ETZ HAIM - IL NATALE DEL RABBINO [2019]

di Rav Haïm Fabrizio Cipriani

 

Anche quest'anno il vostro rabbino si unisce alla gioia di tutti coloro che festeggiano il Natale. Continuo a pensare che le posizioni chiuse siano sempre e solo un segno di debolezza, e che sia possibile, e opportuno, condividere il più possibile.

Ma la condivisione è un’arte sottile, che va esercitata con sapienza.

Fra le belle esperienze di quest’ultimo periodo, ho avuto il piacere di partecipare come violinista ad alcuni concerti natalizi e questo mi ha dato molta gioia. Prima, nella gradevole cornice delle isole Canarie, ho preso parte a un’esecuzione partecipativa del Messia di G.F. Haendel. Le esecuzioni partecipative sono progetti molto belli, presenti in alcuni paesi europei (ma purtroppo non in Italia, per quanto io ne sappia) in cui un grande numero di coristi amatoriali selezionati su audizione viene preparato da alcuni maestri in diversi luoghi del paese per poi ritrovarsi in un grande concerto che però amatoriale non è, perché la corale partecipativa va ad accompagnarsi a un coro e un'orchestra da camera di specialisti di alto livello nell’interpretazione del grande oratorio haendeliano, Il Messia. Non è la prima volta che partecipo a questo tipo di iniziative, che hanno un valore umano, sociale e spirituale molto elevato. Peraltro, l’anno scorso a Madrid la produzione cadeva durante Hanuccà, una coppia israeliana presente nella corale mi avvicinò e le serate trascorsero all’insegna di untuose Sufganioth (frittelle tipiche di Hanuccà) e di accensioni di Hanuccà introduttive all’esecuzione haendeliana!

Successivamente ho avuto modo di partecipare a uno dei diversi concerti natalizi che si tengono in Italia, e anche in quel caso di condividere un momento di sincera e schietta spiritualità.

In un registro analogo, il 28 dicembre la mia comunità Etz Haim, per un ebraismo senza mura, organizza insieme agli amici Valdesi un’accensione di Hanuccà aperta a tutti (come tutte le iniziative che organizzo o alle quali contribuisco). Perché come sappiamo, è difficile non accorgersi dell’appropinquarsi del Natale, ma le feste ebraiche si avvicinano generalmente più in punta di piedi e per chi si trova al di fuori di certi ambienti non è facile viverle anche solo un pochino.

Questo però mi porta ad alcune riflessioni.

Ogni situazione che crei i presupposti per una spiritualità condivisa deve essere, a mio avviso, sempre benvenuta. Come già detto, ritengo appunto che non voler condividere sia un segno di debolezza. Per questo io partecipo a questo tipo di iniziative non solo in quanto essere umano, ma anche come ebreo e soprattutto come rabbino, perché ciò corrisponde alle mie convinzioni più profonde.

Attenzione però, perché la condivisione voluta e scelta non è da confondere con l’imposizione. Penso, per esempio, alla presenza di simboli religiosamente definiti all'interno degli spazi pubblici, che dovrebbero invece essere ispirati a una neutralità, per rispetto di tutti. In tal senso trovo poco appropriata la presenza, ancora molto diffusa in diverse classi scolastiche italiane, di avere presepi in aula, oltre agli onnipresenti crocefissi. Diversamente da quanto avviene per un concerto natalizio, o per un’accensione di Hanuccà, gli studenti non hanno facoltà di scegliere se recarsi o meno a scuola, e non dovrebbero essere obbligati a svolgere le loro attività quotidiane a strettissimo contatto con una simbologia religiosa che non appartiene a tutti loro e che in alcuni casi è suscettibile di metterli a disagio.

Scelgo volontariamente di accostare al mio atteggiamento generale questa riflessione, che può apparire un poco “severa”, per ricordare un messaggio che mi è caro: la volontà e il piacere di condividere certi momenti non necessariamente si sposa con un’accettazione acritica di determinate situazioni. Ritengo sia fondamentale saper distinguere la possibilità della condivisione, che deve essere sempre presente, da un atteggiamento di imposizione della condivisione che, anche qualora nasca da una volontà sincera e pura, può trasformarsi in una mancanza di rispetto. Questo vale anche nella sfera individuale, laddove si desideri condividere la passione per il calcio, la musica, o un certo tipo di cucina.

Il pensiero ebraico si costruisce a partire da un’idea di distinzione, perché ritiene che le differenze non debbano essere tollerate, ma amate e celebrate. Affinché questo sia possibile, è necessario saperle riconoscere, e rispettarle appieno, senza confusioni sincretistiche. Solo in questo modo, e in assenza di ogni tipo di coercizione esplicita o implicita, è possibile condividere davvero la gioia e la fratellanza.

Forse la scuola potrebbe impegnarsi di più per far conoscere la diversità (non solo religiosa, ma a tutti i livelli), piuttosto che celebrare un solo modo di essere, usando un linguaggio semplificato che finisce per falsare le cose. Questo formerebbe dei cittadini più coscienti, e più critici nei confronti di atteggiamenti come quello, impregnato del più classico antigiudaismo, usato ieri da una nota ma ignorante scrittrice sulle pagine di uno dei maggiori quotidiani italiani. Perché la scuola non deve celebrare l'uniformità, ma formare alla complessità.

Ciò detto, se il cammino da fare è ancora lungo, molti passi sono stati compiuti, altrimenti io non starei scrivendo queste parole, e voi non le leggereste. Quindi siamo vicini, e questo è prezioso. Ma ripeto, la condivisione è un’arte, e come ogni arte va esercitata con saggezza e discernimento.

A tutti gli amici cristiani auguro un sereno e gioioso Natale, a tutti gli amici ebrei Hanuccà Saméach, a tutti coloro che in questo periodo non festeggiano nulla di particolare, auguro di saper celebrare il loro quotidiano con la stessa gioia.

Un augurio di Luce, Calore e Serenità per tutti noi e per ognuno di noi.

