Quando gli autocrati affascinano i democratici - 07 marzo 2022

di  Jean-Dominique Giuliani

Laurea in Giurisprudenza - Laureato dell'Istituto di Studi Politici, Revisore dei conti presso l'Istituto di Studi Avanzati della Difesa Nazionale - 44a sessione

Cavaliere della Legion d'Onore, Ufficiale dell'Ordine Nazionale al Merito, Gran Croce Federale al Merito della Germania, Commendatore dell'Ordine di Gediminas (Lituania), del Servizio Nazionale della Romania, della Repubblica di Ungheria e titolare di altre decorazioni.

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN – Parigi, Bruxelles

È sempre più sorprendente quanto gli autocrati affascinino i democratici.

Come tra le due guerre mondiali del XX secolo, un dittatore che usa menzogne ​​e violenza, nonostante il rifiuto della sua parola, trova difensori, anche promotori, all'interno di paesi di libertà.

Dopo essere stato messo in scena, pescando, cacciando, nuotando, pregando, ballando, volando, etc. per scopi di propaganda interna in seno a un Paese che ha sempre mitizzato l'immagine dello zar, Putin, sbarcato da un altro mondo, ha riportato la guerra in l'Europa e ha ricevuto il sostegno di una parte – certamente minoritaria – delle élite del continente.

Certamente stimola il sogno di alcuni di un potere forte, possibilmente maschio e dominante, seguace della forza bruta e brutale, della virilità muscolare. Quest’attrazione per l'autocrate lo rende, a torto, il protagonista del momento e l'argomento di tutte le conversazioni. Questo personaggio, tuttavia, non è uno stratega. È un opportunista di medio profilo. Come gli autocrati del secolo scorso, con un passato spesso criminale, la sua storia professionale è piuttosto segnata da fallimenti e mediocrità. I suoi rapporti con il denaro sono opachi e sospetti. Il semplicismo del suo discorso seduce le menti deboli, il suo antiamericanismo lusinga gli amareggiati dell'Occidente. Gli estremisti di tutte le convinzioni se ne compiacciono. La violenza che incarna, unita al suo passato di spia, sembra ipnotizzare gli ignoranti o commuovere alcuni cinici, che sono felici di diffondere la paura che egli desidera suscitare nell'Europa democratica.

Questo è tutt'altro che giustificato.

Sebbene la situazione sia grave, con gli Ucraini presi in ostaggio che stanno pagando un prezzo esorbitante per la loro resistenza, la verità meriterebbe più attenzione. Il suo isolamento è già una sconfitta. L'immagine del suo paese è danneggiata per lungo tempo, la sua economia ancora più a lungo. Le difficoltà del suo esercito ci ricordano che è ben lungi dall'eguagliare le forze europee. Se non possiamo ancora dire che è impantanato, è ovvio che stia affrontando un'opposizione forte e coraggiosa che gli Europei sosterranno nel tempo.

Nulla potrebbe quindi giustificare questo quasi-fascino per un personaggio di cui la cui storia condannerà sicuramente l'azione. Nel XX secolo, fu dopo l'attuazione delle loro politiche che l'obbrobrio generale cadde su dittatori che si chiamavano Stalin, Hitler, Mussolini, Mao. Nel XXI secolo ciò avviene non appena essi compaiono.

L'Europa, sola di fronte al proprio destino - 13 marzo 2022

di  Jean-Dominique Giuliani

Laurea in Giurisprudenza - Laureato dell'Istituto di Studi Politici, Revisore dei conti presso l'Istituto di Studi Avanzati della Difesa Nazionale - 44a sessione

Cavaliere della Legion d'Onore, Ufficiale dell'Ordine Nazionale al Merito, Gran Croce Federale al Merito della Germania, Commendatore dell'Ordine di Gediminas (Lituania), del Servizio Nazionale della Romania, della Repubblica di Ungheria e titolare di altre decorazioni.

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN – Parigi, Bruxelles

L'Ucraina è sola e gli Ucraini pagheranno un prezzo molto alto per questa rinuncia.

Ma ora anche l'Europa è sola.

Per paura delle conseguenze, non ha immaginato di usare la forza a scopo dissuasivo e i suoi alleati dell'Alleanza non hanno mostrato alcun desiderio di essere coinvolti in questa nuova lacerazione del continente.

Sta quindi a lei dire se accetta di vedere le sue frontiere gradualmente erose dalla forza.

Anni di rifiuto di organizzare una difesa collettiva e autonoma rischiano di trascinarla dove non vuole tornare – un conflitto armato – e dove i suoi alleati esiterebbero a seguirla. Per il momento, convinta, forse a torto, della sua relativa debolezza, essa fa affidamento su di loro, anche se sono lontani dal teatro delle operazioni e sembrano paralizzati dall'idea di una guerra più globale, dalla cui minaccia non è riuscita a dissuadere il trasgressivo aggressore russo.

L'Europa vede dunque aumentare ogni giorno il prezzo da pagare per fermare questo atto ingiustificabile. Inoltre, aumenta la probabilità che venga trascinata in un conflitto che, un giorno, potrebbe riguardarla direttamente.

Gli Europei sarebbero allora vincolati dal Trattato dell'Unione europea (articolo 42.7) alla reciproca solidarietà, in termini molto più imperativi rispetto all'articolo 5 del Trattato Atlantico: "Nel caso in cui uno Stato membro sia oggetto di un'aggressione armata sul suo territorio, gli altri Stati membri gli devono aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro potere”.

Riuscirà questo impegno a convincerli a prendere le decisioni necessarie per opporsi a chi vuole riscrivere la già tragica storia dell'Europa?

Rispetto al passato, è però solo con la loro determinazione e la loro essenziale unità, con un massiccio riarmo e un coordinamento rafforzato, con una reazione forte e tempestiva, che essi potrebbero fermare una tragedia che, altrimenti, potrebbe chiamarne altre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tanica o la libertà - 20 marzo 2022

di  Jean-Dominique Giuliani

Laurea in Giurisprudenza - Laureato dell'Istituto di Studi Politici, Revisore dei conti presso l'Istituto di Studi Avanzati della Difesa Nazionale - 44a sessione

Cavaliere della Legion d'Onore, Ufficiale dell'Ordine Nazionale al Merito, Gran Croce Federale al Merito della Germania, Commendatore dell'Ordine di Gediminas (Lituania), del Servizio Nazionale della Romania, della Repubblica di Ungheria e titolare di altre decorazioni.

Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari

Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN – Parigi, Bruxelles

Come fermare la guerra? Abbandonando l'Ucraina, ancor prima che fosse attaccata, la NATO e i suoi alleati hanno rinunciato a cercare di dissuadere Putin dall'attaccare il suo vicino. Poche truppe, anche in esercitazione, avrebbero potuto essere sufficienti...

