giuridici e filosofici e dei rappresentanti delle varie comunità di fede e delle organizzazioni attive nel dialogo interreligioso.

Tra i vari interventi previsti anche quelli:

Ø del rav Riccardo di Segni,

Ø e del rav Gady Gronich dell’Ufficio rabbinico europeo,

Ø del giudice Abdel Salam dell’Alto Comitato per la Fratellanza umana di Abu Dhabi

Ø e del card. Giuseppe Betori. 

 

Nel corso del Forum si discuterà fra gli altri una serie di proposte (policy brief) indirizzate al summit e fra esse una breve dichiarazione di impegni comuni – intesa come una sorta di Parva Charta, di sole tre righe:

·        “noi non ci uccideremo”;

·        “noi ci salveremo”;

·        “noi ci perdoneremo”.

Un’assunzione di responsabilità nella quale leader politici, autorità di fede e produttori di conoscenza possono fare ciascuno la sua parte. 

Nel corso della presentazione del programma del forum, il segretario della Fondazione Scire, Alberto Melloni, ha dichiarato: “Se ce ne fosse stato bisogno la crisi afghana ha confermato che le appartenenze religiose consegnano a chi la pratica la responsabilità di fare diventare ciascuna fede una leva di pace e rispetto e di contrastare chi fa l’opposto.

Se IF20 riuscirà a fare scrivere accanto alle tre P del programma del G20 (people, planet, prosperity) la quarta P di pace avrà reso questo appuntamento italiano fecondo”.

 

 

Torah, una lezione di rispetto

di Riccardo Di Segni

 

La lettera del rabbino capo di Roma sulla polemica del Vaticano

 

Caro Direttore,
mentre le nostre preoccupazioni sono concentrate sul Covid e i fatti afghani, sembrerebbe strano distrarci su una piccola recente polemica interreligiosa. Ma l'argomento è di qualche interesse e sono utili delle spiegazioni.

La cosa nasce da un recente commento papale alla lettera ai Galati di Paolo, in cui si parlava del ruolo della legge, la Torah, rispetto alla fede; ne è seguita una protesta.

A

 difesa di Paolo e di chi l'ha citato è stato tirato in ballo anche il Baal Shem Tov (m. nel 1760), il mitico fondatore del Chasidismo in Europa Orientale, con una sua frase sul senso delle azioni; da lui si può cominciare con un'altra sua frase.

Ai tempi del Baal Shem Tov non c'erano trasporti pubblici e bisognava affidarsi a cocchieri sconosciuti. Il Maestro, che viaggiava molto, aveva una regola per decidere chi fosse affidabile. Se il cocchiere, passando davanti a una Chiesa, si faceva il segno della croce, ci si poteva fidare da lui.

P

er il Baal Shem Tov un semplice atto di fede, anche se non ebraica, era una patente di credibilità. Tanto conta, per i grandi Maestri dell'ebraismo, la fede.

La religione ebraica è fatta di regole da osservare, insieme a un sistema di credenze.

Dalle lontane origini fino a oggi, si discute nell'ebraismo sul valore che possa avere l'osservanza dei precetti senza un'adeguata partecipazione spirituale, senza credere.

I Maestri che prima e dopo il Baal Shem Tov hanno sottolineato l'assoluta importanza della fede sono tanti. Ma nessuno di questi si è mai sognato di dire che se non c'è fede non bisogna osservare, e che l'osservanza serva solo a preparare a una nuova fede. Il problema se lo pose il cristianesimo nascente, soprattutto quando dovette trovare una formula per differenziarsi dalla matrice ebraica.

L

a soluzione proposta da Paolo fu, molto semplicemente, che non solo dovesse prevalere la fede, ma che l'osservanza fosse ormai superata; bisognava credere e non si era sottoposti alle leggi della Torah.

In questa sua scelta Paolo richiamava dei temi discussi nell'ebraismo dei suoi tempi, era convinto che tempi nuovi richiedessero riforme radicali, ma dicendo che la Torah era abrogata si metteva fuori dall'ebraismo e creava una religione differente.