Rabbino Haïm Fabrizio Cipriani

 

 

ETZ HAIM - IL NATALE DEL RABBINO [2018]

di Rav Haïm Fabizio Cipriani

 

Per molti ebrei il periodo natalizio è fonte di imbarazzi, specie nelle società occidentali di cultura cristiana. Non vi è nulla di strano, considerando il pesante retaggio di soprusi e oppressioni varie perpetrate per millenni nei confronti degli ebrei, ritenuti colpevoli di non aver accettato il Cristianesimo.

Ritengo però che oggigiorno questo periodo sia importante anche per ricordarci quanta strada sia stata fatta verso una reciproca comprensione. Ci riflettevo negli ultimi giorni perché le letture sinagogali del mese di dicembre comprendono sempre la vicenda biblica di Yosef, Giuseppe, l’amato figlio di Yaakov, prima odiato e quasi ucciso dai suoi fratelli, ma che sarà poi in grado, con grande sforzo e con enorme coraggio, di tracciare il cammino di una riconciliazione a priori quasi impossibile.

Questo mi fa pensare al cammino di dialogo e riconciliazione che è stato condotto a partire da quando, nel 1965, il Concilio Vaticano II approvò la dichiarazione Nostra aetate, che condannava con forza l'antisemitismo e la teoria del deicidio, cioè della responsabilità del popolo ebraico nella morte di Gesù. Tale cammino è stato portato avanti in modo proficuo e sincero. Il progetto di conversione degli ebrei, che aveva animato due millenni di cultura cristiana, è da allora stato formalmente abbandonato. Certamente secoli di incomprensioni non possono essere colmati in pochi anni, ma personalmente io sono molto felice di questo cammino, e ho spesso intrattenuto con persone cristiane, fra cui diversi ministri di culto, relazioni di grande spiritualità e di profondo rispetto. Con queste persone ho condiviso profondi momenti di riflessione, ma talvolta anche momenti festivi come quelli natalizi, proprio come ho avuto sovente la gioia di accogliere sacerdoti o pastori (oltre, naturalmente, a moltissime persone di ogni religione) in celebrazioni ebraiche da me presiedute.

Recentemente S.E. Cardinale Gianfranco Ravasi ha scritto una interessante e ricca prefazione per uno dei miei prossimi libri, e atti come questo hanno per me un valore importante.

In una società aperta e fluida, come la nostra vorrebbe e dovrebbe essere, ritengo importante che ebrei, cristiani e musulmani possano condividere apertamente alcuni aspetti della loro spiritualità.

La mia umile opinione è che ciò possa avvenire con maggiore efficacia quando viene riconosciuta la piena differenza e alterità, piuttosto che quando vengono ricercate a tutti i costi convergenze che spesso sono solo superficiali.

Spesso viene sottolineato che Gesù era un ebreo, probabilmente un rabbino, che insegnava agli ebrei e dichiarava di non voler modificare minimamente la Torah, meno che mai fondare una nuova religione. Se da un lato ciò è di grande interesse storico, dall’altro dobbiamo ricordarci che la storia è andata diversamente. Il Cristianesimo non è una forma di ebraismo, ma semplicemente si è trasformato in un’altra entità pienamente autonoma, con radici decisamente diverse, giacché l’ebraismo è una cultura di matrice orientale, mentre il Cristianesimo si costruisce su basi ellenistiche. Certamente però l’ebraicità di Gesù è un aspetto che le autorità cristiane, e molti cristiani anche osservanti, hanno iniziato a prendere molto sul serio per riscoprire aspetti della loro cultura che consideravano trascurati.

Nella concezione e creazione di Etz Haim, la mia community per un ebraismo senza mura, ho meditato a lungo su quale potesse essere il ruolo di persone non ebree, ma a volte anche pienamente cristiane. Alcuni, sia ebrei sia cristiani, mi avevano consigliato di creare un gruppo a parte dedicato a loro. Ma in fatto di spiritualità io trovo molto limitativo e ingiusto creare questo tipo di discriminazioni. Per questo ho desiderato che Etz Haim fosse un gruppo a carattere ebraico, ma dove persone con background estremamente vari possono condividere un interesse profondo per l’ebraismo, che studiano e vivono nel modo a loro più appropriato.

Molti dei nostri membri non ebrei danno prova di un interesse e di una volontà di approfondimento dell’ebraismo assolutamente straordinari, e per me è fondamentale che non siano isolati, dopo che per molto tempo hanno cercato con difficoltà luoghi dove poter approfondire l’ebraismo. Questa è una delle caratteristiche più peculiari e preziose, di Etz Haim, l’unico gruppo di mia conoscenza in cui ebrei che osservano le leggi ebraiche, come lo Shabbat e le norme alimentari di Cashrut, ebrei non osservanti, cristiani praticanti e persone totalmente atee si mescolano nello studiare testi ebraici e talvolta nel celebrare momenti di vita ebraica come lo Shabbat o altre feste. Questa diversità conferisce al nostro lavoro ricchezza e spessore, e crea un’area dove alla diffidenza si sostituisce la conoscenza. Operare in questo senso ha sempre fatto parte dei miei fini, e sono lieto di poter contribuire anche solo un poco a questo.

 

 

 

 

 

 

 

Parashat Shemot: il nome essenziale di Dio

L'indagine di Mosè sul nome di Dio rivela la qualità essenziale di come Dio si manifesta nel mondo.

 

 

Alcuni dei misteri di Parashat Shemot. 

La parte inizia con questo versetto: "Questi sono i nomi (shemot) dei figli d'Israele che vennero in Egitto con Giacobbe". Per questo sia la porzione settimanale che il secondo dei cinque libri di Mosè sono chiamati Shemot. L'essenza di questo intero libro della Torah è rivelata nel suo nome. Bereshit (Genesi) si riferisce all'inizio della creazione, eppure l'intero libro racconta la storia della genesi del popolo ebraico. Vayikra (Levitico, ma letteralmente "e chiamò") è così chiamato per Dio che chiama Mosè, tuttavia l'intero libro racconta la storia di come Dio ci chiama e di come rispondiamo alla chiamata attraverso le mitzvot. Quindi, mentre "shemot" si riferisce ai nomi elencati nel capitolo uno, un nome in particolare ci dà l'essenza del libro dell'Esodo, l'essenza di tutti gli shemot. 

