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iò che caratterizza il profeta è una vocazione particolare, soprannaturale e imperativa, che lo rende atto, mediante una forma di rapporto diretto con la divinità, a penetrarne le intenzioni e i disegni e che lo obbliga a renderli noti. Il profeta è essenzialmente un mistico.
Così definita, la missione profetica rappresenta l’esaltazione di una personalità “invasa” dallo spirito religioso.
I profeti per eccellenza sono i grandi fondatori o riformatori delle religioni; essi hanno un temperamento fortemente mistico, unito alla foga e alla capacità di agire.
Le persone soggette a queste manifestazioni erano “profeti” nel vero senso etimologico del termine, cioè “parlatori in luogo” di Dio, di cui essi si presentavano come interpreti o strumenti vocali, e il loro carattere morale, sia nell’antico profetismo sia nel nuovo, si riassumeva nei due capisaldi: fede e culto spirituale dell’unico dio Jahweh; pratica della giustizia individuale e sociale in virtù della religione di Jahweh.
Del primo caposaldo rendono testimonianza moltissimi episodi dell’antico profetismo: ne è una prova, ad esempio, quasi tutta l’attività di Elia.
Così anche del secondo caposaldo, sempre nel profetismo antico, esistono prove eloquenti: ad esempio, il profeta Nathan rinfaccia al re David il suo adulterio con Bethsabea e la sua ingiustizia nei confronti di Uria; mentre il profeta Elia redarguisce il re Acab per il suo misfatto ai danni di Naboth.
Spesso, poi, i due capisaldi si compenetrano: ad esempio, il profeta Achia predice a Geroboamo che succederà a Salomone nella maggior parte dei suoi dominii, in punizione dell’idolatria di Salomone, ma anche del suo fiscalismo oppressivo che gli aveva alienato gli animi di moltissimi sudditi.
In mezzo a quella società, essenzialmente teocratica, si faceva avanti il profeta, affermando che veniva da parte di Jahweh e per “parlare in luogo di lui”; da qui anche la sua autorità presso i suoi ascoltatori, i quali, come membri di una società teocratica, non potevano negare credito – almeno in teoria – al “parlatore in luogo di”.
Nulla perciò – sempre in teoria – sfuggiva alla sua autorità spirituale.
Davanti a lui, i re e i sacerdoti di Jahweh non valevano più del pastore che adorava Jahweh pascolando il suo gregge; la reggia e il tempio di Gerusalemme potevano riecheggiare delle invettive di un profeta che rinfacciava abusi e corruzione; il profeta poteva presentarsi improvvisamente in una festività pubblica e proclamare castighi divini, rinfacciando a tutti i comuni delitti o la colpevole negligenza per il decoro del tempio.
Il profeta era, infatti, l’uomo di Dio.
Ciò che diceva era un detto di Dio stesso, era un oracolo di Jahweh, e dunque la parola di Jahweh.
I profeti autentici, a differenza degli pseudo-profeti, furono spesso in contrasto con l’opinione pubblica, in forza appunto della loro missione.
Quando la purezza della religione jahvistica era inquinata da culti sincretistici e da pratiche idolatriche, quando il popolo riponeva una fiducia feticistica su oggetti e riti liturgici, il profeta proclamava che tutte queste cose non valevano nulla per se stesse e potevano essere distrutte e abolite da Jahweh, che solo ricercava attraverso di esse lo spirito e la purezza di cuore; quando, a scapito del carattere nazionale-religioso del popolo di Jahweh, si stringevano alleanze con potenti regni idolatrici, e quando agli austeri costumi del puro jahvismo subentrava la corruzione morale dell’individuo e dunque della società, il profeta interveniva, esecrando quelle alleanze, denunciando la corruzione, annunciando gli imminenti castighi divini sugli individui e sulla società.
Naturalmente, questa incessante censura dava fastidio e spesso, nonostante la sua indiscussa autorità morale, il profeta veniva ucciso: il parlatore in nome di Dio proseguiva imperturbabile a parlare, minacciando ed esecrando, e il popolo, a un certo punto, fingeva di dimenticare il carattere e la natura di quel parlatore e lo lapidava o lo rendeva oggetto di continue persecuzioni.
Era nota la prospettiva che attendeva il profeta nella sua missione e ciò può spiegare la titubanza o la riluttanza di qualche profeta ad assumere la missione profetica.
Amos mostra stupore per essere stato scelto come profeta, da pastore qual era; Giona manifesta una vera riluttanza alla missione profetica; Geremia si lamenta del peso del suo compito, vorrebbe quasi liberarsene, e chiama Dio il suo “seduttore” (Geremia, XX, 7-9).
Però poi tutti si arrendono, perché la “parola di Jahweh”, che costituiva l’impulso della loro missione, era “nel cuore come un fuoco divoratore, racchiuso dentro le ossa” (Geremia, XX, 9), cui nessuno poteva sottrarsi.
Poiché “… se il Signore Jahweh parla, chi non profetizzerà?” (Amos, III, 8).
Quanto vi fu di più nobile nell’ebraismo fu salvato principalmente dai profeti e da essi trasmesso alle epoche successive.
