BREVE STORIA DEL GHETTO DI VENEZIA

 

Per centinaia di anni, gli ebrei furono confinati in un piccolo quartiere della città, dando origine al termine “ghetto”.

Di Harry Freedman

Traduzione dall’inglese a cura di Barbara de Munari

 

 

Venezia non fu la prima città a confinare i suoi Ebrei in un unico quartiere, ma fu la prima a rinchiuderli di notte. Dal 1516 al 1797 gli ebrei di Venezia furono costretti a vivere in una baraccopoli umida, sovraffollata, squallida e traballante. Eppure, nonostante la povertà, le difficoltà e la disperazione che caratterizzavano la vita nel Ghetto di Venezia, la città prigione divenne il cuore globale della cultura ebraica nel corso dei secoli XVI e XVII; il centro ebraico più vivace d’Europa.

I primi prestatori di denaro Ebrei a poter operare sul territorio veneziano arrivarono nel 1298. I Veneziani concessero loro una licenza per prestare denaro, addebitarono loro una commissione per il privilegio, determinarono il tasso di interesse che potevano applicare e li limitarono a risiedere in Mestre, nella terraferma veneziana. Permettevano loro di entrare nella città di Venezia per non più di 15 giorni consecutivi. Tuttavia potevano entrare in città in qualsiasi momento se la loro vita fosse stata in pericolo a causa di un'invasione nemica.

Nel 1509 la Repubblica di Venezia fu invasa dagli eserciti della Lega di Cambrai. Gli Ebrei di Mestre, in pericolo di vita, fuggirono attraverso la laguna ed entrarono nella città di Venezia.

Ora che erano in città, il Senato veneziano decise che era più conveniente permettere agli Ebrei di restare. Le agenzie di pegno ebraiche detenevano dozzine di pegni depositati dai loro clienti in cambio di prestiti; era molto più logico che restassero in città con i loro depositi piuttosto che farli tornare a Mestre dove correvano il rischio di essere saccheggiati in caso d’invasione di un altro esercito. Inoltre era più conveniente per i poveri della città poter prendere in prestito denaro sul posto, piuttosto che sopportare le spese e il fastidio di viaggiare fino a Mestre. Il Senato addebitò alla Comunità ebraica 14 000 ducati per il privilegio di poter soggiornare. Nel 1511 imposero agli Ebrei una tassa di 5 000 ducati in cambio del diritto di residenza in città.

Da quel momento in poi la vita ebraica a Venezia fu regolata da statuti e tasse. Le licenze davano agli Ebrei il diritto di vivere e prestare denaro in città, le tasse che pagavano portavano fondi nel tesoro della Repubblica. Le licenze erano rinnovate frequentemente e il livello di tassazione doveva essere rinegoziato ogni volta, così come il tasso di interesse che gli Ebrei potevano addebitare sui loro prestiti. Poiché non vi era mai la garanzia che una licenza in scadenza sarebbe stata rinnovata, la vita ebraica a Venezia fu sempre insicura.

La Chiesa non era contenta della presenza di tanti Ebrei in città. I predicatori iniziarono a chiedere la loro espulsione. Non volendo rinunciare alla comodità di avere i propri prestatori di denaro a portata di mano, il Senato decise, nel 1516, di limitarli a una piccola area della città. Accantonarono una vecchia fonderia di rame, ai margini della città, nella quale tutti gli Ebrei furono obbligati a vivere. Circondata da canali, li avrebbe tenuti confinati e avrebbe potuto essere ulteriormente sigillata con un ponte levatoio e cancelli. La zona divenne nota come ghetto, corruzione della parola veneziana geto, che significa fonderia. Il nome ghetto fu adottato da altre città quando anch'esse confinarono la popolazione ebraica in aree ristrette. Il mondo deve la parola ghetto a Venezia.

