Il processo del secolo a Parigi serve alla verità e alla memoria. L’attentato al Bataclan del 13 novembre 2015 ha prodotto la necessità di costruire un racconto condiviso come argine al terrorismo. Fondamentale è il ruolo «civile» dei testimoni nel procedimento giudiziario. L’8 settembre scorso si è aperto in Francia, con la prima udienza, il 'processo del secolo' per gli attentati terroristici avvenuti poco più di sei anni fa, nella notte del 13 novembre 2015, al Bataclan, allo Stadio di Francia e in alcuni caffè di Parigi che costarono la vita a 130 persone e le ferite di altre 350 vittime, cittadini di 26 diverse nazionalità. A rendere unico il processo non solo i numeri: il milione di pagine che conta tutta l’istruttoria o le ben 1.800 parti civili, il peso e il valore di un evento di questo tipo risiede piuttosto nella lunga scia di testimonianze, nelle deposizioni delle vittime, come è stato per la Shoah. Il ministro francese della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, ha detto: «Il mondo intero ci guarda». Ma nel senso di voler imprimere nel processo un modello di virtù e una lezione per tutti; in analogia con quanto occorso in almeno altri due processi del XX secolo al cui centro sono state poste le testimonianze delle vittime. Il primo è quello che si aprì sempre in Francia nel 1998 a Bordeaux contro Maurice Papon, accusato di crimini contro l’umanità nel suo ruolo di funzionario del governo filonazista del maresciallo Philippe Pétain. Il secondo, reso ancor più celebre dai reportage di Hanna Arendt poi confluiti ne 'La banalità del male', è stato il processo svoltosi a Gerusalemme 70 anni fa ad Adolf Eichmann, contro l’ex SS-Obersturmbannführer accusato dell’omicidio di milioni di Ebrei. Il punto critico di queste operazioni, su cui dovremmo riflettere e discutere maggiormente, risiede nel paradosso di voler costruire una memoria collettiva e un discorso pubblico comune verso fatti di sangue, come genocidi e terrorismi, che non possono che produrre memorie confliggenti.
Barbara de Munari
Dopo gli attentati: veglia e torpore
di Rav Haïm Fabrizio Cipriani
L’effetto dello shock che ha seguìto i fatti di Parigi va progressivamente riducendosi, man mano che il tempo passa e la gente ritorna alla cosiddetta normalità. Ma è proprio adesso, a mente fredda e cuore calmo, che bisogna sapersi interrogare. Sul passato, sul presente, sul futuro.
Mi pare, infatti, evidente che quanto accaduto in Francia non sia un episodio isolato, ma appena la punta di un iceberg di qualcosa di molto più profondo e grave. Allo stesso tempo, abbiamo potuto osservare enormi movimenti di folla mentre la tempestiva azione del governo francese nell’affrontare la situazione di grave crisi sembra aver rassicurato molte persone.
Ma è giustificato sentirsi rassicurati da questo? Il nostro istinto di sopravvivenza ci spinge in questa direzione, perché sarebbe difficile, altrimenti, vivere con la consapevolezza di un grande pericolo, mentre ogni essere umano ha bisogno di sentirsi fiducioso per costruire il proprio futuro. Ma l'Ebraismo si è sempre fondato proprio su una buona dose di sfiducia nei confronti degli istinti e delle inclinazioni naturali. La Torah ci mette in guardia contro tutto questo dicendo: “E voi non vi distrarrete seguendo il vostro cuore e seguendo i vostri occhi, dietro i quali vi prostituireste” (Numeri 15:39). Ciò che si richiede all'Ebreo, quindi, è di essere sempre vigile e rigoroso riguardo a se stesso e alla sua capacità di negazione e di illusione.
Purtroppo, sovente, gli Ebrei hanno avuto una visione alterata di quella che è la realtà. La Torah ci mostra, infatti, questo popolo liberato dalla schiavitù che passava la maggior parte del suo tempo a lamentarsi e a rimpiangere l’Egitto, il cibo abbondante e la vita tranquilla che vi trascorreva. Si trattava probabilmente di una idealizzazione del passato, che generava una visione ottimistica di un futuro in cui gli Ebrei, tornati in Egitto, avrebbero potuto essere accolti diversamente, in considerazione del fatto che la loro partenza aveva privato questo Paese di un elemento così importante. Come avrebbe potuto l'Egitto, senza gli Ebrei d'Egitto, essere l'Egitto? D’altra parte, il Faraone non aveva forse inseguito i figli di Israele per convincerli a tornare tanto erano importanti?