Per le democrazie, la domanda è sempre la stessa: come contrastare i dittatori, le loro spudorate bugie, la loro paranoica ubriachezza e il loro cinismo? Ci servono sempre lo stesso cocktail che gioca sulla paura della guerra, l'ingenuità, l'innocenza, cioè l'onestà e la buona fede delle democrazie di fronte agli autocrati. Questo spesso porta al peggio, alla guerra, alla miseria, persino al genocidio e sempre alla sofferenza delle popolazioni.

Come fermarli quando minacciano l'ordine internazionale e fino a quando accetteremo di vedere i bambini ucraini soccombere sotto le bombe, le città d'Europa che crollano sotto gli obici e i diritti più elementari di un paese continentale violati?

È vero che gli Europei si sono mobilitati rapidamente e con forza. Quasi un migliaio di persone o di entità ora cadono sotto le loro sanzioni, le più severe mai assunte sino ad oggi. Ma solo la forza, la sconfitta o il timore di subirla possono far retrocedere Putin. In caso contrario, il ristabilimento di un vero equilibrio di potere può obbligarlo ad accettare vere trattative e porre fine ai combattimenti. Ma gli Europei esitano. Non sono ancora arrivati ​​a immaginare misure più forti perché esse danneggerebbero il modo di vivere dei loro cittadini.

Poiché ci rifiutiamo di utilizzare mezzi militari, la cosa più efficace sarebbe fermare qualsiasi acquisto di energia dalla Russia, il cui bilancio e le cui armi sono finanziati dalle entrate del gas e del petrolio. Gli obici che uccidono gli Ucraini vengono pagati con i proventi delle importazioni europee di petrolio e gas.

In questo caso, il prezzo della nostra libertà è il prezzo delle privazioni. E finché gli Europei non avranno il coraggio di arrivare al punto di privarsi di queste risorse, le loro grandiose dichiarazioni di sostegno all'Ucraina sono un po' sospette, comunque non abbastanza efficaci di fronte alla brutalità degli eserciti russi.

Si può capire la cautela delle autorità tedesche, italiane, ungheresi o bulgare, che le cattive scelte mercantiliste o politiche hanno reso quasi interamente dipendenti dai loro acquisti energetici in Russia. Ma qui potrebbe trovare espressione la solidarietà europea. Il rafforzamento del mercato e del commercio interno potrebbe rimediare a queste mancanze e potrebbe solo anticipare il calo del commercio internazionale in arrivo.

Allo stesso modo, è probabile che l'Unione europea si trovi di fronte alla necessità di rivedere con urgenza molte delle sue politiche, a cominciare dai suoi rapporti commerciali con terzi, e la sua politica agricola non potrà chiudere gli occhi di fronte alla prossima crisi alimentare o ai numerosi vincoli che si è imposta per essere esemplare, ad esempio, in materia di ambiente.

E, questa volta, saranno piuttosto i paesi del nord e del centro Europa ad aver bisogno della solidarietà degli altri! Un'altra buona occasione per dimostrare la solidarietà europea.

Il giorno dell'Europa è arrivato? di Antoine CIBIRSKI, diplomatico europeo, specialista del mondo slavo e scrittore. Traduzione di Barbara de Munari. Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN, 21 marzo 2022, Bruxelles.

 

«Ma la spada di San Vladimir non fa paura …Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?».

Michail Afanas'evič Bulgakov - La Guardia Bianca - pubblicato sulla rivista Rossija nel 1924.

 

 

“ Il giorno dell’Europa è arrivato!” affermava un ministro lussemburghese nel 1991 all'inizio delle guerre jugoslave. Il contesto sembrava favorevole: una crisi inizialmente periferica, un relativo disinteresse da parte della Russia, il via libera degli Stati Uniti che spingevano anche l'Unione dell'Europa occidentale (UEO), la maggior parte delle cui attività sono state riprese dalla Politica di sicurezza e di difesa europea (PESD) , quindi dalla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), ad intervenire. Il "perno" americano all'epoca non era ancora l'Asia, ma piuttosto la gestione della decomposizione del mondo sovietico, senza molto interesse per i Balcani occidentali. Per reazione, alcuni europei "frenavano" e temevano una sfavorevole ripartizione dei compiti: missioni di difesa collettiva "nobili" riservate alla Nato e missioni di pace, considerate "subordinate", all'Europa. Preveggenza strategica! Quattro anni dopo, conoscevamo i bombardamenti di civili, l'assedio di Sarajevo, i cessate il fuoco non rispettati, le mediazioni fallite, Srebreniça. Sperimentavamo le umiliazioni inflitte a una forza delle Nazioni Unite (UNPROFOR) con un mandato timoroso e regole di ingaggio eccessivamente restrittive. Gli inglesi e i francesi erano in questa situazione sul campo, ma non i tedeschi. La pace di Dayton, che la sola Francia chiama "Dayton-Parigi" (una concessione formale di Bill Clinton a Jacques Chirac), era in gran parte una Pax americana. In campo americano, Richard Holbrooke aveva tirato le fila e deciso tutto, mettendo in un angolo senza tante cerimonie i leader europei tra cui Carl Bildt, Jaques Blot e Pauline Neville-Jones. L'Europa – come le Nazioni Unite o l'OSCE – non ne usciva bene; solo la NATO era stata più o meno e tardivamente all'altezza del compito, con efficaci campagne di supporto aereo, poi robuste forze di interposizione e di pacificatori (IFOR di 55.000 soldati). L'Europa era umiliata, disunita e disarmata. Rimase inefficace e poco presente anche durante la guerra del Kosovo del 1998-1999, segnata dagli attacchi aerei della NATO e, ancora, dalle forze di pacificazione dell'Alleanza Atlantica (KFOR di 50.000 soldati).

L'Europa doveva dunque cercare di riprendersi, di imparare la lezione dai fallimenti jugoslavi per raggiungere, tra il 1999 e il 2008, un momento davvero fertile e innovativo, un'età dell'oro di fermenti, non solo a livello intellettuale ma anche a livello di forze, di missioni e di strutture. Questo periodo è segnato da testi innovativi, lo spirito di Saint-Malo (dichiarazione franco-britannica del dicembre 1998, il vero punto di partenza della politica europea di sicurezza e difesa PESD), che invocava mezzi militari "autonomi e credibili" dell'Unione europea culminò nel Consiglio europeo di Helsinki: nel dicembre 1999 si decise di creare una forza d'azione rapida (FRRE) di 50.000-60.000 uomini che poteva essere schierata in 60 giorni per un periodo minimo di un anno, supportata da 400 aerei da combattimento e 100 navi. A questa FRRE si sarebbero potute aggiungere “forze multinazionali a vocazione prevalentemente europea” create a metà degli anni '90: European Corps, Euromarfor, Euroforce. Durante questo periodo, l'Europa era militarmente mondiale, con 23 operazioni e missioni europee in tutto il mondo (tra cui Aceh in Indonesia). Dal 2003 aveva una prima strategia di sicurezza europea, un corpo dottrinale coerente e visionario avviato da Javier Solana, in cui le nozioni di autonomia e sovranità europee apparivano già implicite.