Il ghetto era costituito da quattro file di case, costruite in un quadrato attorno ad un ampio spazio chiuso o campo. Durante il giorno gli Ebrei erano liberi di lasciare il ghetto mentre i Cristiani potevano entrarvi, ma di notte i cancelli venivano chiusi. Gli Ebrei erano responsabili del pagamento degli stipendi delle quattro guardie cristiane alle porte. Le uniche persone autorizzate a lasciare il ghetto una volta chiusi i cancelli erano i medici ebrei. Come tutti gli altri, i medici erano immediatamente riconoscibili come Ebrei, poiché erano obbligati a indossare caratteristici copricapo gialli: cappelli per gli uomini, quadrati di stoffa o cuffie per le donne. Con il tempo, le case divennero troppo poche per ospitare comodamente tutti. Sebbene gli ebrei di Venezia all'epoca fossero solo poche centinaia, la densità di popolazione del ghetto era almeno doppia rispetto a quella del resto della città. Quasi subito dopo essersi trasferite, le famiglie iniziarono a suddividere i loro minuscoli appartamenti per garantirsi la massima privacy possibile. Utilizzarono tramezzi in legno per ridurre al minimo il carico sul sottosuolo acquoso. Con il tempo, non potendo estendere le loro proprietà verso l'esterno a causa della mancanza di spazio, costruirono verso l'alto, creando strutture torreggianti, imponenti e vacillanti, alte sette o otto piani.

Il sovraffollamento era tale che i piccoli appartamenti potevano ospitare dieci o più persone e molte abitazioni non avevano latrine né caminetti. Il campo stesso non era asfaltato; c'erano fango, terra ed escrementi ovunque, il fetore veniva descritto come insopportabile.

Il ghetto era un luogo di lavoro e una città prigione. Banchi di pegno e negozi di seconda mano occupavano i piani inferiori delle case, con la porta di entrata aperta sulla piazza. Vi erano strette macellerie, un fornaio e un'osteria, nonché spazi per la preghiera, nonostante il decreto del Senato secondo cui non dovevano essere costruite sinagoghe nel ghetto (la cosa poi cambiò).

Gli Ebrei organizzarono come meglio potevano la loro vita nel ghetto. Quando il tempo era bello, il campo fungeva da centro comunitario; era l'unico posto dove lo spazio era gratis. Gli insegnanti tenevano lezioni, i giudici della Corte ebraica giudicavano le controversie, i barbieri tagliavano i capelli, i venditori ambulanti vendevano le loro merci, un artista di strada suonava sperando di guadagnare abbastanza per un pasto, i mendicanti erano onnipresenti. Nonostante le restrizioni sui lavori ufficialmente autorizzati a svolgere, i venditori del campo fornivano la maggior parte delle necessità di cui una famiglia poteva aver bisogno per la vita quotidiana. C'erano bancarelle di frutta e verdura, commercianti di vino, formaggio e pasta, un sarto, un cappellaio, perfino una libreria.

Il ghetto fu ampliato due volte per accogliere immigrati e mercanti la cui presenza, secondo il Senato, avrebbe aiutato la prosperità della città. La prima nuova area, inaugurata nel 1541, detta ghetto vecchio, fu costruita su un'area vuota compresa tra due canali, e collegata da un ponte al ghetto esistente. La seconda zona, aggiunta nel 1633, fu il ghetto nuovissimo. Apparentemente costruito per ridurre il sovraffollamento nel ghetto, il suo vero scopo era di consentire l'ingresso di più Ebrei e quindi aumentare le entrate fiscali.

Nonostante lo squallore e il sovraffollamento, il ghetto di Venezia fu un luogo straordinario. La presenza di così tanti Ebrei che vivevano fianco a fianco incoraggiava un'atmosfera di erudizione e creatività. Sebbene segregati, Ebrei e Cristiani a Venezia convivessero molto meglio che nella maggior parte degli altri luoghi d’Europa.

Venezia era il centro preminente della stampa di libri ebraici; David Bomberg, un Cristiano, stampò la prima edizione completa del Talmud e la prima Bibbia rabbinica. Fu assistito e guidato da studiosi del ghetto.

Sara Copia Sulam, la principale poetessa italiana del XVI secolo, teneva un salone letterario nel ghetto, al quale partecipavano Cristiani da tutta la città. Anche nobili e chierici cristiani venivano ad ascoltare i sermoni del noto rabbino Leon Modena. Elia Levita, David de Pomis e Simone Luzzatto sono solo alcuni degli altri studiosi e filosofi che vissero e lavorarono nel ghetto. E quando Enrico VIII d'Inghilterra stava cercando di divorziare dalla sua prima moglie, Caterina d'Aragona, inviò un inviato a Elijah Halfon per chiedere una sentenza talmudica. Tra i visitatori del ghetto ci furono il profeta di Shabbetai Zevi, Nathan di Gaza, l'avventuriero David Reuveni e il falso messia, Solomon Molcho.