Il popolo ebraico nel deserto continua, quindi, a essere attratto dalla calamita egiziana verso la quale desidera tornare, soltanto perché, a causa della durezza del suo lungo peregrinare, ha bisogno di idealizzare l’Egitto che in passato lo aveva accolto, nutrito, apprezzato. Dimenticava che a volte le cose cambiano irrimediabilmente. Questo è ciò che significa la Torah quando, dopo la morte di Giuseppe, dice: "Ma ecco che sorse in Egitto un nuovo Faraone che non conosceva Giuseppe" (Esodo 1:6).
A volte i tempi e le condizioni sociali cambiano e un luogo che prima favoriva una vita ebraica diventa minaccioso e irto di pericoli. È lecito chiedersi se oggi qualcosa di simile non stia succedendo in Europa, in generale, e in Francia, in particolare.
Una prima grande domanda che dobbiamo porci è: ma perché sempre gli Ebrei? Siamo ben consapevoli del fatto che tutta l’Europa subisca gli effetti di una crisi che non è esclusivamente economica, ma anche e, soprattutto, identitaria, una crisi che pare rimettere in questione la sua natura e le sue basi democratiche. Tuttavia, gli Ebrei restano sempre, a volte soli a volte in compagnia, nel mirino degli artigiani dell’odio. La risposta classica è: a causa dell’antisemitismo, che si nutre dei conflitti religiosi e intercomunitari, e a causa del conflitto israelo-palestinese. Questa risposta contiene, però, una profonda imprecisione, che sembrerebbe di natura puramente linguistica, ma che ha radici ben più profonde. Quando usiamo la parola "antisemitismo", commettiamo un errore fondamentale. Questo fenomeno che ci segue fin dall'antichità e non ci lascia andare, non è antisemitismo, ma antigiudaismo, che è tutt'altra cosa.
Gli Ebrei sono ben lontani dall’essere tutti “semiti”, così come molti semiti non sono affatto Ebrei. Gli Ebrei, cioè, sono presi di mira non tanto in quanto individui o membri di una classe sociale o di un gruppo biologico, ma proprio in quanto portatori e custodi di una cultura, l’ebraismo, che non è semplicemente una religione, né una politica di stato, ma piuttosto un modo di rivolgere il proprio sguardo verso il mondo e verso l’essere umano. Precisamente questo sguardo non è mai stato perdonato all’Ebraismo e agli Ebrei che ne sono i portatori. Come abbiamo appena visto, è in opposizione a noi stessi e ad alcune nostre inclinazioni, ciò che chiamiamo "il cuore" (posso solo raccomandare il lavoro di Monique Lise Cohen su questo argomento: "Gli ebrei hanno un cuore?" Pubblicato da Ed.Vent Terral).
A partire da ciò, l'Ebraismo come cultura (e non solo come religione) si iscrive come forma di opposizione attiva alle diverse forme di idolatria, vale a dire le abitudini, le inclinazioni, il compiacimento che sono al "cuore" delle società umane. È questo aspetto del giudaismo che le società non hanno mai tollerato, poiché alimenta il pensiero libero e critico. L'Ebraismo è essenzialmente iconoclasta, distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli, e nega l'onnipotenza dell'uomo, delle sue istituzioni, dei suoi princìpi e delle sue ideologie elevate al rango di Legge. Ecco perché, quando l'Ebraismo parla di idolatria, tratta di questo atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, che va ben oltre un concetto strettamente religioso.
Un ebraismo inteso in primis come pratica culturale (e non soltanto come religione da professare) finisce inevitabilmente per decostruire le diverse forme di idolatria, cioè le abitudini, le tradizioni e alcuni dei valori dominanti nelle società dei gentili. È, dunque, questo aspetto che le società non hanno mai tollerato perché foriero di un pensiero critico e libertario.
L’ebraismo è per sua natura iconoclasta: distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli e nega l’onnipotenza dell’uomo, delle sue istituzioni e di tutti i sistemi di pensiero che possiamo definire “totalizzanti”.
Contrastare l’idolatria significa proprio favorire un atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, pratica che si spinge ben di là dell’ambito strettamente religioso.