Ma questo slancio si esaurì quasi simultaneamente. Lo spirito ricadde, le forze europee non furono mai impiegate nei conflitti, confermando così l'adagio "use it or lose it", valido anche per i Groupements tactiques (GTUE) creati nel 2006 con un livello di ambizione però molto più ridotto e limitato a 2.500 uomini. Le illusioni perdute si ripetevano regolarmente, durante le crisi in cui l'Europa non era mai in prima linea, se non a posteriori, per fare opera umanitaria, pagare, ricostruire e, se necessario, formare. Questo è stato il caso dell'Afghanistan e dell'Iraq. Abbiamo registrato una leggera ripresa nel 2008 (invasione della Georgia e mediazione del presidente Nicolas Sarkozy sotto la presidenza francese del Consiglio dell'Unione) e nel 2014 (prima invasione dell'Ucraina, creazione del format Normandia). Ma queste manifestazioni si limitarono a un piano diplomatico, mai valido in fase di prevenzione e ancor meno a livello militare.

Quanto alla questione delle relazioni strategiche con una Russia già ribelle e minacciosa, essa rimase sotto il monopolio esclusivo del dialogo russo-americano. I regolari tentativi francesi di rianimare un approccio europeo volto al rinvigorimento degli accordi, in rovina, sul controllo degli armamenti doveva scontrarsi con le risposte dilatorie e paradossali di partner timorosi. I quali si rammaricavano del duopolio USA-Russia in materia, rifiutandosi tuttavia di dare un contributo collettivo anche all'interno della NATO. Questo è stato il caso dell'OSCE nel 2008, con un'ambiziosa riunione ministeriale a Corfù che produsse testi minimi ad Astana solo nel 2010: la sua dichiarazione ministeriale è rimasta famosa per una formulazione spesso ripresa da allora da Sergei Lavrov, che stabiliva un principio di "sicurezza indivisibile ", utile per la propaganda contro l'allargamento della NATO e tuttavia smentito dalle azioni russe degli ultimi due decenni. L'Europa è stata quindi confinata a compiti di “soft power”, a un multilateralismo più o meno efficace e a tentativi di “dare l'esempio”, con scarsi effetti di follow-up sugli altri.

Tuttavia, la crisi economica e sanitaria le ha dato, a differenza delle crisi politico-militari, regolari occasioni di realizzarsi: nel 2008, dopo la crisi finanziaria, e molto più recentemente per la gestione della pandemia di Covid-19. Come spesso accade, l'Europa avanza solo stimolata dalla gravità della crisi. Dopo alcuni ritardi nella partenza, l'Unione europea ha fornito una risposta monetaria, finanziaria e di bilancio commisurata alla crisi sanitaria. Ha adottato un concetto di “autonomia strategica aperta” volto a ridurre le dipendenze in diversi settori (difesa, spazio, digitale, salute, energia, materiali rari) senza autarchia o protezionismo. Ha mostrato solidarietà con gli Stati più fragili. Ha compiuto nuovi passi nella sua integrazione economica togliendo un importante debito comune sui mercati.

La “messa in comune dei debiti” sembrava allora meno inaccessibile della “messa in comune delle teste nucleari”.

Perché questa "messa in comune delle testate" fu tentato. Nel 1995 il primo ministro francese, Alain Juppé, progettò “non una deterrenza condivisa, ma una deterrenza concertata con i nostri principali partner europei”. Il suo discorso non suscitò reazioni ufficiali, in particolare in Germania, paese destinatario per eccellenza. Dopo la Brexit, la Francia è l'unica potenza nucleare dell'Unione europea. Ma è sicuro che questo nucleare non-detto rimarrà tale ancora per qualche anno, nonostante l'accresciuta attualità della deterrenza. Ora, ovviamente, non sarebbe il momento di rimettere in discussione inconsapevolmente la validità della garanzia nucleare degli Stati Uniti.

L'AVVIO DELL'UNIONE EUROPEA

Negli ultimi cinque anni, il ritmo si è accelerato, così come gli avvertimenti, accompagnati da campanelli d'allarme finali, “wake up calls”. Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron nel 2017, che metteva in evidenza "sovranità europea e autonomia strategica", inizia a trovare campi di applicazione. La presidenza Trump, i suoi dubbi sulla NATO e le sue amicizie con la Russia instillano dubbi anche tra gli atlantisti più ardenti. Eppure, una volta eletto Joe Biden, molti di quei dubbi cadono e molti in Europa preferiscono vivere con la confortevole illusione di una garanzia americana assoluta ed eterna. Né le condizioni del ritiro americano dall'Afghanistan, né l'AUKUS [AUKUS è un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021, N.d.T.] dovevano davvero svegliare gli europei che si condannavano a scomparire dal panorama strategico, nonostante gli sforzi francesi.

In questo contesto, la guerra russa contro l'Ucraina ha almeno il “merito” di innescare un vero e proprio sussulto in Europa. Un sussulto intellettuale per cominciare. La minaccia russa è stata spesso dimenticata, relegata, sottovalutata, almeno in Europa occidentale. Il nemico è la Cina, un “rivale sistemico”. La Russia non può che essere, nel peggiore dei casi, una potenza regionale marginalmente dirompente, con un PIL inferiore al Benelux! Gli avvertimenti, molteplici per due decenni, sono stati interpretati solo singolarmente, volta per volta, senza che fosse chiaro il filo conduttore comune.

Questi Europei hanno dimenticato le condizioni in cui il padrone del Cremlino è stato insediato al potere, "sbattendo i Ceceni nel cesso" nel 1999. Non ricordavano più le sue reazioni indignate nel 2004, durante le "rivoluzioni colorate" percepite esclusivamente come complotti alimentati dall'Occidente. Non hanno ascoltato il suo discorso a Monaco nel 2007. Nel 2008 sono stati sollevati dal fatto che la presidenza francese del Consiglio dell'Unione fosse riuscita a convincere Vladimir Putin a non "andare fino a Tbilisi per impiccare Saakashvili". Hanno dimenticato che c'era già stata una prima guerra in Ucraina nel 2014 che aveva portato all'annessione della Crimea e a un conflitto congelato nel Donbass. Con, in risposta, sanzioni deboli e prive di efficacia. Non hanno capito che la Siria poteva essere un banco di prova per l'esercito russo, come la Spagna lo era stata per le forze naziste, né che le forze di Wagner in Libia, nella Repubblica Centrafricana e in Mali potevano divenire una sorta di legioni Condor. Non hanno percepito la nuova tattica russa di soffocare le libertà e riprendere il controllo, in Bielorussia, come nel Caucaso meridionale e in Asia centrale (Kazakistan a gennaio). Hanno minimizzato la marcia costante, deliberata e spietata verso l'autocrazia con i leader dell'opposizione uccisi, avvelenati o imprigionati, una Memoria calpestata con la chiusura del Memoriale. Ogni colpo di avvertimento, annotato e cancellato nei conti delle perdite, era seguito dall’assopimento e dal ritorno alle proprie attività.