Le porte del ghetto di Venezia furono definitivamente abbattute quando Napoleone conquistò la città nel 1797. Ma la zona continua ancora a funzionare come centro della vita ebraica, poiché è dove si trovano le sinagoghe.

Quando i nazisti entrarono a Venezia nel 1943 ordinarono al Presidente della Comunità ebraica Giuseppe Jona di consegnare i nomi di tutti gli Ebrei della città. Gli furono dati due giorni per farlo. Egli trascorse questo tempo distruggendo ogni singolo documento che riuscì a trovare, relativo alla Comunità ebraica. Avvertì tutti gli Ebrei di scappare se potevano, altrimenti disse loro che avrebbero dovuto nascondersi. Quando ebbe fatto tutto ciò che riteneva di dover fare, scrisse il suo testamento e si tolse la vita. I Tedeschi non ebbero mai la lista dei nomi. Due giorni dopo, quando i nazisti fecero irruzione nel ghetto, trovarono poco più di 100 persone. Giuseppe Jona si era tolto la vita per salvarne più di 1 000.

 

Harry Freedman è autore di sette libri, tra cui Shylock’s Venice: The Remarkable History of the Venice Ghetto (Bloomsbury Continuum), 2024.

 

 

 

 

 

 

 

DA ISRAELE – ULTIMA ORA, a cura di Joseph Kalowski, 05 giugno 2024

 

3 000 poliziotti, mischiati ai manifestanti, a Gerusalemme per Yom Yerushalaim sono sfilati, più o meno visibili, durante la manifestazione delle bandiere.

Scontri, ieri, tra ebrei e arabi, sono stati sedati dalla polizia.

 

Ricordiamo che il 68 per cento della popolazione di Gerusalemme è forza lavoro.

Il 32 per cento non lavora.

Il 46 per cento è haredim.

Il 37 per cento è costituito da religiosi tradizionali.

Il 17 per cento da laici....

 

Netanyahu in visita al nord:

"Siamo pronti per un'azione forte contro Hezbollah".

 

Approvato l'aumento dei riservisti a 350.000 fino a fine Agosto

Si sale da da 300 a 350mila (+ 50mila).

 

Hurfeish, villaggio druso tra Meron e Maalot, colpito da un drone di Hezbollah che ha provocato 11 feriti di cui 2 gravissimi. Per ora dichiarato morto 1 soldato ferito dal drone, Rafael Kauders, che era un riservista di 39 anni.

 

Appello alla comunità internazionale del presidente Herzog sull'aggressione che Israele sta subendo dal Libano: il mondo deve svegliarsi e Israele il diritto di difendere i propri cittadini.

 

 

 

«Un'Europa migliore» e le minacce del populismo alle elezioni

del Parlamento Europeo

(Alain de KEGHEL)

 

Un’Europa migliore, questa è la formula che mi auguro di sviluppare con voi all’avvicinarsi delle elezioni europee del 9 giugno 2024.

«2024, l’anno degli elettori», titolava Alain Frachon su Le Monde il 9 febbraio, riferendosi ai 60 paesi che sottoporranno le loro scelte al voto degli elettori.

In Europa, i sondaggi prevedono un’impennata dell’estrema destra in un contesto di discredito delle élite e della policrisi che l’umanità sta attraversando.

Ma «la prima resistenza è quella della mente», ci dice Edgard Morin.

Ma se l’Europa è migliore, sicuramente più vicina al cittadino, è anche, in buona parte, perché è più capace di comunicare e spiegare le conquiste di quanto è stato via via costruito in un arco di tempo in fondo non così lungo, guardando di più da vicino, dopo il Trattato di Roma del 1957 e quello della CECA del 1951.

L'opinione pubblica non ne è ancora sufficientemente consapevole: si tratta ancora e nonostante tutto di un'area di pace duratura, nonostante i conflitti regionali che ha vissuto nell’ex Jugoslavia e la guerra dichiarata dalla Russia all’Ucraina dal 2014 con l’annessione della Crimea e poi la sua fulminante invasione nel febbraio 2022; ciò illustra in modo molto concreto l’importanza di una UE forte e del mantenimento degli equilibri essenziali e dei rapporti di forza in un contesto internazionale di dominio sempre più assertivo dei grandi gruppi geopolitici regionali e di fronte a due grandi potenze mondiali rivali: gli Stati Uniti d’America e la Cina.