I Saggi hanno spiegato che la parola Sinai è simile alla parola Sin’à, odio (TB Shabbat 89a), sottolineando che questa caratteristica di resistenza e di autonomia dello spirito, che proviene dalla nostra tradizione, avrebbe necessariamente generato una reazione di odio presso gli altri, poiché l’Ebraismo è nella sua essenza spirito di protesta, di disobbedienza e di dissenso e, dunque, atto di resistenza. È per questo che l'imbianchino austriaco che tentò di sterminare gli Ebrei disse che la coscienza era un'invenzione ebraica. Perché l'Ebraismo ha sempre lottato per non permettere che le coscienze si addormentassero con slogan, parole compiacenti, vuote promesse e tutte le diverse strategie che le società e le istituzioni usano per dominare meglio gli spiriti.
Come Ebrei, la prima risposta che dovremmo dare è quella che realizza questa essenza del giudaismo e la afferma nonostante tutto. È fondamentale che, oltre ad andare oltre la concezione esclusivamente religiosa della vita ebraica, si re-impari la sua forza iconoclasta e dissacrante, perché è questa che vogliono distruggere quando attaccano gli Ebrei, dal momento che l'Ebraismo è in sostanza protesta, disobbedienza, capacità di dissenso e quindi atto di resistenza, e questo si ritrova nella storia biblica fondativa così come nella vita ebraica.
Il patriarca Abramo lascia il suo paese natale per sottrarsi al modello culturale mesopotamico che vuole che il destino di un uomo sia deciso dagli astri ed è immaginato dai Maestri come un uomo che frantuma letteralmente gli idoli del padre.
Mosè uccide volontariamente un egiziano per porre l’accento sul fallimento di quel modello sociale che legittima l’ineguaglianza tra gli uomini.
Prima di uscire dall’Egitto, gli Ebrei devono prendere e custodire per tre giorni un agnello, animale considerato sacro dagli egiziani, per poi sacrificarlo, allo scopo di uccidere simbolicamente l’idolatria in cui si bagnava tutto l'Egitto, compresi gli stessi Ebrei. Idolatria che significa soprattutto elevare a legge divina un modello sociale o politico che permetterebbe di schiacciare, dominare, umiliare l'altro negando la sua legittimità di essere.
A livello di vita ebraica troviamo la stessa posizione critica. Investire tempo nello studio significa mantenere uno stato di ricerca nonostante una vita moderna sempre più consumata dalla ricerca del divertimento e dell'agio. Mangiare Kosher significa lottare contro una cultura edonistica in cui tutti i piaceri sono consentiti. Pregare significa soprattutto ribellarsi alla tendenza dell'uomo a vedere se stesso onnipotente, o a vedere gli altri uomini in questo modo. Non usare soldi per lo Shabbat è un modo per ribellarsi a tutti i costi alla società consumistica, dove gli esseri umani sono definiti solo dal loro potere d'acquisto.
L'Ebraismo ha sempre funzionato come forza di resistenza contro ogni omologazione del pensiero e della pratica, e come rifiuto di tutte le idee ricevute.
È quindi estremamente importante che oggi gli Ebrei sappiano essere all'altezza di questa tradizione, mantenendo uno spirito critico e una lucidità che li aiutino a comprendere ciò che tutti sappiamo, ma che tutti noi abbiamo difficoltà ad accettare e a verbalizzare, ovvero:
-Passando dall’antico Egitto alla situazione attuale, vediamo che il modello francese di integrazione è del tutto fallito e non è detto che si riesca a elaborarne uno nuovo prima che sia troppo tardi. Anche l’idea di laicità che è stata sostenuta in questi anni non ha avuto successo, probabilmente perché non è né realistica né ragionevole e, in taluni casi, viene applicata in modo inefficace, infatti, nonostante la proibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, non è raro che nelle scuole della Repubblica gli alunni preparino il Natale per un intero mese scolastico. Questo discorso meriterebbe, naturalmente, un maggiore approfondimento, ci basti dire in questa sede che tale modello assimilazionista, in cui qualsiasi diversità è negata e soffocata nel nome di un malinteso senso dell’uguaglianza, quand’anche non venga ridotto a pura retorica, non possa comunque funzionare in un mondo in cui, al contrario, crescenti disuguaglianze sociali fanno sorgere sempre più la domanda di ricerca di identità, soprattutto tra i giovani che crescono lontano dalle proprie radici senza essere veramente integrati nelle società europee. Il modello francese chiede a ogni gruppo di negare la propria specificità e quindi la propria esistenza “particolare”, richiesta che oggi appare obsoleta e, in fondo, anche assurda. Inoltre, questo modello di laicità, basato su una netta separazione tra la sfera pubblica e quella privata, può difficilmente essere applicato a delle culture che, come l’ebraismo, non sono limitate al campo della religione, finendo quindi con il mettere in evidenza una profonda incomprensione di queste stesse culture.
