PREFAZIONE
Questo libro è un sogno e, come tutti i sogni, si nutre di malinconia e gioia, paure e ansie, amore e desiderio, ricordi e speranze, e altro ancora… rientrando, a pieno titolo, fra les belles lettres della letteratura yiddish.
Vi si potrebbe leggere una sorta di ucronia, con la sua premessa generale che la storia del mondo potrebbe avere seguìto, in alcuni suoi snodi salienti, un corso alternativo rispetto a quello reale, effettivamente svoltosi.
Vi si potrebbe vedere un effetto farfalla, con il suo concetto di dipendenza sensibile da determinate condizioni iniziali, già racchiuso nella teoria del caos: piccole variazioni in queste determinate condizioni iniziali producono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema: ‘Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?’.
Potrebbe, anche, essere assimilato al genio poetico e visionario dei quadri più belli e più fortemente simbolici di Marc Chagall che, nella sua pittura, trascende e rielabora poeticamente gli episodi della vita quotidiana dello Shtetl polacco, trasfigurati nel, e con, il suo famoso e pressoché irraggiungibile bleu Chagall, che ricrea in una folla di personaggi, di eventi e di vicende private tutta la fenomenologia culturale e storica di una pagina importante della storia polacca, europea e mondiale.
Ma è anche molto, molto di più.
È un gesto e un atto di amore, amore sconfinato, amore disperato, amore rassegnato ma non sconfitto nei confronti della lingua e della cultura yiddish, distrutta ma non annientata dalla Seconda Guerra mondiale e alla quale Marcello Kalowski appartiene profondamente.
Gli ebrei ashkenaziti residenti negli shtetl polacchi parlavano abitualmente yiddish, oltre alla lingua locale; il declino dell'importanza degli shtetl quali centri della vita comunitaria ebraica divenne evidente dagli anni ‘40 del XIX secolo.
Fenomeni di tipo culturale, politico ed economico danneggiarono le fondazioni di tali insediamenti. L'industrializzazione e la concentrazione delle attività commerciali e produttive nei centri maggiori colpirono le tradizionali fonti di reddito degli abitanti degli shtetl, incentivandone l'emigrazione.
Tuttavia, pur avendo subìto una significativa perdita di importanza, gli shtetl sopravvissero in Polonia sino alla Seconda Guerra mondiale. Si stima che nel 1939 due quinti della popolazione ebraica polacca vivessero in questo tipo di insediamento.
La definitiva sparizione degli shtetl si ebbe solamente con l'occupazione nazista, cui seguirono la sistematica deportazione e lo sterminio della popolazione ebraica europea nelle grandi fornaci dei ‘campi’.
Marcello Kalowski presenta, con amore e rispetto, l’anima polacca, mostrandone, a volte, una immagine grottesca, goffa, meschina, ma anche le grandi capacità di manifestare la coscienza umana, e il suo rapporto con il Divino.
Narra, secondo la migliore tradizione della letteratura Yiddish, in cui abbondano, storie di dybbuk, folletti e spiritelli vari che, più che cattivi, sono maldestri e pasticcioni e le cui malefatte finiscono inevitabilmente con il ritorcersi contro di loro, usando un linguaggio a volte ironico, paradossale, divertente, che vuole essere metafora di accrescimento spirituale.
Spesso usa la ‘cifra’ dell’ironia e dell’umorismo accomodante, con la sua buona dose di saggezza di natura pratica, quotidiana.
Scivola, con disinvoltura, nel tempo e nello spazio, tra sogni e incubi, realtà e fantasia, conversioni oniriche e improbabili, sul filo dell’eresia, in una serie di storie, a volte distopiche, intrecciate in un insieme abilmente congegnato di rabbini e ladri, furfanti e cabalisti, mistici e creduloni, mogli e megere, fantasmi e dibbuk, angeli e mostri, fanciulle bellissime, sensali di matrimoni, amori impossibili, liti infinite, tra piccoli commercianti e contadini.
Affronta, in un capitolo memorabile e, a prima vista, teologicamente ‘blasfemo’, il tema della creazione del mondo e dell’uomo e della lotta continua al Tòhu va Vòhu, l’ebraico caos e vuoto, che nella Genesi indica la condizione della terra prima della creazione della luce.
Il tutto sullo sfondo dello shul, la casa di studio e preghiera dello Shtetl di Belz, nella Galizia polacca, e poi in un’altra Belz, la Nuova Belz, finalmente in pace, in una Nuova Terra e sotto nuove stelle.