Alcuni trovarono circostanze attenuanti, in vaghi impegni verbali trent'anni prima o in sentimenti di umiliazione russi che erano molto pratici e troppo facilmente condivisibili. I partiti politici populisti hanno fatto eco ovunque in Europa, con compiacimento, trasmessi da social network, gruppi di troll e media sovvenzionati da Mosca. Le apprensioni ragionate dell'Est e del Nord Europa furono spesso anche percepite come esagerate o addirittura ossessive dall'Occidente. E poi c'era la NATO e noi stessi contribuivamo alla sicurezza del suo fianco orientale inviando alcune pattuglie aeree (di “enhanced forward presence” e “tailored forward presence”). Il soprassalto intellettuale europeo non era quindi per niente evidente.

Eppure è successo. La violenza e gli errori di Putin hanno dilapidato questi guadagni di propaganda in pochi giorni, cambiato la narrativa e reso, almeno per il momento, l'Europa vincitrice nella guerra dell'informazione.

Quando gli Americani ci hanno avvertito pubblicamente all'inizio di febbraio dell'imminenza di un'invasione russa, senza dubbio abbiamo comunque preferito vedere gli assembramenti alle frontiere come una classica manovra intimidatoria, cui sarebbero seguiti semplicemente attacchi informatici e qualche presa territoriale con azioni ibride, come nel 2014. A nostra (parziale, N.d.T.) discolpa, avevamo ancora in mente le precedenti manipolazioni americane dell'intelligence che avevano preceduto, e giustificato per alcuni europei, la guerra in Iraq. Gli Europei hanno cominciato ad aprire gli occhi con sorpresa e ad ascoltare con stupore, il 21 febbraio, le invocazioni di guerra di Putin nel suo discorso televisivo, che parlava non di un impero sovietico e bolscevico, ma dell'Impero russo, più probabilmente quello di Caterina II (con l'Ucraina, il Caucaso, i paesi baltici, perfino la Finlandia) che non quello di Pietro il Grande. Alla fine gli Europei si sono svegliati il ​​24 febbraio sotto i colpi dei cannoni in Ucraina. Sono stati in grado di rispondere in modo rapido, fermo e unito. È stato adottato un regime di sanzioni senza precedenti, 500 milioni di euro sono stati sbloccati in due giorni per fornire

armi letali alle forze ucraine per difendersi dall'aggressione russa, attraverso un Fondo europeo per la pace, sono stati rilasciati fondi per i rifugiati, l’Ungheria e la Polonia si sono unite, la Germania ha cambiato il suo rapporto con la difesa, annunciando un aumento della sua spesa militare annuale a oltre il 2% del suo PIL e lo svincolo immediato di 100 miliardi di euro per modernizzare il suo esercito. La Danimarca ha annunciato l'organizzazione di un referendum sulla sua adesione alla politica di difesa comune e la Finlandia e la Svezia intendono avvicinarsi alla NATO.

 

IL GIORNO DELL'EUROPA SI AVVICINA?

Al Vertice di Versailles del 10 e 11 marzo, questi progressi sono stati ripresi e le prospettive sono state tracciate. Ora si tratta di registrarli a lungo termine. “L'Ucraina fa parte della nostra famiglia europea” (dichiarazione di Versailles) ma la famiglia europea dovrà ancora superare debolezze, insidie ​​e illusioni. I dibattiti sulle consegne di armi, come le palinodie sui MiG 29, le domande sulle no-fly zone, cioè sulle zone di sicurezza, sono solo all'inizio. La questione degli idrocarburi russi e dell'indipendenza energetica rimane per ora delicata e richiede alla Germania di fare, questa volta, scelte più giudiziose e solidali di quelle fatte abbandonando il nucleare.

A breve termine, il fattore militare prevarrà necessariamente sulle tentazioni e costruzioni diplomatiche.

La ricalibrata "bussola strategica" dell'Unione europea, che dovrebbe essere adottata dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo, si confronterà infatti con l'evoluzione della situazione militare sul terreno in Ucraina e le contingenze delle alleanze. Questa "bussola strategica" dovrà confrontarsi anche con le reciproche politiche di armamento degli uni e degli altri. Così come la difesa europea non significa acquisti privilegiati di armi francesi e/o europee, il rapporto transatlantico rinvigorito dalla crisi ucraina non dovrebbe significare l'obbligo di acquistare sistemi americani, compreso l'F35. Partner come la Finlandia e la Svezia, in mancanza della NATO a breve termine, potrebbero mettere l’accento sulle clausole di solidarietà europea e sull'articolo 42, paragrafo 7 del TUE, che è letteralmente più vincolante dell'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

L'atteggiamento e l'intimidazione nucleare di Putin potrebbero prendere di mira più in particolare alcuni partner europei, tra i quali gli Stati baltici (il passo di Suwałki tra la Lituania e la Polonia che porta all'exclave di Kaliningrad) e persino membri dell'Alleanza. Il regolare accenno al chimico, al biologico e al nucleare, dal 21 febbraio, nei discorsi di Putin come di Lavrov, il passaggio a una prima fase di allerta nucleare, gli attacchi alle centrali elettriche, danno una certa idea delle intimidazioni a venire. Stiamo già cercando di prevenire questa salita estrema dei toni, con responsabilità, determinazione e sangue freddo (rapporto americano di un lancio di prova di missili balistici intercontinentali; ricordo del carattere nucleare dell'Alleanza atlantica da parte del ministro degli Affari esteri francese).