Nel terzo capitolo, Mosè incontra Dio nel roveto ardente e riceve la direttiva di andare in Egitto e chiedere al faraone di lasciar andare gli israeliti. Interroga Dio: “Quando vengo dagli Israeliti e dico loro: 'Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi', ed essi mi chiedono: 'Qual è il suo nome?' Cosa dirò loro?". E Dio disse a Mosè: "Ehyeh-Asher-Ehyeh" (Esodo 3:14). La risposta di Dio è solitamente tradotta come "Io sono ciò che sono" o, letteralmente, "Sarò ciò che sarò". 

Il filosofo spagnolo medievale Ramban ha osservato che questo scambio non ha senso a livello superficiale. Se Mosè dice questo nome agli Israeliti e loro lo riconoscono, allora presumibilmente Mosè conosce già anche quel nome. E se è un nome sconosciuto a Mosè, allora sarà sconosciuto anche agli Israeliti, che non potrebbero trarne alcun conforto. 

Ramban spiega che Mosè non sta semplicemente chiedendo di conoscere il nome personale di Dio, ma quale degli attributi spirituali di Dio lo sta inviando. È l'attributo di Dio del chesed , della gentilezza amorevole, che era presente per Abramo? È l'attributo di Dio di gevurah , di forza e potenza, che era presente per Isacco? Mosè capì che Dio aveva molti nomi e attributi attraverso i quali Dio si interfaccia con l'umanità. La domanda di Mosè esprimeva il suo desiderio di sapere quale energia, quale manifestazione di Dio, stava incontrando.

Dio risponde a questo dicendo: "Sarò quello che sarò". Ciò significa che apparirò loro nel modo in cui apparirò loro. Questo per dire che non c'è un modo singolare in cui Dio incontrerà gli Israeliti. Ognuno sperimenterebbe diversi aspetti di Dio: amorevolezza, salvezza, forza, perseveranza, tutto ciò che è necessario per portarli alla libertà. Ciò afferma quanto abbiamo visto altrove nella Torah, i vari modi personali in cui Dio ha interagito con le figure bibliche. Tuttavia, è lo stesso che affermiamo con le parole della preghiera Shema, quando dichiariamo Adonai Eloheinu, Adonai Echad: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno.

Rabbi Yosef Gikatilia, nella sua opera Sha'arei Orah (Porte di Luce), definisce oltre 300 nomi che riflettono i vari attributi attraverso i quali Dio interagisce e si manifesta all'interno dell'universo. Eppure l'essenza di tutto questo è l'energia del nome Ehyeh. È la linfa vitale di ciascuno degli altri nomi ed è attratto in ciascuno di essi per caricarli di tutta l'energia necessaria per manifestare aspetti particolari dell'essere di Dio. 

Questa energia illimitata e abbondante sta inviando Mosè al popolo e si manifesterà in qualsiasi modo necessario per completare la sua missione. Dio informa Mosè di questo anche prima che lo chieda, quando Dio dice "Perché Ehyeh è con te". Dotato di questo potere espansivo, Mosè non può fallire. 

Rabbi Tiferet Berembaum

https://www.youtube.com/watch?v=uKVMngnkKp8

Il processo del secolo a Parigi serve alla verità e alla memoria. L’attentato al Bataclan del 13 novembre 2015 ha prodotto la necessità di costruire un racconto condiviso come argine al terrorismo. Fondamentale è il ruolo «civile» dei testimoni nel procedimento giudiziario. L’8 settembre scorso si è aperto in Francia, con la prima udienza, il 'processo del secolo' per gli attentati terroristici avvenuti poco più di sei anni fa, nella notte del 13 novembre 2015, al Bataclan, allo Stadio di Francia e in alcuni caffè di Parigi che costarono la vita a 130 persone e le ferite di altre 350 vittime, cittadini di 26 diverse nazionalità. A rendere unico il processo non solo i numeri: il milione di pagine che conta tutta l’istruttoria o le ben 1.800 parti civili, il peso e il valore di un evento di questo tipo risiede piuttosto nella lunga scia di testimonianze, nelle deposizioni delle vittime, come è stato per la Shoah. Il ministro francese della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, ha detto: «Il mondo intero ci guarda». Ma nel senso di voler imprimere nel processo un modello di virtù e una lezione per tutti; in analogia con quanto occorso in almeno altri due processi del XX secolo al cui centro sono state poste le testimonianze delle vittime. Il primo è quello che si aprì sempre in Francia nel 1998 a Bordeaux contro Maurice Papon, accusato di crimini contro l’umanità nel suo ruolo di funzionario del governo filonazista del maresciallo Philippe Pétain. Il secondo, reso ancor più celebre dai reportage di Hanna Arendt poi confluiti ne 'La banalità del male', è stato il processo svoltosi a Gerusalemme 70 anni fa ad Adolf Eichmann, contro l’ex SS-Obersturmbannführer accusato dell’omicidio di milioni di Ebrei. Il punto critico di queste operazioni, su cui dovremmo riflettere e discutere maggiormente, risiede nel paradosso di voler costruire una memoria collettiva e un discorso pubblico comune verso fatti di sangue, come genocidi e terrorismi, che non possono che produrre memorie confliggenti.

 Barbara de Munari

Dopo gli attentati: veglia e torpore

di Rav Haïm Fabrizio Cipriani

 

     L’effetto dello shock che ha seguìto i fatti di Parigi va progressivamente riducendosi, man mano che il tempo passa e la gente ritorna alla cosiddetta normalità.      Ma è proprio adesso, a mente fredda e cuore calmo, che bisogna sapersi interrogare. Sul passato, sul presente, sul futuro.

     Mi pare, infatti, evidente che quanto accaduto in Francia non sia un episodio isolato, ma appena la punta di un iceberg di qualcosa di molto più profondo e grave. Allo stesso tempo, abbiamo potuto osservare enormi movimenti di folla mentre la tempestiva azione del governo francese nell’affrontare la situazione di grave crisi sembra aver rassicurato molte persone.