-Anche dopo i fatti citati, non sembra che il governo e i cittadini francesi abbiano valutato la gravità del processo in corso. Per citare lo storico Georges Bensoussan: “si è fatto come il solito in questo Paese, abbiamo rifiutato di vedere e di dare un nome, abbiamo gettato la polvere sotto il tappeto. Non abbiamo fatto altro che rinviare l’esplosione”.
- Inoltre, nelle grandi manifestazioni che hanno seguìto gli attentati c’erano molti meno “Je suis Juif ” che “Je suis Charlie”, cosa che non è sfuggita alla stampa internazionale. Questo dimostra che, nonostante tutto, il fatto di essere assassinato poiché Ebreo è un fatto, certamente poco simpatico, ma che rientra nelle abitudini ed è quindi tollerabile, mentre non lo è, nel caso in cui vengano uccisi dei giornalisti (e per fortuna).
- La presenza di alcune personalità politiche all'interno della grande marcia parigina ci ricorda anche che le ragioni della politica prevalgono, e prevarranno sempre sulle altre, il che ha comportato nel recente passato un abbandono degli Ebrei con l'obiettivo di mantenere una pace politica e quindi economica con certe culture e certi paesi. Questa realtà difficilmente cambierà, se si considerano gli equilibri politici, sociali e demografici dell'Europa di oggi e di domani. Il fatto stesso che il presidente della Repubblica abbia affermato, subito dopo gli attentati, che i fanatici "non avevano nulla a che fare con la religione musulmana", mostra chiaramente questa priorità.
Nel momento in cui i militari iniziano ad abbandonare i luoghi della nostra comunità con sguardo preoccupato e raccomandazioni alla prudenza, credo che sia fondamentale che gli Ebrei sappiano usare quest'arma fondamentale dell'identità che indubbiamente ha guadagnato loro molto odio, ma che è la base della cultura ebraica, cioè l'autonomia della mente e del dissenso.
Ci sembra, infine, fondamentale che gli Ebrei non si facciano sedurre dagli slogan pronunciati con troppa facilità da alcuni membri del governo e dalle promesse rassicuranti che li accompagnano. Occorre considerare seriamente la possibilità che la Francia, come forse anche altri Paesi europei, possano non essere più luoghi sicuri per i cittadini ebrei. Se alcuni personaggi sono in grado di agire e perpetrare atti terroristici, ciò significa che l'intelligence francese (e forse anche di altri paesi) non è in grado di impedirlo, e dobbiamo abituarci all'idea di aumentare la percezione del pericolo.
È essenziale non dimenticare che a volte la storia cambia e che, poiché gli Ebrei furono prima accolti e poi rigettati dall'Egitto, è possibile che l'Europa non sia più un luogo adatto per gli Ebrei.
Queste sono verità dure, sgradevoli da sentire, certo, ma verità necessarie, a mio modesto parere. Non contengono risposte, perché offrirne una significherebbe voler essere un guru del pensiero. Ma questi sono i risvegli necessari per gli Ebrei di oggi, che hanno il dovere di interrogarsi non solo nei confronti di se stessi, ma per le generazioni che li seguiranno, e che rischiano di pagare il prezzo delle loro scelte attuali.
Non sappiamo dove questi interrogativi ci condurranno, ma nello stesso tempo è bene continuare a interrogarci, senza il timore di dispiacere a qualcuno, né agli uomini né a Dio, che ha mantenuto in vita l’essenza del popolo ebraico.
Questa essenza si fonda e si costruisce sul dissenso, strumento di vita e di crescita, e non sul consenso, questa rassicurante forma di idolatria che porta al torpore della coscienza. Non è una questione di sopravvivenza, ma qualcosa di più profondo.
Sopravvivere significa vivere in superficie. Il vero problema è come sopravvivere in un contesto in cui sarebbe impossibile per gli Ebrei vivere ed esprimersi pienamente.
Per poter rendersi conto della differenza tra questi due concetti, credendo di vivere quando si sopravvive, occorre agli Ebrei di oggi un lavoro e una riflessione profondi, per mantenere uno stato di vero risveglio, e non di torpore.
http://www.etzhaim.eu/dopo-gli-attentati-veglia-e-torpore/
http://haim.cipriani.free.fr/articles_et_podcast_045.htm#Article2