 

In questo contesto, le ambizioni spesso francesi in merito alla difesa europea e all'autonomia strategica dovranno integrare le esacerbate preoccupazioni dell'Europa centrale e orientale, la situazione americana esistente e le procedure per esercitare le garanzie nucleari nel nostro continente, forse per raggiungere un migliore equilibrio tra “Europa della difesa” e un vero e proprio “pilastro europeo della NATO”, mai tentato. Esiste, agli occhi di alcuni puristi europei e francesi, un assoluto antagonismo tra la PESD e il concetto NATO dell'Iniziativa di sicurezza e di difesa europea (ESDI). Dato l'attaccamento viscerale e rafforzato dagli eventi di molti dei nostri partner della NATO, da un lato, e i significativi progressi dell’Europa nella difesa e delle prospettive americane per riequilibrare le loro priorità, dall'altro, è giunto il momento di conciliare questi due approcci dando sostanza al “pilastro europeo”. Sarebbe assurdo per gli europei potersi esprimere collettivamente nell'Alleanza, come hanno fatto per lungo tempo con successo nell'OSCE, quando questa organizzazione era viva e fertile? Sarebbe anormale che il posto degli europei si riflettesse meglio negli organi e nelle procedure dell'Alleanza, e negli alti comandi della NATO (SACEUR aggiunto a rotazione europea, ancor più che SACT)?

 

In queste condizioni, l'“autonomia strategica” sarebbe senza dubbio molto più facilmente accolta e incoraggiata da tutti i partner europei nel campo della difesa. E gli altri settori, altrettanto imperativi, dell'indipendenza energetica, industriale e tecnologica offriranno ulteriori opportunità agli Europei per raggiungere un'autentica e credibile "autonomia strategica", con tutti i mezzi e l'esperienza rinnovati dell'Unione europea.

Come estensione del Vertice di Versailles, e accompagnando una soluzione alla guerra in Ucraina, “la spada potrebbe scomparire e le stelle rimanere”; un decennio di Europa potrebbe allora prendere forma.

 

 

Parigi, 24 marzo 2022 - Cabinet du garde des Sceaux

 

Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN

Traduzione a cura di Barbara de Munari

 

Dichiarazione Congiunta Giustizia - Comunicato stampa

Dichiarazione in occasione della riunione del gruppo dei ministri internazionali che condividono la stessa opinione sui crimini di guerra.

 

Oggi

il Ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti, nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri della Giustizia dell'Unione Europea,

il Ministro della Giustizia e della Sicurezza olandese Dilan Yeşilgöz-Zegerius come Paese ospitante la Corte Penale Internazionale a L'Aia,

il Ministro della Giustizia sloveno Marjan Dikaučič,

il Ministro della Giustizia bulgaro Nadejda Iordanova,

il Ministro della Giustizia della Repubblica di Lettonia Jānis Bordāns,

Marcin Romanowski, Sottosegretario di Stato polacco presso il Ministero della Giustizia,

Evelina Dobrovolska, Ministro della Giustizia della Lituania,

il Ministro della Giustizia del Lussemburgo, Sam Tanson,

il Ministro della Giustizia spagnolo, Pilar Llop Cuenca,

il Ministro svedese della Giustizia e dell'Interno, Morgan Johansson,

il Vice Ministro della Giustizia ceco, Richard Krpač,

il Ministro croato della Giustizia e della Pubblica Amministrazione, Ivan Malenica,

il Ministro greco della Giustizia, Kostas Tsiaras,

Marta Cartabia, Ministro italiano della Giustizia,

Maris Lauri, Ministro federale della Giustizia austriaco,

Alma Zadić, Ministro della Giustizia irlandese,

Helen McEntee, viceministro tedesco del Ministero degli Esteri federale,

Katja Keul, Ministro della Giustizia finlandese,

Anna-Maja Henriksson, Ministro della Giustizia portoghese,

il Ministro della Giustizia slovacco Maria Kolíková,

il Ministro maltese della Giustizia e del Governo Edward Zammit Lewis,

Nick Hækkerup, Ministro danese della Giustizia,

Vincent Van Quickenborne, Ministro belga della Giustizia,

Cătălin Marian Predoiu, Ministro rumeno della Giustizia,

Stephie Drakos, Ministro cipriota della Giustizia e dell'Ordine pubblico,

e Denys Maliuska, Ministro della Giustizia ucraino,

hanno partecipato di persona, virtualmente o in rappresentanza, a un incontro internazionale a sostegno delle indagini del procuratore della CPI [Corte Penale Internazionale, N.d.T.].

Sappiamo che le violazioni più gravi dei diritti umani accadono nel contesto dei conflitti armati. Le informazioni e le immagini che ci giungono sulla guerra di aggressione senza precedenti e illegale che la Russia sta conducendo contro l'Ucraina sono terribili. Per noi, la conclusione è chiara: la Russia ha la piena responsabilità di questa guerra di aggressione e della sofferenza del popolo ucraino. I diretti responsabili dei crimini di guerra e delle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario sul suolo ucraino devono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Le vittime devono anche avere accesso a un ricorso e alla giustizia.

La rapidità con cui 41 Stati, tra i quali tutti gli Stati membri dell'UE, hanno riferito la situazione è un potente promemoria del fatto che non può esserci impunità per i principali crimini internazionali, come dimostra il fatto che il numero di Stati che hanno riferito la situazione continua ad aumentare. Tale denuncia non è solo simbolica, ma ha consentito di accelerare l'apertura delle indagini, che favoriranno l'accertamento dei fatti e la raccolta delle prove, che costituiscono la pietra angolare della lotta contro l'impunità. I ministri hanno riaffermato collettivamente il loro sostegno alla Corte Penale Internazionale.

Eurojust (*) è un attore chiave nel garantire il coordinamento più efficace possibile delle indagini svolte negli Stati membri dell'UE su questi presunti crimini di guerra. Tutti gli strumenti a disposizione di Eurojust (riunioni di coordinamento, squadre investigative comuni, etc.) devono essere utilizzati. La sua azione può avvantaggiare anche Paesi terzi, che hanno accordi di cooperazione con l'agenzia, nonché la Corte Penale Internazionale. Eurojust è stato quindi invitato a rafforzare ed esercitare pienamente il suo ruolo di coordinamento, in particolare mettendosi a disposizione del Procuratore della Corte Penale Internazionale, secondo necessità, nell'esercizio delle sue funzioni.

Francia, Paesi Bassi, Slovenia, Bulgaria, Lettonia, Polonia, Lituania, Lussemburgo, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia, Italia, Estonia, Austria, Irlanda, Germania, Finlandia, Portogallo, Repubblica Slovacca, Malta, Danimarca, Belgio, Romania e Cipro s’impegnano a compiere ogni sforzo per prendere in considerazione il rafforzamento del loro sostegno presso la Corte Penale Internazionale, sia dal punto di vista finanziario sia da quello delle risorse umane.

Il Ministro della Giustizia ucraino, Denys Maliuska, ha dichiarato:

L'Ucraina a sua volta afferma il proprio impegno a condurre indagini efficaci su tutti i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi sul suo territorio e dichiara la propria disponibilità a cooperare con la Corte Penale Internazionale al più alto livello.