Senza trascurare le altre potenze e continenti emergenti: i BRICS e le nuove sfide poste dal «sud globale». Questa piccola appendice dell’Eurasia è, non dimentichiamolo, la culla in cui è apparso ed è fiorito l’Illuminismo e da cui sono emersi valori inestimabili per tutti, anche se resta ancora molto da fare e i detrattori tradizionali e populisti ne fanno una questione politica che costituisce una vera sfida di fronte a un elettorato disorientato.

I risultati di recenti sondaggi in Francia hanno mostrato che il numero di connazionali che affermano che altri regimi potrebbero essere altrettanto validi quanto la democrazia sarebbe salito al 36% degli intervistati, e ciò merita ancora più attenzione poiché in diversi paesi dell’Europa dell’Est così come in Italia, Paese firmatario del Trattato di Roma, queste posizioni sono quelle dei partiti di governo.

Il caso della Polonia, con il recente ritorno al potere attraverso le urne dei partiti democratici dopo un governo a lungo dominato da oscurantisti che non hanno esitato a rompere il contratto di fiducia con l’UE, ci insegna che questo è possibile. Le sfide e gli eccessi cui è abituata l'Ungheria di Orban a Bruxelles devono allertarci e spingerci a essere più fermi e determinati a non cedere nulla. Ma l’Italia di Madame Meloni ci insegna anche i limiti della «realpolitik» in relazione agli atteggiamenti elettorali antieuropei messi alla prova dell’esercizio del potere. Nessuno può ignorare una certa disaffezione nei confronti della democrazia, compresa la (e forse a cominciare dalla) Francia. È consustanziale a quel riferimento all’universalità di valori a lungo considerati come parametri strutturanti, minati tanto dal «trumpismo» americano, che scredita la democrazia, quanto dalle posizioni assunte dalla Cina di Xi Jin Ping  e dalla Russia di Putin.

 

Un’Europa migliore significa tenere maggiormente conto di coloro che restano o hanno la sensazione di rimanere dimenticati o sacrificati dal progetto. Un progetto politico, economico, sociale e umano che non è giunto a compimento. E che ha i suoi difetti così spesso e giustamente denunciati: l’eccessiva enfasi data alla finanziarizzazione e la priorità data alle dottrine ispirate alle grandi istituzioni finanziarie internazionali, l’assenza di una reale risposta strutturale dopo la crisi del 2008 e l’urgente necessità per le élite dirigenti «sicure e dominanti» addestrate – o distorte? - nel crogiolo delle Grandes Écoles, di abbandonare le proprie fredde e lontane certezze tecnocratiche, per ascoltare meglio il senso comune degli elettori, cittadini desiderosi di partecipare alla preparazione di politiche meglio concertate.

 

Un’Europa migliore è anche consapevolezza dei punti di forza e di debolezza di una BCE e della necessità di ripensare politiche monetarie e di bilancio che portano ancora troppo il sigillo di una Germania ancora «culturalmente» prigioniera del trauma delle svalutazioni subite, nel corso della sua storia, che rovinò in gran parte la democrazia e portò all’avvento della barbarie nazista.

Si evita così il ritorno alle pagine più oscure di una storia tragica che ha visto la scommessa di Hegel, Heine, Goethe, Schiller e Kant condurre il mondo in una conflagrazione senza precedenti ma che i politici avevano voluto ignorare per colpevole debolezza.

Certo, la storia non si ripete, ma come ha giustamente detto un personaggio famoso, «a volte balbetta». Ebbene sì, oggi non possiamo fare a meno di modificare gli equilibri di potere nell’Europa dei 27, attraverso l’attuazione di una pedagogia politica essenziale sia a livello di dialogo intergovernativo sia a livello delle istituzioni europee, senza dimenticare, anche in questo caso, la parte che ricadrà sui cittadini e su di noi Massoni individualmente e collettivamente.

Il precedente non ancora del tutto compiuto della BREXIT, con il suo carico di incertezze, di devastanti «verità alternative» su un modello importato dall’America, dove al primo posto c’è la spudorata relativizzazione dell’informazione pur verificabile e il rischio di una débacle politica britannica, alla quale si aggiunge la caduta libera della sterlina, dovrebbe aiutarci ad aprire gli occhi e a fornire maggiore lucidità.

 

Un’Europa migliore è proprio l’EURO, che ha festeggiato il suo ventesimo anniversario nel 2022, sinonimo di fluidità dei viaggi e dei mezzi di pagamento intra-europei, all’interno della zona euro. Sembra, secondo i sondaggi, che questo sia ancora uno degli aspetti meglio percepiti dall'opinione pubblica e bisogna evidenziarlo.

