Filosofi medievali, gesuiti dell’epoca barocca, visionari illuministi: i padri insospettabili dell’Intelligenza Artificiale.
Il saggio di Dennis Yi Tenen “Teoria letteraria per robot”.
Che l’Intelligenza Artificiale sia destinata a rendere obsoleto il lavoro e, in un futuro prossimo, a prendere il sopravvento sull’intelligenza umana (e, forse, sulla nostra stessa volontà) è ormai la narrazione protagonista - e ansiogena - di questo momento storico. Ma Dennis Yi Tenen, ex ingegnere informatico per Microsoft, oggi docente di letteratura comparata alla Columbia University, a New York, ci racconta un’altra storia.
Intervenuto al Learning More Festival di Modena, parlando del suo libro “Teoria letteraria per robot - Come i computer hanno imparato a scrivere” (edito da Bollati Boringhieri), presenta una serie di scenari alternativi, prima di tutto letterari: li si può introdurre citando una delle frasi chiave di cui è disseminato questo brillante saggio. “Sono venuto a dirvi che da secoli le macchine stanno diventando sempre più intelligenti, molto prima dei computer… attraverso retorica, linguistica, teoria letteraria”, spiega il professor Yi Tenen: la storia del progresso tecnico e tecnologico – sottolinea - è strettamente legata alle conoscenze umanistiche e alla stessa letteratura. “Non quella con la L maiuscola”, ma quella ordinaria, come scrivere una email, oggi, oppure una lettera sulla pergamena, secoli fa. Essere intelligenti, infatti, significa pensare attraverso una molteplicità di strumenti: è un’abilità che racchiude un insieme di “poteri mentali, fisici, strumentali e sociali”.
Il professore della Columbia compie un vertiginoso percorso tra gli strumenti creati nel corso della storia per raccogliere ed elaborare il sapere. Sapere che – evidenzia - è sempre un’opera collettiva e che ha bisogno di innumerevoli supporti, in continua evoluzione. Tanti sono gli esempi del legame tra hi-tech e saperi umanistici. Per esempio, l’Organum Mathematicum, progettato nel XVII secolo dallo studioso gesuita Athanasius Kircher, che mirava a creare una sorta di enciclopedia portatile e, allo stesso tempo, un sistema di classificazione del sapere universale. Senza dimenticare la zairja, nel Medioevo arabo: era un dispositivo utilizzato dagli astrologi del tempo che, attraverso una tecnica matematica, combinava i valori numerici associati alle lettere e alle categorie allo scopo di fornire idee e soluzioni.
Gli esempi raccolti sono molti, passando anche per Leibniz e Ada Lovelace, e servono per evidenziare che l’intelligenza, che oggi definiamo artificiale, (artificiale deriva dal latino ars, inteso come lavoro ben fatto e facere, come fare), è sempre stata tale, perché è il risultato di un processo sociale complesso, fondato sull’interazione tra tecnica e discipline umanistiche, tra algoritmi e lettere dell’alfabeto. Il tutto in una dimensione di collaborazione e di creatività collettive. Cooperazione è il termine di riferimento: eppure - sottolinea Yi Tenen - non si utilizza mai quando ci si riferisce all’IA, preferendo una sorta di soggettività che non esiste, quasi a volere escludere la responsabilità collettiva.
Non è il computer a essere intelligente, ma gli esseri umani che l’hanno creato e lo stesso principio vale per i linguaggi come ChatGPT, che rappresenta solo un nuovo – e non l’ultimo - capitolo di una lunga storia. “Teoria letteraria per robot”, quindi, è un vero e proprio viaggio nel lato non oscuro, ma nascosto, dell’IA e dell’intelligenza umana: la filosofia araba medievale è legata ai romanzi pulp americani e i grandi romanzi dell’Ottocento ai sistemi di controllo aereo addestrati sui racconti popolari russi.
“Dall’inizio della scrittura e della composizione esiste una tradizione antica basata su regole e algoritmi”, ci racconta Yi Tenen, sottolineando che il fenomeno del digitale è in realtà un processo storico: ci accompagna da secoli, come l’atto di scrivere e di consultare un dizionario e, oggi, il correggere o completare automaticamente un frase di testo dall’Intelligenza Artificiale. Questa, perciò, è il culmine di uno sforzo umano collettivo che coinvolge “una squadra di studiosi e programmatori che estendono la loro azione attraverso il tempo e lo spazio grazie alla tecnologia”. La tecnologia, quindi, “porta dentro di sé un lungo elenco di collaboratori”.
Dunque cosa fare? Dobbiamo avere timore degli sviluppi dell’IA? Che possa toglierci il lavoro? Lo scrittore non nega che l’intelligenza artificiale automatizzerà alcune mansioni, togliendo valore a quel determinato lavoro e che avrà un impatto anche su quello intellettuale, ma se invece ci aiuterà a risolvere problemi difficili, al contrario, il valore aumenterà. Il punto del saggio, però non è questo: “Il pericolo dell’IA non sta nella sua autonomia immaginata, ma nella complessità delle cause… se vogliamo mitigare le conseguenze sociali è fondamentale riuscire a mantenere intatta la catena delle responsabilità”.
La Stampa, Paolo Travisi, 20 Novembre 2024