L'Ucraina è convinta che gli sforzi dello Stato territoriale (Ucraina), uniti all'esercizio della giurisdizione universale da parte di altri Stati, all'azione di Eurojust e all'accelerazione delle indagini della Corte Penale Internazionale, possano avere un potente effetto sinergico. Il crimine di aggressione contro l'Ucraina non deve rimanere impunito perché contiene la somma degli altri crimini di diritto internazionale.

 

A nome della Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea, il Ministro Dupond-Moretti ha dichiarato:

La Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea desidera porre l’accento sul ruolo unico che Eurojust può svolgere nella raccolta di prove riguardanti presunti crimini di guerra in Ucraina. Eurojust ha una riconosciuta esperienza nel coordinamento delle indagini nazionali al fine di sostenere le azioni penali assicurando un coordinamento efficace e può lavorare a stretto contatto con le autorità giudiziarie degli Stati membri, con il procuratore ucraino e la procura della Corte Penale Internazionale al fine di garantire che i crimini di guerra siano portati di fronte alla giustizia.

Il presidente di Eurojust, Ladislav Hamran, ha dichiarato:

L'incontro di oggi conferma che la comunità internazionale, di là dalle discussioni, è ora pronta ad agire. Se siamo uniti nella nostra ambizione di rendere giustizia all’Ucraina, dobbiamo anche coordinarci, a livello sia politico sia operativo. Eurojust sostiene gli Stati membri dell'UE nelle loro indagini sui principali crimini internazionali e, proprio in questo momento, stiamo vedendo questi casi passare dalla fase di preparazione a quella di una concreta cooperazione operativa. Attraverso i nostri sforzi, continueremo a lavorare a stretto contatto con la Corte Penale Internazionale.

 

(*) EUROJUST – Agenzia dell’Unione Europea per la Cooperazione Giudiziaria Penale

 

Il giorno dell'Europa è arrivato? di Antoine CIBIRSKI, diplomatico europeo, specialista del mondo slavo e scrittore. Traduzione di Barbara de Munari. Fonte: FONDAZIONE ROBERT SCHUMANN, 21 marzo 2022, Bruxelles.

 

«Ma la spada di San Vladimir non fa paura …Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?».

Michail Afanas'evič Bulgakov - La Guardia Bianca - pubblicato sulla rivista Rossija nel 1924.

 

 

“ Il giorno dell’Europa è arrivato!” affermava un ministro lussemburghese nel 1991 all'inizio delle guerre jugoslave. Il contesto sembrava favorevole: una crisi inizialmente periferica, un relativo disinteresse da parte della Russia, il via libera degli Stati Uniti che spingevano anche l'Unione dell'Europa occidentale (UEO), la maggior parte delle cui attività sono state riprese dalla Politica di sicurezza e di difesa europea (PESD) , quindi dalla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), ad intervenire. Il "perno" americano all'epoca non era ancora l'Asia, ma piuttosto la gestione della decomposizione del mondo sovietico, senza molto interesse per i Balcani occidentali. Per reazione, alcuni europei "frenavano" e temevano una sfavorevole ripartizione dei compiti: missioni di difesa collettiva "nobili" riservate alla Nato e missioni di pace, considerate "subordinate", all'Europa. Preveggenza strategica! Quattro anni dopo, conoscevamo i bombardamenti di civili, l'assedio di Sarajevo, i cessate il fuoco non rispettati, le mediazioni fallite, Srebreniça. Sperimentavamo le umiliazioni inflitte a una forza delle Nazioni Unite (UNPROFOR) con un mandato timoroso e regole di ingaggio eccessivamente restrittive. Gli inglesi e i francesi erano in questa situazione sul campo, ma non i tedeschi. La pace di Dayton, che la sola Francia chiama "Dayton-Parigi" (una concessione formale di Bill Clinton a Jacques Chirac), era in gran parte una Pax americana. In campo americano, Richard Holbrooke aveva tirato le fila e deciso tutto, mettendo in un angolo senza tante cerimonie i leader europei tra cui Carl Bildt, Jaques Blot e Pauline Neville-Jones. L'Europa – come le Nazioni Unite o l'OSCE – non ne usciva bene; solo la NATO era stata più o meno e tardivamente all'altezza del compito, con efficaci campagne di supporto aereo, poi robuste forze di interposizione e di pacificatori (IFOR di 55.000 soldati). L'Europa era umiliata, disunita e disarmata. Rimase inefficace e poco presente anche durante la guerra del Kosovo del 1998-1999, segnata dagli attacchi aerei della NATO e, ancora, dalle forze di pacificazione dell'Alleanza Atlantica (KFOR di 50.000 soldati).

L'Europa doveva dunque cercare di riprendersi, di imparare la lezione dai fallimenti jugoslavi per raggiungere, tra il 1999 e il 2008, un momento davvero fertile e innovativo, un'età dell'oro di fermenti, non solo a livello intellettuale ma anche a livello di forze, di missioni e di strutture. Questo periodo è segnato da testi innovativi, lo spirito di Saint-Malo (dichiarazione franco-britannica del dicembre 1998, il vero punto di partenza della politica europea di sicurezza e difesa PESD), che invocava mezzi militari "autonomi e credibili" dell'Unione europea culminò nel Consiglio europeo di Helsinki: nel dicembre 1999 si decise di creare una forza d'azione rapida (FRRE) di 50.000-60.000 uomini che poteva essere schierata in 60 giorni per un periodo minimo di un anno, supportata da 400 aerei da combattimento e 100 navi. A questa FRRE si sarebbero potute aggiungere “forze multinazionali a vocazione prevalentemente europea” create a metà degli anni '90: European Corps, Euromarfor, Euroforce. Durante questo periodo, l'Europa era militarmente mondiale, con 23 operazioni e missioni europee in tutto il mondo (tra cui Aceh in Indonesia). Dal 2003 aveva una prima strategia di sicurezza europea, un corpo dottrinale coerente e visionario avviato da Javier Solana, in cui le nozioni di autonomia e sovranità europee apparivano già implicite.

Ma questo slancio si esaurì quasi simultaneamente. Lo spirito ricadde, le forze europee non furono mai impiegate nei conflitti, confermando così l'adagio "use it or lose it", valido anche per i Groupements tactiques (GTUE) creati nel 2006 con un livello di ambizione però molto più ridotto e limitato a 2.500 uomini. Le illusioni perdute si ripetevano regolarmente, durante le crisi in cui l'Europa non era mai in prima linea, se non a posteriori, per fare opera umanitaria, pagare, ricostruire e, se necessario, formare. Questo è stato il caso dell'Afghanistan e dell'Iraq. Abbiamo registrato una leggera ripresa nel 2008 (invasione della Georgia e mediazione del presidente Nicolas Sarkozy sotto la presidenza francese del Consiglio dell'Unione) e nel 2014 (prima invasione dell'Ucraina, creazione del format Normandia). Ma queste manifestazioni si limitarono a un piano diplomatico, mai valido in fase di prevenzione e ancor meno a livello militare.