     Ma è giustificato sentirsi rassicurati da questo? Il nostro istinto di sopravvivenza ci spinge in questa direzione, perché sarebbe difficile, altrimenti, vivere con la consapevolezza di un grande pericolo, mentre ogni essere umano ha bisogno di sentirsi fiducioso per costruire il proprio futuro. Ma l'Ebraismo si è sempre fondato proprio su una buona dose di sfiducia nei confronti degli istinti e delle inclinazioni naturaliLa Torah ci mette in guardia contro tutto questo dicendo:E voi non vi distrarrete seguendo il vostro cuore e seguendo i vostri occhi, dietro i quali vi prostituireste (Numeri 15:39). Ciò che si richiede all'Ebreo, quindi, è di essere sempre vigile e rigoroso riguardo a se stesso e alla sua capacità di negazione e di illusione.

 

     Purtroppo, sovente, gli Ebrei hanno avuto una visione alterata di quella che è la realtà. La Torah ci mostra, infatti, questo popolo liberato dalla schiavitù che passava la maggior parte del suo tempo a lamentarsi e a rimpiangere l’Egitto, il cibo abbondante e la vita tranquilla che vi trascorreva. Si trattava probabilmente di una idealizzazione del passato, che generava una visione ottimistica di un futuro in cui gli Ebrei, tornati in Egitto, avrebbero potuto essere accolti diversamente, in considerazione del fatto che la loro partenza aveva privato questo Paese di un elemento così importante. Come avrebbe potuto l'Egitto, senza gli Ebrei d'Egitto, essere l'Egitto? D’altra parte, il Faraone non aveva forse inseguito i figli di Israele per convincerli a tornare tanto erano importanti?

     Il popolo ebraico nel deserto continua, quindi, a essere attratto dalla calamita egiziana verso la quale desidera tornare, soltanto perché, a causa della durezza del suo lungo peregrinare, ha bisogno di idealizzare l’Egitto che in passato lo aveva accolto, nutrito, apprezzato. Dimenticava che a volte le cose cambiano irrimediabilmente. Questo è ciò che significa la Torah quando, dopo la morte di Giuseppe, dice: "Ma ecco che sorse in Egitto un nuovo Faraone che non conosceva Giuseppe" (Esodo 1:6).

     A volte i tempi e le condizioni sociali cambiano e un luogo che prima favoriva una vita ebraica diventa minaccioso e irto di pericoli. È lecito chiedersi se oggi qualcosa di simile non stia succedendo in Europa, in generale, e in Francia, in particolare.

     Una prima grande domanda che dobbiamo porci è: ma perché sempre gli Ebrei? Siamo ben consapevoli del fatto che tutta l’Europa subisca gli effetti di una crisi che non è esclusivamente economica, ma anche e, soprattutto, identitaria, una crisi che pare rimettere in questione la sua natura e le sue basi democratiche. Tuttavia, gli Ebrei restano sempre, a volte soli a volte in compagnia, nel mirino degli artigiani dell’odio. La risposta classica è: a causa dell’antisemitismo, che si nutre dei conflitti religiosi e intercomunitari, e a causa del conflitto israelo-palestinese. Questa risposta contiene, però, una profonda imprecisione, che sembrerebbe di natura puramente linguistica, ma che ha radici ben più profonde. Quando usiamo la parola "antisemitismo", commettiamo un errore fondamentale. Questo fenomeno che ci segue fin dall'antichità e non ci lascia andare, non è antisemitismo, ma antigiudaismo, che è tutt'altra cosa.    

     Gli Ebrei sono ben lontani dall’essere tutti “semiti”, così come molti semiti non sono affatto Ebrei. Gli Ebrei, cioè, sono presi di mira non tanto in quanto individui o membri di una classe sociale o di un gruppo biologico, ma proprio in quanto portatori e custodi di una cultura, l’ebraismo, che non è semplicemente una religione, né una politica di stato, ma piuttosto un modo di rivolgere il proprio sguardo verso il mondo e verso l’essere umano. Precisamente questo sguardo non è mai stato perdonato all’Ebraismo e agli Ebrei che ne sono i portatori. Come abbiamo appena visto, è in opposizione a noi stessi e ad alcune nostre inclinazioni, ciò che chiamiamo "il cuore" (posso solo raccomandare il lavoro di Monique Lise Cohen su questo argomento: "Gli ebrei hanno un cuore?" Pubblicato da Ed.Vent Terral).

 

     A partire da ciò, l'Ebraismo come cultura (e non solo come religione) si iscrive come forma di opposizione attiva alle diverse forme di idolatria, vale a dire le abitudini, le inclinazioni, il compiacimento che sono al "cuore" delle società umane. È questo aspetto del giudaismo che le società non hanno mai tollerato, poiché alimenta il pensiero libero e critico. L'Ebraismo è essenzialmente iconoclasta, distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli, e nega l'onnipotenza dell'uomo, delle sue istituzioni, dei suoi princìpi e delle sue ideologie elevate al rango di Legge. Ecco perché, quando l'Ebraismo parla di idolatria, tratta di questo atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, che va ben oltre un concetto strettamente religioso.

     Un ebraismo inteso in primis come pratica culturale (e non soltanto come religione da professare) finisce inevitabilmente per decostruire le diverse forme di idolatria, cioè le abitudini, le tradizioni e alcuni dei valori dominanti nelle società dei gentili. È, dunque, questo aspetto che le società non hanno mai tollerato perché foriero di un pensiero critico e libertario.

     L’ebraismo è per sua natura iconoclasta: distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli e nega l’onnipotenza dell’uomo, delle sue istituzioni e di tutti i sistemi di pensiero che possiamo definire “totalizzanti”. 

 

     Contrastare l’idolatria significa proprio favorire un atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, pratica che si spinge ben di là dell’ambito strettamente religioso.

 

        I Saggi hanno spiegato che la parola Sinai è simile alla parola Sin’à, odio (TB Shabbat 89a)sottolineando che questa caratteristica di resistenza e di autonomia dello spirito, che proviene dalla nostra tradizione, avrebbe necessariamente generato una reazione di odio presso gli altri, poiché l’Ebraismo è nella sua essenza spirito di protesta, di disobbedienza e di dissenso e, dunque, atto di resistenza. È per questo che l'imbianchino austriaco che tentò di sterminare gli Ebrei disse che la coscienza era un'invenzione ebraica. Perché l'Ebraismo ha sempre lottato per non permettere che le coscienze si addormentassero con slogan, parole compiacenti, vuote promesse e tutte le diverse strategie che le società e le istituzioni usano per dominare meglio gli spiriti.

     Come Ebrei, la prima risposta che dovremmo dare è quella che realizza questa essenza del giudaismo e la afferma nonostante tutto. È fondamentale che, oltre ad andare oltre la concezione esclusivamente religiosa della vita ebraica, si re-impari la sua forza iconoclasta e dissacrante, perché è questa che vogliono distruggere quando attaccano gli Ebrei, dal momento che l'Ebraismo è in sostanza protesta, disobbedienza, capacità di dissenso e quindi atto di resistenza, e questo si ritrova nella storia biblica fondativa così come nella vita ebraica.

     Il patriarca Abramo lascia il suo paese natale per sottrarsi al modello culturale mesopotamico che vuole che il destino di un uomo sia deciso dagli astri ed è immaginato dai Maestri come un uomo che frantuma letteralmente gli idoli del padre.

     Mosè uccide volontariamente un egiziano per porre l’accento sul fallimento di quel modello sociale che legittima l’ineguaglianza tra gli uomini.

     Prima di uscire dall’Egitto, gli Ebrei devono prendere e custodire per tre giorni un agnello, animale considerato sacro dagli egiziani, per poi sacrificarlo, allo scopo di uccidere simbolicamente l’idolatria in cui si bagnava tutto l'Egitto, compresi gli stessi Ebrei. Idolatria che significa soprattutto elevare a legge divina un modello sociale o politico che permetterebbe di schiacciare, dominare, umiliare l'altro negando la sua legittimità di essere.

     A livello di vita ebraica troviamo la stessa posizione critica. Investire tempo nello studio significa mantenere uno stato di ricerca nonostante una vita moderna sempre più consumata dalla ricerca del divertimento e dell'agio. Mangiare Kosher significa lottare contro una cultura edonistica in cui tutti i piaceri sono consentiti. Pregare significa soprattutto ribellarsi alla tendenza dell'uomo a vedere se stesso onnipotente, o a vedere gli altri uomini in questo modo. Non usare soldi per lo Shabbat è un modo per ribellarsi a tutti i costi alla società consumistica, dove gli esseri umani sono definiti solo dal loro potere d'acquisto.

     L'Ebraismo ha sempre funzionato come forza di resistenza contro ogni omologazione del pensiero e della pratica, e come rifiuto di tutte le idee ricevute.

 

     È quindi estremamente importante che oggi gli Ebrei sappiano essere all'altezza di questa tradizione, mantenendo uno spirito critico e una lucidità che li aiutino a comprendere ciò che tutti sappiamo, ma che tutti noi abbiamo difficoltà ad accettare e a verbalizzare, ovvero:

-Passando dall’antico Egitto alla situazione attuale, vediamo che il modello francese di integrazione è del tutto fallito e non è detto che si riesca a elaborarne uno nuovo prima che sia troppo tardi. Anche l’idea di laicità che è stata sostenuta in questi anni non ha avuto successo, probabilmente perché non è né realistica né ragionevole e, in taluni casi, viene applicata in modo inefficace, infatti, nonostante la proibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, non è raro che nelle scuole della Repubblica gli alunni preparino il Natale per un intero mese scolastico. Questo discorso meriterebbe, naturalmente, un maggiore approfondimento, ci basti dire in questa sede che tale modello assimilazionista, in cui qualsiasi diversità è negata e soffocata nel nome di un malinteso senso dell’uguaglianza, quand’anche non venga ridotto a pura retorica, non possa comunque funzionare in un mondo in cui, al contrario, crescenti disuguaglianze sociali fanno sorgere sempre più la domanda di ricerca di identità, soprattutto tra i giovani che crescono lontano dalle proprie radici senza essere veramente integrati nelle società europee. Il modello francese chiede a ogni gruppo di negare la propria specificità e quindi la propria esistenza “particolare”, richiesta che oggi appare obsoleta e, in fondo, anche assurda. Inoltre, questo modello di laicità, basato su una netta separazione tra la sfera pubblica e quella privata, può difficilmente essere applicato a delle culture che, come l’ebraismo, non sono limitate al campo della religione, finendo quindi con il mettere in evidenza una profonda incomprensione di queste stesse culture.

-Anche dopo i fatti citati, non sembra che il governo e i cittadini francesi abbiano valutato la gravità del processo in corso. Per citare lo storico Georges Bensoussan: “si è fatto come il solito in questo Paese, abbiamo rifiutato di vedere e di dare un nome, abbiamo gettato la polvere sotto il tappeto. Non abbiamo fatto altro che rinviare l’esplosione”.

- Inoltre, nelle grandi manifestazioni che hanno seguìto gli attentati c’erano molti meno “Je suis Juif  che “Je suis Charlie, cosa che non è sfuggita alla stampa internazionale. Questo dimostra che, nonostante tutto, il fatto di essere assassinato poiché Ebreo è un fatto, certamente poco simpatico, ma che rientra nelle abitudini ed è quindi tollerabile, mentre non lo è, nel caso in cui vengano uccisi dei giornalisti (e per fortuna).

- La presenza di alcune personalità politiche all'interno della grande marcia parigina ci ricorda anche che le ragioni della politica prevalgono, e prevarranno sempre sulle altre, il che ha comportato nel recente passato un abbandono degli Ebrei con l'obiettivo di mantenere una pace politica e quindi economica con certe culture e certi paesi. Questa realtà difficilmente cambierà, se si considerano gli equilibri politici, sociali e demografici dell'Europa di oggi e di domani. Il fatto stesso che il presidente della Repubblica abbia affermato, subito dopo gli attentati, che i fanatici "non avevano nulla a che fare con la religione musulmana", mostra chiaramente questa priorità.

     Nel momento in cui i militari iniziano ad abbandonare i luoghi della nostra comunità con sguardo preoccupato e raccomandazioni alla prudenza, credo che sia fondamentale che gli Ebrei sappiano usare quest'arma fondamentale dell'identità che indubbiamente ha guadagnato loro molto odio, ma che è la base della cultura ebraica, cioè l'autonomia della mente e del dissenso.

     Ci sembra, infine, fondamentale che gli Ebrei non si facciano sedurre dagli slogan pronunciati con troppa facilità da alcuni membri del governo e dalle promesse rassicuranti che li accompagnano. Occorre considerare seriamente la possibilità che la Francia, come forse anche altri Paesi europei, possano non essere più luoghi sicuri per i cittadini ebrei. Se alcuni personaggi sono in grado di agire e perpetrare atti terroristici, ciò significa che l'intelligence francese (e forse anche di altri paesi) non è in grado di impedirlo, e dobbiamo abituarci all'idea di aumentare la percezione del pericolo.

     È essenziale non dimenticare che a volte la storia cambia e che, poiché gli Ebrei furono prima accolti e poi rigettati dall'Egitto, è possibile che l'Europa non sia più un luogo adatto per gli Ebrei.

     Queste sono verità dure, sgradevoli da sentire, certo, ma verità necessarie, a mio modesto parere. Non contengono risposte, perché offrirne una significherebbe voler essere un guru del pensiero. Ma questi sono i risvegli necessari per gli Ebrei di oggi, che hanno il dovere di interrogarsi non solo nei confronti di se stessi, ma per le generazioni che li seguiranno, e che rischiano di pagare il prezzo delle loro scelte attuali.

     Non sappiamo dove questi interrogativi ci condurranno, ma nello stesso tempo è bene continuare a interrogarci, senza il timore di dispiacere a qualcuno, né agli uomini né a Dio, che ha mantenuto in vita l’essenza del popolo ebraico.

       Questa essenza si fonda e si costruisce sul dissenso, strumento di vita e di crescita, e non sul consenso, questa rassicurante forma di idolatria che porta al torpore della coscienza. Non è una questione di sopravvivenza, ma qualcosa di più profondo.

     Sopravvivere significa vivere in superficie. Il vero problema è come sopravvivere in un contesto in cui sarebbe impossibile per gli Ebrei vivere ed esprimersi pienamente.

     Per poter rendersi conto della differenza tra questi due concetti, credendo di vivere quando si sopravvive, occorre agli Ebrei di oggi un lavoro e una riflessione profondi, per mantenere uno stato di vero risveglio, e non di torpore.

 

 

http://www.etzhaim.eu/dopo-gli-attentati-veglia-e-torpore/

 

http://haim.cipriani.free.fr/articles_et_podcast_045.htm#Article2

 

 

C

iò che caratterizza il profeta è una vocazione particolare, soprannaturale e imperativa, che lo rende atto, mediante una forma di rapporto diretto con la divinità, a penetrarne le intenzioni e i disegni e che lo obbliga a renderli noti. Il profeta è essenzialmente un mistico.

Così definita, la missione profetica rappresenta l’esaltazione di una personalità “invasa” dallo spirito religioso.

I profeti per eccellenza sono i grandi fondatori o riformatori delle religioni; essi hanno un temperamento fortemente mistico, unito alla foga e alla capacità di agire.

Le persone soggette a queste manifestazioni erano “profeti” nel vero senso etimologico del termine, cioè “parlatori in luogo” di Dio, di cui essi si presentavano come interpreti o strumenti vocali, e il loro carattere morale, sia nell’antico profetismo sia nel nuovo, si riassumeva nei due capisaldi: fede e culto spirituale dell’unico dio Jahweh; pratica della giustizia individuale e sociale in virtù della religione di Jahweh.

 

Del primo caposaldo rendono testimonianza moltissimi episodi dell’antico profetismo: ne è una prova, ad esempio, quasi tutta l’attività di Elia.

Così anche del secondo caposaldo, sempre nel profetismo antico, esistono prove eloquenti: ad esempio, il profeta Nathan rinfaccia al re David il suo adulterio con Bethsabea e la sua ingiustizia nei confronti di Uria; mentre il profeta Elia redarguisce il re Acab per il suo misfatto ai danni di Naboth.

Spesso, poi, i due capisaldi si compenetrano: ad esempio, il profeta Achia predice a Geroboamo che succederà a Salomone nella maggior parte dei suoi dominii, in punizione dell’idolatria di Salomone, ma anche del suo fiscalismo oppressivo che gli aveva alienato gli animi di moltissimi sudditi.

 

In mezzo a quella società, essenzialmente teocratica, si faceva avanti il profeta, affermando che veniva da parte di Jahweh e per “parlare in luogo di lui”; da qui anche la sua autorità presso i suoi ascoltatori, i quali, come membri di una società teocratica, non potevano negare credito – almeno in teoria – al “parlatore in luogo di”.

Nulla perciò – sempre in teoria – sfuggiva alla sua autorità spirituale.

Davanti a lui, i re e i sacerdoti di Jahweh non valevano più del pastore che adorava Jahweh pascolando il suo gregge; la reggia e il tempio di Gerusalemme potevano riecheggiare delle invettive di un profeta che rinfacciava abusi e corruzione; il profeta poteva presentarsi improvvisamente in una festività pubblica e proclamare castighi divini, rinfacciando a tutti i comuni delitti o la colpevole negligenza per il decoro del tempio.

Il profeta era, infatti, l’uomo di Dio.

Ciò che diceva era un detto di Dio stesso, era un oracolo di Jahweh, e dunque la parola di Jahweh.

 

I profeti autentici, a differenza degli pseudo-profeti, furono spesso in contrasto con l’opinione pubblica, in forza appunto della loro missione.

Quando la purezza della religione jahvistica era inquinata da culti sincretistici e da pratiche idolatriche, quando il popolo riponeva una fiducia feticistica su oggetti e riti liturgici, il profeta proclamava che tutte queste cose non valevano nulla per se stesse e potevano essere distrutte e abolite da Jahweh, che solo ricercava attraverso di esse lo spirito e la purezza di cuore; quando, a scapito del carattere nazionale-religioso del popolo di Jahweh, si stringevano alleanze con potenti regni idolatrici, e quando agli austeri costumi del puro jahvismo subentrava la corruzione morale dell’individuo e dunque della società, il profeta interveniva, esecrando quelle alleanze, denunciando la corruzione, annunciando gli imminenti castighi divini sugli individui e sulla società.

 

Naturalmente, questa incessante censura dava fastidio e spesso, nonostante la sua indiscussa autorità morale, il profeta veniva ucciso: il parlatore in nome di Dio proseguiva imperturbabile a parlare, minacciando ed esecrando, e il popolo, a un certo punto, fingeva di dimenticare il carattere e la natura di quel parlatore e lo lapidava o lo rendeva oggetto di continue persecuzioni.

Era nota la prospettiva che attendeva il profeta nella sua missione e ciò può spiegare la titubanza o la riluttanza di qualche profeta ad assumere la missione profetica.

Amos mostra stupore per essere stato scelto come profeta, da pastore qual era; Giona manifesta una vera riluttanza alla missione profetica; Geremia si lamenta del peso del suo compito, vorrebbe quasi liberarsene, e chiama Dio il suo “seduttore” (Geremia, XX, 7-9).

Però poi tutti si arrendono, perché la “parola di Jahweh”, che costituiva l’impulso della loro missione, era “nel cuore come un fuoco divoratore, racchiuso dentro le ossa” (Geremia, XX, 9), cui nessuno poteva sottrarsi.

Poiché “… se il Signore Jahweh parla, chi non profetizzerà?” (Amos, III, 8).

 

Quanto vi fu di più nobile nell’ebraismo fu salvato principalmente dai profeti e da essi trasmesso alle epoche successive.

Di questa somma importanza spirituale erano consci i profeti, ma anche il popolo, tra l’uno e l’altro di quei suoi scatti furiosi che finivano con la lapidazione del profeta.

I profeti avevano più volte paragonato la loro missione a quella delle vedette che dall’alto delle torri spiano il nemico, o delle sentinelle notturne che vigilano sulla sicurezza dell’accampamento; così il popolo sapeva per esperienza che, nei momenti decisivi della vita nazionale, compariva inesorabile il profeta, che redarguiva, minacciava, correggeva, esortava.

E fu così che quando, con il tramonto del profetismo, quelle voci si udirono sempre più raramente e poi tacquero, il popolo rimase smarrito, e ripensò a loro con desiderio accorato, e ne venerò sempre più la memoria e i sepolcri.

 

Il profeta Isaia parla molto del futuro, però questa non è l’essenza del suo ruolo. L’essenza del ruolo in senso biblico è che il profeta è qualcuno che “parla nel nome di Dio” e il rapporto tra Dio e il suo popolo è basato su un’alleanza: “Il patto”. 

Il profeta è qualcuno che richiama il popolo di Dio a rispettare i termini dell’alleanza, stabilita da Dio.

Lo sfondo del libro di Isaia è il libro del Deuteronomio, che è la base della letteratura profetica poiché è il libro del patto dell’alleanza.

Le parole pronunciate da Isaia sono chiare e richiamano il popolo a rispettare questa Alleanza: “ Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno, anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”.

[“Discutiamo”, in termini ebraico-giuridici, significa “presentiamo la nostra causa” (Isaia 34:8)];

Poiché è il giorno della vendetta dell’Eterno, l’anno della retribuzione per la causa di Sion”;

(Isaia 41:11): “Ecco, tutti quelli che si sono infuriati contro di te saranno svergognati e confusi; quelli che combattono contro di te saranno ridotti a nulla e periranno”.

 

Isaia non è un libro facile da leggere, perché tanti sono i nomi: nomi di paesi, di regni, di popoli e spesso si fa fatica a capire il contesto storico.

Isaia comincia a descrivere la sua vocazione con il dire (Isaia 6:1): “Nell’anno della morte del re Uzziah, io vidi il Signore assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo manto riempivano il tempio”.

Per noi questa frase non ha significato, perché non sappiamo chi fosse il re Uzziah, e non sappiamo quando sia vissuto, ma è comunque molto importante (Isaia 7:14): “Perciò il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Immanu’el”.

Anche se questa è una profezia messianica, in realtà Isaia ha dato questa profezia al re Acar, quindi questa profezia è iniziata allora, in quel momento, e questo ci fa comprendere che la profezia di Dio è radicata nella storia e consiste principalmente nel rispettare il patto di alleanza.

Poi, affinché il momento della sua manifestazione tra gli uomini non si perdesse nel tempo mitico o fosse proiettato in un lontano futuro, Dio lo rivelò al profeta Daniele. Fu durante il suo soggiorno alla corte di Babilonia, nel 538 a.e.v., che gli fu predetto quando il Messia si sarebbe presentato, l’opera che avrebbe compiuto e il momento della sua morte.

Il testo sacro recita così:

Sappilo dunque e intendi. Dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparizione del Messia, vi sono sette e sessantadue settimane di anni. Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana di anni; e in mezzo alla settimana (sessantadue settimane di anni) il Messia sarà soppresso, nessuno sarà per lui. Egli (il Messia) farà cessare la trasgressione, metterà fine al peccato, espierà l’iniquità, stabilirà una giustizia eterna, suggellerà visione e profezia e ungerà un luogo santissimo” (Daniele 9:25, 27, pp. 26, 24 ss.).

La profezia è inoltre apprendimento, rivelato da Dio, della sapienza divina della Torah e della sua parte nascosta, la Qabbalah e il profeta è tale sia per elevazione intellettuale e spirituale sia per visioni di angeli e di manifestazioni divine o di Dio stesso, nella Shekhinah.
In questo senso, rispetto alla conoscenza ordinaria, la profezia introduce una “frattura”: la missione del profeta è diretta anzitutto al popolo, sotto forma di predicazione e di impegno di guida politica da parte del profeta.

Da questo punto di vista, inoltre, sembra non valere l’equazione tra profezia e predestinazione; il quadro provvidenziale, simbolo della prescienza divina, lascia spazio alla libertà dell’uomo, come mostra la profezia di Giona, nella quale la condotta umana (degli abitanti di Ninive, cui viene profetizzata la distruzione della città) “cambia” il corso degli eventi profetizzati – per quanto si tratti di un cambiamento comunque conosciuto da Dio dall’eternità.

Mentre, sul piano filosofico, la profezia incrocia argomenti quali la compatibilità tra prescienza divina e futuri contingenti, tra predestinazione e libero arbitrio, e la responsabilità morale dei propri atti.

Concludiamo con le parole di Isaia (Isaia 9, 1-6):

 

Il popolo che camminava nelle tenebre

vide una grande luce.

Su coloro che abitavano una terra tenebrosa

una grande luce rifulse …

 

 

Itzehoe - Ottobre 2021 - L'imputata entra in aula come una diva sbagliata. È vestita interamente di bianco, il volto scavato è nascosto dietro a un paio di occhiali scuri, indossa un basco frivolo. Una mitragliata di flash la immortala davanti a un microfono che non accenderà mai. Irmgard Furchner ha 96 anni e ne ha passati due, tra il 1943 e il 1945, in un campo di concentramento vicino a Danzica a battere meticolosamente a macchina le atrocità che i nazisti infliggevano agli ebrei. L'ex segretaria del lager di Stutthof si aggiusta l'auricolare un paio di volte e poi tace ostinatamente. Furchner era la zelante tuttofare del comandante delle SS Paul Werner Hoppe; contava gli ebrei gasati, bruciati, fucilati o torturati e trasmetteva quei numeri, quegli ordini, al quartier generale delle SS. È la grande accusata a Itzehoe, città nella regione dello Schleswig-Holstein, di uno degli ultimi processi contro i criminali della Shoah. E non mostra il minimo segno di pentimento.

A settembre, quando era scappata da casa per evitare la prima udienza, le sue gambe, appoggiate adesso su una sedia a rotelle, erano sembrate sanissime. I poliziotti l'avevano riacchiappata vicino all'aeroporto. Era fuggita a piedi e aveva dichiarato, indispettita, di non volersi  far "umiliare" da un processo che potrebbe incriminarla per complicità nell'omicidio di 11mila ebrei sterminati a Stutthof. Da allora, l'ex segretaria nazista è sempre apparsa in aula, ma con un braccialetto elettronico attaccato alla caviglia. E sempre con quell'aria da diva offesa. Parafrasando Hannah Arendt su Adolf Eichmann, più che un mostro, una buffona. E le sue apparizioni da viale del tramonto difficilmente possono far dimenticare che, quando aveva diciassette anni, Furchner divenne una delle miriadi di rotelle nell'ingranaggio dello sterminio.

Quest'udienza, però, è diversa. È carica di tensione. Poco prima delle dieci di mattina, a un metro e mezzo dall'ex segretaria nazista, il giudice invita a sedere Josef Salomonovic, nato in Cecoslovacchia ottantatré anni fa, sopravvissuto a otto lager, tra cui Auschwitz. È arrivato da Vienna "per mio fratello e mia madre" ed è il primo testimone, il primo sopravvissuto a parlare al processo. Quando passò da Stutthof, aveva sei anni. Ogni tanto sua moglie gli sussurra qualcosa, "Pepek" lo chiama. E lui sventola in aula una foto del padre, a un certo punto la alza istintivamente in direzione dell'imputata, alla sua sinistra, senza mai guardarla in faccia. Lei non reagisce. Anzi, a un certo punto Furchner si addormenta. Il giudice è costretto a fare una pausa.

Quando l'udienza riprende, Salomonovic racconta dell'assassinio di suo padre. "Era in fila con altri prigionieri quando le SS chiesero se qualcuno avesse bisogno di un medico. I prigionieri polacchi non si mossero. Mio padre fece un passo in avanti, ma un polacco gli sibilò: "È una trappola!". Mio padre gli rispose: "Un ufficiale tedesco non mente". I tedeschi lo presero, lo portarono in una stanza e gli fecero una puntura di benzene dritta nel cuore".
Josef ricorda le umiliazioni del lager. La madre spogliata e rasata: "Quando mi girai a cercarla per farmi allacciare una scarpa mi prese il panico, non la riconoscevo più in mezzo a tutte quelle donne senza capelli". Fu lei a trovarlo, si chinò ad aggiustargli il laccio. Se lo teneva spesso tra le gambe per riscaldarlo. "Ricordo la fame, ma soprattutto il freddo" mormora.

Era la prima volta che incontrava Irmgard Furchner. "È stato orribile, avrei preferito che ci separassero", confessa. Al giudice, Salomonovic ha portato il certificato di morte del padre. Quello "probabilmente timbrato da lei". Salomonovic ha dormito male, ha preso un sonnifero prima di partire, "spero che anche lei abbia dormito male". E sulla sua colpevolezza non ha dubbi: "Era seduta in ufficio, indirettamente lo è". Sulle dichiarazioni ai magistrati della segretaria nazista non è trapelato nulla. "Posso dirle solo questo", dichiara l'avvocato di Salomonovic, Christoph Rueckel, "quando Furchner ha visto che la notizia della sua fuga era su tutti i giornali, ha gongolato". Tanti sopravvissuti, invece, non se la sono sentiti neanche di tornare in Germania, sopraffatti dai ricordi.

Furchner sembra confermare l'impressione che Hannah Arendt ebbe di Eichmann: "Colpiva la sua totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri". E la totale mancanza di ogni senso di colpa.

"Non voglio esser messa alla gogna dell'umanità" aveva dichiarato l'anziana donna pochi giorni fa. Quello in corso ad Itzehoe in Germania non è l'ultimo processo a carico di persone coinvolte con i misfatti del Terzo Reich. Un processo è in corso anche nei confronti di un uomo di cent'anni, che dal 1942 al 1945 era impiegato come guardiano delle SS nel campo di concentramento di Sachsenhausen, non lontano da Berlino. L'accusa è simile a quella nei confronti della Furchner: complicità nelle operazioni di omicidio di massa.

 

 

Il lager di Stutthof in Polonia è stato il primo realizzato al di fuori dei confini tedeschi e  l'ultimo ad essere liberato dalle forze russe nel 1945. Gli storici stimano che in questo lager siano morte 65mila persone. All'inizio del conflitto qui veniva internata soprattutto l'intellighentia polacca. Le deportazioni iniziarono dal 1942, ma  solo due anni dopo, nel 1944, nel lager le SS deportarono donne ebree da Auschwitz e dai campi di lavoro dei Baltici. Le più frequenti cause di morte furono determinate da camere a gas, fucilazioni, impiccagioni, iniezioni letali, maltrattamento e malattie. Molti detenuti furono spinti dagli uomini delle SS contro le recinzioni elettrificate.