Di questa somma importanza spirituale erano consci i profeti, ma anche il popolo, tra l’uno e l’altro di quei suoi scatti furiosi che finivano con la lapidazione del profeta.
I profeti avevano più volte paragonato la loro missione a quella delle vedette che dall’alto delle torri spiano il nemico, o delle sentinelle notturne che vigilano sulla sicurezza dell’accampamento; così il popolo sapeva per esperienza che, nei momenti decisivi della vita nazionale, compariva inesorabile il profeta, che redarguiva, minacciava, correggeva, esortava.
E fu così che quando, con il tramonto del profetismo, quelle voci si udirono sempre più raramente e poi tacquero, il popolo rimase smarrito, e ripensò a loro con desiderio accorato, e ne venerò sempre più la memoria e i sepolcri.
Il profeta Isaia parla molto del futuro, però questa non è l’essenza del suo ruolo. L’essenza del ruolo in senso biblico è che il profeta è qualcuno che “parla nel nome di Dio” e il rapporto tra Dio e il suo popolo è basato su un’alleanza: “Il patto”.
Il profeta è qualcuno che richiama il popolo di Dio a rispettare i termini dell’alleanza, stabilita da Dio.
Lo sfondo del libro di Isaia è il libro del Deuteronomio, che è la base della letteratura profetica poiché è il libro del patto dell’alleanza.
Le parole pronunciate da Isaia sono chiare e richiamano il popolo a rispettare questa Alleanza: “ Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno, anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”.
[“Discutiamo”, in termini ebraico-giuridici, significa “presentiamo la nostra causa” (Isaia 34:8)];
“Poiché è il giorno della vendetta dell’Eterno, l’anno della retribuzione per la causa di Sion”;
(Isaia 41:11): “Ecco, tutti quelli che si sono infuriati contro di te saranno svergognati e confusi; quelli che combattono contro di te saranno ridotti a nulla e periranno”.
Isaia non è un libro facile da leggere, perché tanti sono i nomi: nomi di paesi, di regni, di popoli e spesso si fa fatica a capire il contesto storico.
Isaia comincia a descrivere la sua vocazione con il dire (Isaia 6:1): “Nell’anno della morte del re Uzziah, io vidi il Signore assiso sopra un trono alto ed elevato, e i lembi del suo manto riempivano il tempio”.
Per noi questa frase non ha significato, perché non sappiamo chi fosse il re Uzziah, e non sappiamo quando sia vissuto, ma è comunque molto importante (Isaia 7:14): “Perciò il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Immanu’el”.
Anche se questa è una profezia messianica, in realtà Isaia ha dato questa profezia al re Acar, quindi questa profezia è iniziata allora, in quel momento, e questo ci fa comprendere che la profezia di Dio è radicata nella storia e consiste principalmente nel rispettare il patto di alleanza.
Poi, affinché il momento della sua manifestazione tra gli uomini non si perdesse nel tempo mitico o fosse proiettato in un lontano futuro, Dio lo rivelò al profeta Daniele. Fu durante il suo soggiorno alla corte di Babilonia, nel 538 a.e.v., che gli fu predetto quando il Messia si sarebbe presentato, l’opera che avrebbe compiuto e il momento della sua morte.
Il testo sacro recita così:
“Sappilo dunque e intendi. Dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparizione del Messia, vi sono sette e sessantadue settimane di anni. Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana di anni; e in mezzo alla settimana (sessantadue settimane di anni) il Messia sarà soppresso, nessuno sarà per lui. Egli (il Messia) farà cessare la trasgressione, metterà fine al peccato, espierà l’iniquità, stabilirà una giustizia eterna, suggellerà visione e profezia e ungerà un luogo santissimo” (Daniele 9:25, 27, pp. 26, 24 ss.).
La profezia è inoltre apprendimento, rivelato da Dio, della sapienza divina della Torah e della sua parte nascosta, la Qabbalah e il profeta è tale sia per elevazione intellettuale e spirituale sia per visioni di angeli e di manifestazioni divine o di Dio stesso, nella Shekhinah.
In questo senso, rispetto alla conoscenza ordinaria, la profezia introduce una “frattura”: la missione del profeta è diretta anzitutto al popolo, sotto forma di predicazione e di impegno di guida politica da parte del profeta.
Da questo punto di vista, inoltre, sembra non valere l’equazione tra profezia e predestinazione; il quadro provvidenziale, simbolo della prescienza divina, lascia spazio alla libertà dell’uomo, come mostra la profezia di Giona, nella quale la condotta umana (degli abitanti di Ninive, cui viene profetizzata la distruzione della città) “cambia” il corso degli eventi profetizzati – per quanto si tratti di un cambiamento comunque conosciuto da Dio dall’eternità.
Mentre, sul piano filosofico, la profezia incrocia argomenti quali la compatibilità tra prescienza divina e futuri contingenti, tra predestinazione e libero arbitrio, e la responsabilità morale dei propri atti.
Concludiamo con le parole di Isaia (Isaia 9, 1-6):
Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce.
Su coloro che abitavano una terra tenebrosa
una grande luce rifulse …