Quanto alla questione delle relazioni strategiche con una Russia già ribelle e minacciosa, essa rimase sotto il monopolio esclusivo del dialogo russo-americano. I regolari tentativi francesi di rianimare un approccio europeo volto al rinvigorimento degli accordi, in rovina, sul controllo degli armamenti doveva scontrarsi con le risposte dilatorie e paradossali di partner timorosi. I quali si rammaricavano del duopolio USA-Russia in materia, rifiutandosi tuttavia di dare un contributo collettivo anche all'interno della NATO. Questo è stato il caso dell'OSCE nel 2008, con un'ambiziosa riunione ministeriale a Corfù che produsse testi minimi ad Astana solo nel 2010: la sua dichiarazione ministeriale è rimasta famosa per una formulazione spesso ripresa da allora da Sergei Lavrov, che stabiliva un principio di "sicurezza indivisibile ", utile per la propaganda contro l'allargamento della NATO e tuttavia smentito dalle azioni russe degli ultimi due decenni. L'Europa è stata quindi confinata a compiti di “soft power”, a un multilateralismo più o meno efficace e a tentativi di “dare l'esempio”, con scarsi effetti di follow-up sugli altri.

Tuttavia, la crisi economica e sanitaria le ha dato, a differenza delle crisi politico-militari, regolari occasioni di realizzarsi: nel 2008, dopo la crisi finanziaria, e molto più recentemente per la gestione della pandemia di Covid-19. Come spesso accade, l'Europa avanza solo stimolata dalla gravità della crisi. Dopo alcuni ritardi nella partenza, l'Unione europea ha fornito una risposta monetaria, finanziaria e di bilancio commisurata alla crisi sanitaria. Ha adottato un concetto di “autonomia strategica aperta” volto a ridurre le dipendenze in diversi settori (difesa, spazio, digitale, salute, energia, materiali rari) senza autarchia o protezionismo. Ha mostrato solidarietà con gli Stati più fragili. Ha compiuto nuovi passi nella sua integrazione economica togliendo un importante debito comune sui mercati.

La “messa in comune dei debiti” sembrava allora meno inaccessibile della “messa in comune delle teste nucleari”.

Perché questa "messa in comune delle testate" fu tentato. Nel 1995 il primo ministro francese, Alain Juppé, progettò “non una deterrenza condivisa, ma una deterrenza concertata con i nostri principali partner europei”. Il suo discorso non suscitò reazioni ufficiali, in particolare in Germania, paese destinatario per eccellenza. Dopo la Brexit, la Francia è l'unica potenza nucleare dell'Unione europea. Ma è sicuro che questo nucleare non-detto rimarrà tale ancora per qualche anno, nonostante l'accresciuta attualità della deterrenza. Ora, ovviamente, non sarebbe il momento di rimettere in discussione inconsapevolmente la validità della garanzia nucleare degli Stati Uniti.

L'AVVIO DELL'UNIONE EUROPEA

Negli ultimi cinque anni, il ritmo si è accelerato, così come gli avvertimenti, accompagnati da campanelli d'allarme finali, “wake up calls”. Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron nel 2017, che metteva in evidenza "sovranità europea e autonomia strategica", inizia a trovare campi di applicazione. La presidenza Trump, i suoi dubbi sulla NATO e le sue amicizie con la Russia instillano dubbi anche tra gli atlantisti più ardenti. Eppure, una volta eletto Joe Biden, molti di quei dubbi cadono e molti in Europa preferiscono vivere con la confortevole illusione di una garanzia americana assoluta ed eterna. Né le condizioni del ritiro americano dall'Afghanistan, né l'AUKUS [AUKUS è un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021, N.d.T.] dovevano davvero svegliare gli europei che si condannavano a scomparire dal panorama strategico, nonostante gli sforzi francesi.

In questo contesto, la guerra russa contro l'Ucraina ha almeno il “merito” di innescare un vero e proprio sussulto in Europa. Un sussulto intellettuale per cominciare. La minaccia russa è stata spesso dimenticata, relegata, sottovalutata, almeno in Europa occidentale. Il nemico è la Cina, un “rivale sistemico”. La Russia non può che essere, nel peggiore dei casi, una potenza regionale marginalmente dirompente, con un PIL inferiore al Benelux! Gli avvertimenti, molteplici per due decenni, sono stati interpretati solo singolarmente, volta per volta, senza che fosse chiaro il filo conduttore comune.

Questi Europei hanno dimenticato le condizioni in cui il padrone del Cremlino è stato insediato al potere, "sbattendo i Ceceni nel cesso" nel 1999. Non ricordavano più le sue reazioni indignate nel 2004, durante le "rivoluzioni colorate" percepite esclusivamente come complotti alimentati dall'Occidente. Non hanno ascoltato il suo discorso a Monaco nel 2007. Nel 2008 sono stati sollevati dal fatto che la presidenza francese del Consiglio dell'Unione fosse riuscita a convincere Vladimir Putin a non "andare fino a Tbilisi per impiccare Saakashvili". Hanno dimenticato che c'era già stata una prima guerra in Ucraina nel 2014 che aveva portato all'annessione della Crimea e a un conflitto congelato nel Donbass. Con, in risposta, sanzioni deboli e prive di efficacia. Non hanno capito che la Siria poteva essere un banco di prova per l'esercito russo, come la Spagna lo era stata per le forze naziste, né che le forze di Wagner in Libia, nella Repubblica Centrafricana e in Mali potevano divenire una sorta di legioni Condor. Non hanno percepito la nuova tattica russa di soffocare le libertà e riprendere il controllo, in Bielorussia, come nel Caucaso meridionale e in Asia centrale (Kazakistan a gennaio). Hanno minimizzato la marcia costante, deliberata e spietata verso l'autocrazia con i leader dell'opposizione uccisi, avvelenati o imprigionati, una Memoria calpestata con la chiusura del Memoriale. Ogni colpo di avvertimento, annotato e cancellato nei conti delle perdite, era seguito dall’assopimento e dal ritorno alle proprie attività.

Alcuni trovarono circostanze attenuanti, in vaghi impegni verbali trent'anni prima o in sentimenti di umiliazione russi che erano molto pratici e troppo facilmente condivisibili. I partiti politici populisti hanno fatto eco ovunque in Europa, con compiacimento, trasmessi da social network, gruppi di troll e media sovvenzionati da Mosca. Le apprensioni ragionate dell'Est e del Nord Europa furono spesso anche percepite come esagerate o addirittura ossessive dall'Occidente. E poi c'era la NATO e noi stessi contribuivamo alla sicurezza del suo fianco orientale inviando alcune pattuglie aeree (di “enhanced forward presence” e “tailored forward presence”). Il soprassalto intellettuale europeo non era quindi per niente evidente.