 

Un’Europa migliore è anche, e sarà in larga misura, la soluzione alla difficile equazione tra mantenimento, o meglio, ripristino del reddito disponibile per le famiglie, osando rimettere in discussione, come aveva fatto il Club di Roma, il nesso univoco tra crescita e benessere. Il che impone di integrare simultaneamente ("allo stesso tempo"...) le aspettative della società, la tutela dell'ambiente e lo stato del mondo cui si è fatto riferimento nell'introduzione. L’Europa, benché ridotta oggi solo a una piccola appendice nel nostro universo globalizzato e multipolare, possiede ancora tutto il considerevole potenziale del genio delle sue forze unite e tutto il peso del suo simbolismo storico, purché ne siamo sufficientemente convinti, per dispiegarli a beneficio dei cittadini pieni di dubbi. Un’Europa federale o un’Europa delle Nazioni sognata da De Gaulle, dall’Atlantico agli Urali, è divenuta una visione dell’anima almeno dopo le ripetute aggressioni di una Russia che alimenta il sogno di una ricostituzione dell’ex impero sovietico. Evitiamo quindi falsi dibattiti senza privarci dei nostri sogni.

 

Un’Europa migliore richiede di tenere conto delle realtà e dei sentimenti dei cittadini che si esprimeranno alle urne il 9 giugno. Uno studio qualitativo realizzato dall’organizzazione indipendente «DESTIN COMMUN» ci allerta fin dal titolo: «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: le cause di una grande disconnessione».

 

Prima osservazione allarmante: quasi nessuno dei partecipanti allo studio era a conoscenza delle elezioni che si terranno nel prossimo giugno. Altrettanto preoccupante, solo il 53% dei francesi intervistati ritiene che l'Unione europea sia un'organizzazione democratica. La visione dominante è quella di un’Europa «à la carte», disunita e burocratica. L'orgoglio di essere europei è piuttosto minoritario tra gli intervistati. Il che si riferisce a una tendenza forte nel nostro Paese se teniamo presente le precedenti delusioni per il progetto fallito di un Trattato sulla Comunità Europea di Difesa (1954) e poi il risultato del referendum sul progetto del Trattato di Maastricht (2005). Tuttavia, come sottolinea il rapporto di DESTIN COMMUN:

 

«Idealizzare l’Unione Europea quando è imperfetta, ridurla agli aspetti tecnici quando è frutto di decisioni politiche che hanno un impatto diretto sulla nostra vita quotidiana, emarginarla quando nessuna delle grandi sfide del mondo di oggi avrà soluzione sulla scala dello Stato-nazione senza l’Unione: è la nostra incapacità di discutere il futuro dell’Europa in modo chiaro, semplice ed efficace ad alimentare l’astensione.

Leader politici e attivisti, giornalisti, sindacalisti, volontari, intellettuali, insegnanti… questa indifferenza è un fallimento collettivo. Da qui al 9 giugno è urgente mobilitare tutta la società civile per esigere il dibattito che l’Europa merita, un dibattito di qualità, per tutti e ovunque».

[Marie Trélat, portavoce del Movimento Europeo - Francia, uno dei partner dello studio].

 

È giunto il momento, alla luce dei preoccupanti sondaggi che attribuiscono al partito di estrema destra e populista RN nel nostro paese un netto dominio delle urne con circa il 30% delle intenzioni di voto a suo favore, di riprendersi e agire senza debolezza o esitazione. Non c'è tempo per procrastinare.

Il convegno pubblico organizzato dal GODF a Parigi il 17 aprile sotto l'egida della Loggia di Studi e Ricerche AD EUROPAM con la partecipazione di testimoni ungheresi e tedeschi nonché quella di un eurodeputato portoghese verrà, cosa da sottolineare, trasmessa su YouTube in interazione diretta con gli ascoltatori, compresi i più giovani.

Questa iniziativa, presieduta dal Gran Maestro, illustra senza dubbio in modo emblematico tutta l’attenzione prestata dalla nostra Obbedienza alle sfide democratiche poste dal populismo. Certamente la Massoneria non è destinata a scendere nell'arena politica, ma risponde chiaramente a un'esigenza morale e a un'aspettativa pari alla minaccia.

 

Raccogliamo insieme la sfida.

Alain de Keghel

[Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari]