IL RINNEGATO di Ariel Toaff - LA SCANDALOSA VITA DI UN KABBALISTA DEL XIX SECOLO

 

Ariel Toaff è un Rabbino e uno storico. Nato ad Ancona, figlio di Elio Toaff, già Rabbino capo di Roma, vive a Tel Aviv, dove è professore emerito all'Università Bar-Ilan. È noto principalmente per il suo controverso libro Pasque di Sangue, in cui indaga il tema del sacrificio umano anticristiano all'interno del giudaismo askenazita medievale, l’infame “accusa del sangue”. Pubblicato in Italia nel 2007, Pasque di Sangue è stato presto ritirato dall'autore a causa delle aspre polemiche seguite alla sua pubblicazione. Fu però ripubblicato l'anno successivo, con l'aggiunta di alcuni chiarimenti sulla sua ricerca storiografica e il tentativo dell’autore di spiegare le incomprensioni iniziali del suo lavoro.

Alessandro Cassin è il direttore della rivista online del Centro Primo Levi Printed Matter e CPL Editions – New York, che ha pubblicato oltre 15 libri dal suo debutto nel 2014. Proveniente da una tradizione editoriale — suo padre ha pubblicato la prima edizione di If This Is A Man in inglese — Cassin inizia a lavorare nel teatro sperimentale e vince il Premio Ruggero Rimini 1989 per Il Presidente Schreber. È stato giornalista culturale per testate tra cui L'Espresso e Diario. È collaboratore di The Brooklyn Rail. Il suo libro Whispers: Ulay on Ulay, di cui è co-autore con Maria Rus Bojan, ha ricevuto l'AICA Netherlands Award 2015. Ha coordinato la pubblicazione di The Art of Conduction di Laurence Butch Morris, a cura di Daniela Veronesi (Karma, 2017). È autore di The Scandal of the Imagination, film sulla vita e l'opera di Aldo Braibanti (2021.) Durante la pandemia ha scritto A Fiesole, bambino.

Una mattina di novembre del 1840, un ragazzo scopre il corpo di David Ajash, un Rabbino cabalista italiano di origine algerina, sotto un ulivo, alla periferia di Nablus. Omicidio o suicidio? Il dubbio rimane, anche alla fine de Il Rinnegato (Neri Pozza, Milano, 2021), l'accattivante esordio letterario, sotto forma di romanzo storico misterioso e meticolosamente documentato, di Ariel Toaff.

L'artificio letterario adottato è quello del figlio del Rabbino che s’immerge nella lettura del diario-testamento del padre, da cui è separato da tempo, ripercorrendo avventure e disgrazie consumate tra intrighi religiosi, potenti amuleti, massoneria, conversioni e tentativi di omicidio. Dalla Palestina ottomana, la storia di Ajash conduce il lettore alla Livorno dell'inizio del XIX secolo, un vitale centro ebraico che collegava il Nord Africa, l'Europa occidentale e la Palestina tramite l'editoria e il dibattito intellettuale.

Più che una biografia romanzata, Il Rinnegato fonde senza soluzione di continuità una ricchezza di domande e d’ipotesi storiche nel tessuto di un'opera di narrativa letteraria, ritraendo con vivide pennellate la Nazione Ebraica di Livorno nella sbalorditiva vitalità dei suoi giorni più belli.

Mentre la vita dissoluta del Rabbino libertino si svolge sullo sfondo di un mondo in rapido cambiamento, siamo proiettati nella piccola Comunità sefardita di Livorno, immergendoci in complessi dibattiti cabalistici, ortodossia religiosa, editoria ebraica, ma anche cibi, odori, bordelli e alleanze mutevoli.

Il Rabbino Ajash non crede né nel Giudaismo né nel Cristianesimo, ma solo nella Kabbalah: la sua bussola per orientarsi in una sconcertante realtà interiore ed esteriore. Ajash si comporta come se fosse convinto che si debba precipitare sino in fondo alla perdizione per accedere, solo allora, alle più alte sfere della conoscenza. Mentre lo si legge in maniera avvincente, Il Rinnegato guida il lettore oltre la trama per scoprire, su più livelli, le affascinanti complessità della vita ebraica dell'Ottocento sulle diverse sponde del Mediterraneo.

 Il romanzo descrive l'esistenza umana come un insieme non lineare, costruito su colpi di scena inaspettati, vicoli ciechi, nuovi inizi e re-invenzioni. Quando tutto il resto fallisce, anche rinunciare al proprio nome e assumerne uno nuovo può essere un modo per deviare e scongiurare il destino. I cabalisti attorno al padre morente di David Ajash gli conferiscono un nuovo nome per dargli più vita; David stesso assume nuove identità, prima quando si converte al Cristianesimo e poi quando torna al Giudaismo. In definitiva, questa narrazione altamente coinvolgente pone molte domande importanti ed opportune, senza tentare risposte definitive, e conducendoci a un finale “aperto”.

 

Alessandro Cassin: Scrivere il tuo primo romanzo alla fine dei settant’anni mi sembra un segno di grande vitalità ed equilibrio. Che cosa ha spinto uno studioso e uno storico come te a evocare il mondo che ruotava attorno a un controverso Rabbino cabalista del diciannovesimo secolo attraverso un romanzo, piuttosto che dedicarti a scriverne un saggio?

Ariel Toaff: Penso che quando scriviamo un saggio siamo limitati dalla documentazione scritta. La ricerca storica può fornire lo sfondo della vita ebraica in una città multietnica, con una storia singolare come Livorno, ma non può aggiungere molto su questo specifico Rabbino cabalista. Il romanzo va oltre questi limiti e cerca di colmare le lacune della documentazione, affrontando nel regno dell'immaginazione le contraddizioni, le perplessità, i dubbi e il mondo interiore di questo Rabbino. In questo senso, possiamo forse avvicinarci a una comprensione della realtà probabile, o almeno possibile, di questo individuo.

A.C. Come te, il tuo protagonista, il Rabbino David Ajash, ha trascorso la sua vita tra l'Italia e il Medio Oriente. Nonostante sia nato alla fine del 1700, il Rabbino Ajash è un contemporaneo: un uomo irrequieto, contraddittorio, anticonformista, che si reinventa continuamente. Quanto sappiamo di David Ajash e quanto il tuo romanzo si prende delle libertà poetiche con la sua storia?

 

A.T. In una relazione dei massari (il governo) della Comunità Ebraica di Livorno del 17 maggio 1833 si legge che “David Ajash ha comportamenti condannabili per l'inosservanza dei precetti religiosi e per la scandalosa oscenità dei suoi costumi: è devoto alle donne e al più sporco dei vizi. È accusato di appropriazione indebita di denaro destinato a istituzioni e a comunità religiose della Terra Santa. È indegno di essere padre poiché ha abbandonato, per molti anni, moglie e figli. In breve, ha abbandonato la sua religione originaria per evitare gli impegni familiari e soddisfare più facilmente i suoi desideri lussuriosi”. Una settimana dopo, David Ajash chiese di essere battezzato, e la sua richiesta fu accolta con la raccomandazione che il suo catecumenato si tenesse a Pisa. Questo è ciò che si trova nei documenti scritti, ma non sappiamo fino a che punto tutto ciò sia stato colorato da giudizi tendenziosi e ostili sull'uomo. Nell'Archivio della Comunità Ebraica di Livorno esiste un corposo dossier riguardante David Ajash (Serie Minute 1833-34, folder. 18). Per molti anni, va notato che il suo rapporto con la Nazione Ebraica (Comunità) di Livorno si è rivelato non difficile o controverso ma amichevole e cordiale. Ne è prova una copia del suo commento cabalistico all'Haggadah di Pesach, intitolato Kol David, ‘La voce di David’ (Livorno, Molco e Sadun, 1825), in mio possesso, con dedica in caratteri ebraici dorati sulla copertina di colore verde di pelle marocchina. Il destinatario è uno degli anziani della Nazione Ebraica di Livorno, Moise di Salomone Coen Bacri.

A.C. Rabbino, figlio di un Rabbino e, infine, padre di un Rabbino – con il suo istinto, le contingenze della vita, la voglia di avventura, Ajash fa l'inimmaginabile per un uomo della sua tradizione: si converte al Cattolicesimo, dopo essersi scontrato con la leadership ebraica dell’epoca. Successivamente torna sui suoi passi e riabbraccia l'Ebraismo. Questo andirivieni tra le religioni avviene sullo sfondo di un mondo ebraico in rapido mutamento che temeva, dopo l'emancipazione, le insidie pericolose dell'assimilazione nel Cristianesimo. Cosa ti ha attirato di questa figura controversa che finì per essere considerata “un rinnegato” sia dagli Ebrei sia dai Cattolici?

A.T. David Ajash esprime la sua intenzione di divenire cristiano e, infatti, si converte a Pisa. Ma non fa questo passo serio con convinzione e a cuor leggero. Vuole chiaramente vendicarsi della Comunità Ebraica che l’ha bandito, emarginato e considerato un eretico. In fondo, David è un uomo che manca di fede in Dio e negli uomini che pretendono di rappresentarLo. Non crede nella religione, in nessuna religione in quanto tale. Pertanto, non ha problemi ad alternare Ebraismo e Cristianesimo, tornando, disincantato, all'Ebraismo alla fine dei suoi giorni. Il fatto che sia considerato un traditore e un rinnegato sia dagli Ebrei sia dai Cristiani non lo induce ad adattarsi e ad aderire alla legge del più forte, ma, anzi, rafforza il suo scetticismo e il suo disprezzo per i leader ebrei e cristiani. La sua libertà di pensiero e di scelta è assoluta e non soggetta a calcoli. È la strada che ha scelto e che, nonostante le contraddizioni e i passi falsi, non abbandona mai, a qualunque costo. E che gli costerà la vita.