L’effetto di questo eccentrico racconto, composto di più racconti, che si inanellano senza soluzioni di continuità per più di 400 pagine, è ipnotizzante.
Nei vari capitoli, nei vari racconti ‘raccontati’ a loro volta dai vari personaggi del libro, che si passano la parola da un capo all’altro del tempo e dello spazio, con una naturalezza speciale, o per meglio dire geniale, sono nascoste ovunque scintille di santità e di spiritualità, anche se, a volte, le scintille rimangono nascoste o solo accennate.
Già, le scintille.
Le scintille divine possono trovarsi ovunque e sta a noi saperle riconoscere.
Perché ogni persona si trova originariamente congiunta ad alcune altre in un'unica Anima cosmica, che è arrivata in seguito a scindersi in più parti attraverso varie incarnazioni: l'Amore è la forza in grado di ricongiungerle, perché là dove esiste un cuore pulsante, là dove esiste l’indagine di se stessi, il Signore è.
I vari protagonisti di questo nuovo libro di Marcello Kalowski si rivolgono di volta in volta ai loro interlocutori per rivisitare l'universo simbolico, spirituale e della memoria dell’autore, ma anche quello della Kabbalah, della Torah, dell'umorismo ebraico e dell’identità e dell’appropriazione culturale, tra pilpul estenuanti e continui dialoghi con l’Onnipotente, nell’attesa perenne del Mashíach.
Si scrive, infatti, spesso, per conservare e continuare un dialogo con chi, e con ciò che, non c'è più, un dialogo che altrimenti la vita ci costringerebbe a interrompere.
Scriviamo perché le parole rafforzano sempre i legami. Fanno casa, fanno famiglia, sono un qualcosa di solido, che si fissa nell’esistenza, a volte più solidamente del sangue e della filiazione biologica.
Scrivere può rappresentare una strategia di sopravvivenza: è così che scopriamo noi stessi e mille altri noi allo stesso tempo, in uno specchio posto davanti al nostro inconscio, vissuto come un essere indefinibile, in un mondo e in un tempo che li esaspera e li sublima tutti.
Così fa l’autore, con il suo andamento tumultuoso di monologhi e meditazioni, flussi di coscienza e stili, registri e personaggi presi dalla realtà e trasfigurati; il che rappresenta, contemporaneamente, una letteratura vissuta come aperta dissimulazione della realtà.
Ma in questo libro si nascondono, abbiamo già detto, anche i dibbuk, i fantasmi che scappano dalle antiche storie yiddish, insieme ai fantasmi di una Europa distrutta e alle ceneri della Shoah, con l’impossibilità di potersi riconoscere in un’unica definizione di sé, e la sua sfida intrinseca a una nuova, o rinnovata, identità; tutto questo rende Marcello Kalowski un autore molto ebreo, che sa di non potere mai essere completamente se stesso, straniero anche nel posto stesso in cui vive.
Sapendo, in definitiva, che, ovunque si sia, non saremo mai completamente a casa.
Con una speranza però, che forse è l’unica che ci è concessa: in ebraico, puoi ‘essere stato’ e puoi ‘essere in divenire’; sei stato e diventerai, ma sei necessariamente nel mezzo della tua mutazione.
Come ne ‘Il violinista sul tetto’, quando la comunità di Anatevka si riunisce un’ultima volta, prima di disperdersi in direzioni diverse: Tevye vede il violinista e gli fa cenno di andare con loro, a simboleggiare che, anche se deve lasciare il suo Shtetl, le sue tradizioni saranno sempre con lui.
Come spiega lo stesso Tevye, tutto ciò ricorda le condizioni di estrema instabilità in cui si manifesta l’esistenza ebraica, ma anche l’esperienza umana in generale, ‘costretta a improvvisare una semplice melodia senza rompersi l’osso del collo’.
Tutti questi disegni narrativi sono essi stessi memoria, rimasta intatta nel suo valore e nella grazia del ricordo, di un mondo sul punto di dissolversi, con un paesaggio interiore formatosi in una vita di spostamenti e fughe, e con la dolente facoltà di distanziarsi e sopravvivere alla splendida illusione del nostro passato, coltivando però sempre un paesaggio della memoria per impressioni, che non si vuole abbandonare all’oblio.
Barbara de Munari
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