Eppure è successo. La violenza e gli errori di Putin hanno dilapidato questi guadagni di propaganda in pochi giorni, cambiato la narrativa e reso, almeno per il momento, l'Europa vincitrice nella guerra dell'informazione.

Quando gli Americani ci hanno avvertito pubblicamente all'inizio di febbraio dell'imminenza di un'invasione russa, senza dubbio abbiamo comunque preferito vedere gli assembramenti alle frontiere come una classica manovra intimidatoria, cui sarebbero seguiti semplicemente attacchi informatici e qualche presa territoriale con azioni ibride, come nel 2014. A nostra (parziale, N.d.T.) discolpa, avevamo ancora in mente le precedenti manipolazioni americane dell'intelligence che avevano preceduto, e giustificato per alcuni europei, la guerra in Iraq. Gli Europei hanno cominciato ad aprire gli occhi con sorpresa e ad ascoltare con stupore, il 21 febbraio, le invocazioni di guerra di Putin nel suo discorso televisivo, che parlava non di un impero sovietico e bolscevico, ma dell'Impero russo, più probabilmente quello di Caterina II (con l'Ucraina, il Caucaso, i paesi baltici, perfino la Finlandia) che non quello di Pietro il Grande. Alla fine gli Europei si sono svegliati il ​​24 febbraio sotto i colpi dei cannoni in Ucraina. Sono stati in grado di rispondere in modo rapido, fermo e unito. È stato adottato un regime di sanzioni senza precedenti, 500 milioni di euro sono stati sbloccati in due giorni per fornire

armi letali alle forze ucraine per difendersi dall'aggressione russa, attraverso un Fondo europeo per la pace, sono stati rilasciati fondi per i rifugiati, l’Ungheria e la Polonia si sono unite, la Germania ha cambiato il suo rapporto con la difesa, annunciando un aumento della sua spesa militare annuale a oltre il 2% del suo PIL e lo svincolo immediato di 100 miliardi di euro per modernizzare il suo esercito. La Danimarca ha annunciato l'organizzazione di un referendum sulla sua adesione alla politica di difesa comune e la Finlandia e la Svezia intendono avvicinarsi alla NATO.

 

IL GIORNO DELL'EUROPA SI AVVICINA?

Al Vertice di Versailles del 10 e 11 marzo, questi progressi sono stati ripresi e le prospettive sono state tracciate. Ora si tratta di registrarli a lungo termine. “L'Ucraina fa parte della nostra famiglia europea” (dichiarazione di Versailles) ma la famiglia europea dovrà ancora superare debolezze, insidie ​​e illusioni. I dibattiti sulle consegne di armi, come le palinodie sui MiG 29, le domande sulle no-fly zone, cioè sulle zone di sicurezza, sono solo all'inizio. La questione degli idrocarburi russi e dell'indipendenza energetica rimane per ora delicata e richiede alla Germania di fare, questa volta, scelte più giudiziose e solidali di quelle fatte abbandonando il nucleare.

A breve termine, il fattore militare prevarrà necessariamente sulle tentazioni e costruzioni diplomatiche.

La ricalibrata "bussola strategica" dell'Unione europea, che dovrebbe essere adottata dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo, si confronterà infatti con l'evoluzione della situazione militare sul terreno in Ucraina e le contingenze delle alleanze. Questa "bussola strategica" dovrà confrontarsi anche con le reciproche politiche di armamento degli uni e degli altri. Così come la difesa europea non significa acquisti privilegiati di armi francesi e/o europee, il rapporto transatlantico rinvigorito dalla crisi ucraina non dovrebbe significare l'obbligo di acquistare sistemi americani, compreso l'F35. Partner come la Finlandia e la Svezia, in mancanza della NATO a breve termine, potrebbero mettere l’accento sulle clausole di solidarietà europea e sull'articolo 42, paragrafo 7 del TUE, che è letteralmente più vincolante dell'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

L'atteggiamento e l'intimidazione nucleare di Putin potrebbero prendere di mira più in particolare alcuni partner europei, tra i quali gli Stati baltici (il passo di Suwałki tra la Lituania e la Polonia che porta all'exclave di Kaliningrad) e persino membri dell'Alleanza. Il regolare accenno al chimico, al biologico e al nucleare, dal 21 febbraio, nei discorsi di Putin come di Lavrov, il passaggio a una prima fase di allerta nucleare, gli attacchi alle centrali elettriche, danno una certa idea delle intimidazioni a venire. Stiamo già cercando di prevenire questa salita estrema dei toni, con responsabilità, determinazione e sangue freddo (rapporto americano di un lancio di prova di missili balistici intercontinentali; ricordo del carattere nucleare dell'Alleanza atlantica da parte del ministro degli Affari esteri francese).

 

In questo contesto, le ambizioni spesso francesi in merito alla difesa europea e all'autonomia strategica dovranno integrare le esacerbate preoccupazioni dell'Europa centrale e orientale, la situazione americana esistente e le procedure per esercitare le garanzie nucleari nel nostro continente, forse per raggiungere un migliore equilibrio tra “Europa della difesa” e un vero e proprio “pilastro europeo della NATO”, mai tentato. Esiste, agli occhi di alcuni puristi europei e francesi, un assoluto antagonismo tra la PESD e il concetto NATO dell'Iniziativa di sicurezza e di difesa europea (ESDI). Dato l'attaccamento viscerale e rafforzato dagli eventi di molti dei nostri partner della NATO, da un lato, e i significativi progressi dell’Europa nella difesa e delle prospettive americane per riequilibrare le loro priorità, dall'altro, è giunto il momento di conciliare questi due approcci dando sostanza al “pilastro europeo”. Sarebbe assurdo per gli europei potersi esprimere collettivamente nell'Alleanza, come hanno fatto per lungo tempo con successo nell'OSCE, quando questa organizzazione era viva e fertile? Sarebbe anormale che il posto degli europei si riflettesse meglio negli organi e nelle procedure dell'Alleanza, e negli alti comandi della NATO (SACEUR aggiunto a rotazione europea, ancor più che SACT)?

 

In queste condizioni, l'“autonomia strategica” sarebbe senza dubbio molto più facilmente accolta e incoraggiata da tutti i partner europei nel campo della difesa. E gli altri settori, altrettanto imperativi, dell'indipendenza energetica, industriale e tecnologica offriranno ulteriori opportunità agli Europei per raggiungere un'autentica e credibile "autonomia strategica", con tutti i mezzi e l'esperienza rinnovati dell'Unione europea.

Come estensione del Vertice di Versailles, e accompagnando una soluzione alla guerra in Ucraina, “la spada potrebbe scomparire e le stelle rimanere”; un decennio di Europa potrebbe allora prendere forma.