Ma oggi che ci importa di queste discussioni di duemila anni fa?

È

 perché possono essere l'oggetto di predicazione al vasto pubblico, aprendo scenari problematici.

Perché riproporre in termini semplificati le contrapposizioni antiche comporta il rischio di confermare stereotipi ostili, nel caso particolare quello dell'ebraismo come religione abrogata e formalistica, tutta doveri, senza spirito, o semplice preparazione, "pedagogia" alla nuova fede.

Trattare questi temi richiede attenzione e valutazione delle ricadute.

Stupiscono anche certe difese di ufficio, in cui si arriva a dei paradossi.

A

 chi ha protestato per il modo in cui sono state spiegate le parole di Paolo, è stato risposto che Paolo voleva solo dire che per lui la Torah senza fede non ha valore, e in questo affermava un principio ebraico. Certamente Paolo ha solidi riferimenti alla tradizione ebraica, ma il suo pensiero è anche rivoluzionario. Non si può dire che il suo pensiero è ebraismo proprio quando propone la sua rilettura radicale della Torah, che gli serve da introduzione a una nuova fede; né affermare oggi che chi difendeva la Torah era un "missionario fondamentalista", termine che in questi giorni andrebbe ben diretto altrove.

Il Baal Shem Tov metteva la fede in primo piano, anche la fede dei non ebrei, ma la Torah non la relativizzava.

Sarebbe utile usare la lezione del BaalShem Tov non per fargli dire cose che non ha mai sognato di dire, ma per insegnare il rispetto reciproco, che in questo caso non c'è stato.

Rabbino Capo, Comunità ebraica di Roma

(02 settembre 2021 – La Repubblica)

 

 

La risposta del Vaticano al Rabbino Rasson Arousi: 

Legge e grazia per ebrei e cristiani

Il commento, pubblicato su L'Osservatore Romano, 30 agosto 2021, dell’arcivescovo di La Plata, Víctor Manuel Fernández, sul compimento della Legge secondo le tradizioni ebraica e cristiana

Q

uando san Paolo parla della giustificazione per la fede, in realtà sta riprendendo profonde convinzioni di alcune tradizioni ebraiche. Perché se si affermasse che la propria giustificazione si ottiene attraverso il compimento della Legge con le proprie forze, senza l’aiuto divino, si starebbe cadendo nella peggiore delle idolatrie, che consiste nell’adorare se stessi, le proprie forze e le proprie opere, invece di adorare l’unico Dio.

È

 imprescindibile ricordare che alcuni testi dell’Antico Testamento e molti testi ebraici extrabiblici mostravano già una religiosità della fiducia nell’amore di Dio e invitavano a un compimento della legge attivato nel profondo del cuore dall’azione divina (cfr. Ger  31, 3.33-34; Ez 11, 19-20; 36, 25-27; Os 11, 1-9, etc.) (1). La “emunà”, atteggiamento di profonda fiducia in Yahweh, che attiva l’autentico compimento della Legge, “è al centro stesso dell’esigenza di tutta la Torah” (2).

Un’eco recente di questa antica convinzione ebraica, che rinuncia all’autosufficienza dinanzi a Dio, si può trovare nella seguente frase del Rabbi Israel Baal Shem Tov (inizio del XIX secolo): “Temo molto più le mie buone azioni che mi producono piacere di quelle cattive che mi producono orrore” (3).

L

e tradizioni ebraiche riconoscono anche che per compiere integralmente la Legge occorre un cambiamento che parte dai cuori.  Cristiani ed ebrei non diciamo che a valere è il compimento esteriore di certe usanze senza l’impulso interiore di Dio.  La teologia ebraica in realtà coincide con la dottrina cristiana su questo punto, soprattutto se si parte dalla lettura di Geremia e di Ezechiele, dove appare il bisogno di una purificazione e di una trasformazione del cuore. Come non vedere in Rm 2, 28-29 una continuazione e un approfondimento di Ger 4, 4; 9, 24-25)? Ebrei e cristiani riconosciamo che la sola legge esterna non può cambiarci senza l’opera purificatrice e trasformatrice di Dio (Ez 36, 25-27), che per noi ha già cominciato a rendersi presente nel suo Messia (Gal 2, 20-21). 

D

’altro canto, ricordiamo che secondo la profondissima interpretazione di sant’Agostino e di san Tommaso sulla teologia paolina della legge nuova, la sterilità di una legge esterna senza l’aiuto divino non è solo una caratteristica della Legge ebraica, ma pure dei precetti che lo stesso Gesù ci ha lasciato: “anche la lettera del Vangelo ucciderebbe se non avesse la grazia interiore della fede, che guarisce” (4).

 

Note:

(1)   Il testo di Ab 2, 4, che esprime questo atteggiamento fondamentale, è di fatto citato da san Paolo quando parla della giustificazione per la fede in Gal 3, 11 e in Rm 1, 17.

 

(2)   Cfr. C. Kessler, Le plus grand commandement de la Loi (cit) 97. Bisogna dire qui che le affermazioni di Paolo su una “caducità” della Legge si dovrebbero inserire nel contesto della “dottrina rabbinica degli eoni”, secondo la quale alla fine dei tempi l’istinto del male sarà sradicato dai cuori umani e la legge esterna non sarà più necessaria. Paolo in effetti credeva di vivere nei tempi ultimi e attendeva un ritorno imminente del Messia: “Paolo era un fariseo convinto di vivere in un tempo messianico”: H.J. Schoeps, Pau1. The theology of the Apostle in the light of Jewish religious story, Philadelphia, 1961, p. 113. Per questo motivo, in 1 Timoteo, quando l’attesa di una venuta imminente si era molto mitigata, la legge acquisì maggiore importanza (cfr.  8-9).

 

(3)    Citato da E. Wiesel, Celebración jasídica, Salamanca, 2003, p. 58; Celebrazione hassidica, Milano, 1987.

 

      (4) San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, domanda     106, articolo 2.

Víctor Manuel Fernández

 

CATECHESI SULLA LETTERA AI GALATI – La Legge di Mosè.

… Seguono i saluti in lingua:  francese, inglese, tedesca, spagnola, portoghese, araba e polacca.

 

Le frasi del Papa sulla Torah aprono un caso con il Gran Rabbinato: i Rabbini chiedono al Papa chiarimenti sulle sue frasi sulla Torah. La lettera è stata inviata al cardinale Koch. Le autorità ebraiche si dicono preoccupate e trasmettono la loro "angoscia" a Francesco.

 

 

 

IL PAPA: «NON È LA LEGGE CHE SALVA, MA GESÙ»

18/08/2021  (Famiglia Cristiana, 18 agosto 2021  

 

 

P

apa Francesco, nella udienza svolta nell’aula Paolo VI, parte dalle parole dell’apostolo Paolo per spiegare che la sola osservanza della legge non porta la salvezza. Un discorso delicato in cui il Pontefice chiarisce che non si tratta di disprezzare la legge o di non osservarla, ma di fare un passo oltre. Di considerare i comandamenti come spiega Paolo: un pedagogo, cioè quello che, in quei tempi, accompagnava i fanciulli a scuola perché non prendessero cattive abitudini, colui che ne sorvegliava i comportamenti. 

«L’Apostolo», dice Francesco, «sembra suggerire ai cristiani di dividere la storia della salvezza in due, e anche la sua storia personale, sono due momenti: prima di essere diventati credenti e dopo avere ricevuto la fede. Al centro si pone l’evento della morte e risurrezione di Gesù, che Paolo ha predicato per suscitare la fede nel Figlio di Dio, fonte di salvezza. È in cristo Gesù che noi siamo giustificati, siamo giustificati per la gratuità della fede in Cristo Gesù». E, dunque, «la legge c’è, i comandamenti ci sono ma ci sono due atteggiamenti, prima e dopo Gesù.

La storia precedente è determinata dall’essere “sotto la Legge”, chi andava sotto la legge si salvava; quella successiva va vissuta seguendo lo Spirito Santo». Essere sotto la legge significa essere schiavi, «il significato sotteso comporta l’idea di un asservimento negativo, tipico degli schiavi, essere sotto.

 L

’Apostolo lo esplicita dicendo che quando si è “sotto la Legge” si è come dei “sorvegliati” e dei “rinchiusi”, una specie di custodia preventiva. Questo tempo, dice San Paolo, è durato a lungo, da Mosè alla venuta di Gesù, e si perpetua finché si vive nel peccato».

La legge, dice ancora il Papa, «porta a definire la trasgressione e a rendere le persone consapevoli del proprio peccato. Hai fatto questo, i comandamenti e la legge dice questo, sei nel peccato», ma, aggiunge Paolo: «Quando eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge». Ed è venuta «la giustificazione di Cristo». In questo contesto «acquista il suo senso pieno il riferimento al ruolo pedagogico svolto dalla Legge. 

La legge è il pedagogo che ti porta dove?  A Gesù.  Nel sistema scolastico dell’antichità il pedagogo non aveva la funzione che oggi noi gli attribuiamo, vale a dire quella di sostenere l’educazione di un ragazzo o di una ragazza. All’epoca, si trattava invece di uno schiavo che aveva l’incarico di accompagnare dal maestro il figlio del padrone e poi riportarlo a casa. Doveva così proteggerlo dai pericoli e sorvegliarlo perché non assumesse comportamenti scorretti. La sua funzione era piuttosto disciplinare. Quando il ragazzo diventava adulto, il pedagogo cessava dalle sue funzioni. Il pedagogo al quale si riferisce Paolo non era l’insegnante».

Francesco spiega che «riferirsi alla legge in questi termini permette a San Paolo di chiarificare la funzione da essa svolta nella storia di Israele. La Torah, cioè la legge, era stata un atto di magnanimità da parte di Dio nei confronti del suo popolo. Certamente aveva avuto delle funzioni restrittive, ma nello stesso tempo aveva protetto il popolo, lo aveva educato, disciplinato e sostenuto nella sua debolezza. La Torah ci ha messo in cammino». 

M

a poi occorre diventare adulti. È lo stesso Apostolo che scrive: «Per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, benché sia padrone di tutto, ma dipende da tutori e amministratori fino al termine prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo».

Insomma, aggiunge il Papa, «la convinzione dell’Apostolo è che la Legge possiede certamente una sua funzione positiva, portare come pedagogo avanti, ma una funzione limitata nel tempo. 

Non si può estendere la sua durata oltre misura, perché è legata alla maturazione delle persone e alla loro scelta di libertà. Una volta che si giunge alla fede, la Legge esaurisce la sua valenza propedeutica e deve cedere il posto a un’altra autorità.

Q

uesto cosa vuol dire? Che è finita la legge? Che crediamo in Gesù Cristo e facciamo quel che vogliamo? No, i comandamenti ci sono, ma non ci giustificano, quello che giustifica è Gesù Cristo. I comandamenti non ci danno la giustizia. Osservare i comandamenti, ma come aiuto all’incontro con Gesù Cristo, l’unico merito è aprire il cuore a Gesù Cristo».

Non bisogna cadere in equivoci: «la legge è molto importante e merita di essere considerata con attenzione per non cadere in equivoci e compiere passi falsi. Ci farà bene chiederci se viviamo ancora nel periodo in cui abbiamo bisogno della Legge, o se invece siamo ben consapevoli di aver ricevuto la grazia di essere diventati figli di Dio per vivere nell’amore. Come vivo io? Nella paura del se non faccio questo andrò all’inferno o nella gioia della gratuità della salvezza in Gesù Cristo? E anche la seconda: disprezzo i comandamenti? No, ma sapendo che quello che mi giustifica è Gesù Cristo».