A.C. Il romanzo segue gli eventi avventurosi e talvolta picareschi del protagonista, che conduce incautamente un'esistenza dissoluta di libertà illimitate, con un comportamento libertino e pochi scrupoli morali. Eppure, tra pericoli costanti, insidie, violente opposizioni e risultati imprevedibili, il cammino da lui scelto non riesce a fornirgli l'appagamento che cercava. Allora, perché, nonostante tutta la sua audacia, gli è negata la pienezza della felicità?

A.T. David non è mai appagato né soddisfatto di se stesso. È costantemente alla ricerca di nuove emozioni, eventi inaspettati e avventure, spesso pericolose e con poche prospettive. Si aggrappa ai talismani e agli amuleti della Kabbalah come unica ancora di salvezza in una tempesta di eventi che non riesce a controllare, schivando gli ostacoli che lo minacciano, spesso creati da lui stesso. Improvvisi pericoli lo attendono dietro l'angolo. Nel migliore dei casi, le sue scelte gli portano una gioia momentanea; e lui ne è pienamente consapevole. Eppure continua a cercare risposte, pur sapendo che non ne troverà. Sa che una morte improvvisa e violenta lo attende alla fine del suo viaggio accidentato, ma non fa nulla per evitarla o ritardarla. È il destino di quell’uomo senza pace che ammette di essere.

A.C. Il Rinnegato è forse il primo thriller storico ambientato nel mondo ebraico italiano. Opera su più livelli: può essere letto come un thriller avvincente, una finestra sul frammentato mondo dell'Ebraismo sefardita del diciannovesimo secolo e, in una certa misura, come una riflessione autobiografica. Non mi soffermerò sulla complessità della trama, per non rivelare troppo ai lettori. Suggerisco, invece, di concentrarci su alcuni dei tanti temi sottesi: la dinamicità geografica all'interno di quel mondo — Algeria, Livorno, Ferrara, Salonicco, Gerusalemme, Nablus; lo sconvolgimento religioso e l'impatto dei movimenti messianici da Sabbatai Zevi a Jacob Frank; la storia dell’editoria ebraica italiana e la centralità di Livorno; il rapporto tra Massoneria ed Ebraismo, solo per citarne alcuni.

Forse possiamo partire dai movimenti tra mondi diversi, non solo dal punto di vista geografico ma anche ideologico, politico e religioso, che mi sembra sia il filo conduttore del romanzo. Il padre del protagonista, un cabalista di origine algerina, si era scontrato con gli Ebrei filo giacobini di Ferrara, era divenuto Rabbino a Siena, e in seguito aveva dissentito dalla rigida ortodossia della Nazione Ebraica di Livorno. Seguendo suo padre, David Ajash impara a muoversi in mondi diversi con disincanto ed ironia...

A.T. David Ajash vive in un mondo in rapida evoluzione. Ci spalanca una finestra sulla vita ebraica italiana e, in primo luogo, su quella di Livorno, città che ha sempre rappresentato un'eccezione. A differenza di altri centri ebraici in Italia, Livorno non ha mai avuto un ghetto. Fondata nel Rinascimento, quindi più tardi di molte altre città, essa ha una sua fisionomia originale. Livorno rappresenta un ponte tra la Terra Santa e l'Oriente, tra il Maghreb e la Penisola Iberica, tra le Comunità Ebraiche tedesche e francesi e gli Ebrei che si erano stabiliti in Italia secoli prima e che avevano storie differenti e identità particolari. A Livorno gli studi ebraici erano intrisi delle tradizioni della Kabbalah. Lo Zohar è considerato l'interpretazione più accreditata della Torah e della Bibbia in generale. Gli insegnamenti e le credenze dei Rabbini e dei saggi livornesi sono ben lontani da una visione razionalista dei precetti e dei rituali ebraici. Il “dialetto” degli ebrei livornesi, né ebraico né italiano, è un vernacolo giudeo-ispanico, ricco di italianismi, chiamato “bagito” o “bagitto”. La Comunità era formata da ondate etniche di diversa origine, Ebrei di altre parti d'Italia, Roma in particolare, del Maghreb, dei Balcani, della Spagna e del Portogallo, e del Medio Oriente. Livorno fu anche un importante centro editoriale ebraico (con macchine da stampa gestite congiuntamente da Ebrei e da Cristiani) che servì le ​​Comunità del bacino del Mediterraneo dal Seicento alla metà del Novecento, fornendo testi liturgici e rituali.

A Livorno vi furono aspri scontri e dibattiti all'interno dell'ortodossia rabbinica, radicata nelle sue istituzioni, nei tribunali religiosi e nelle commissioni di censura. I Rabbini locali erano strenui difensori della tradizione religiosa e dei costumi locali e del loro diritto esclusivo di eleggere i “massari” (governatori) incaricati di guidare la Nazione Ebraica. Gli stessi Rabbini non esitarono ad aderire alla Massoneria. Alcune delle principali logge avevano tra i loro membri numerosi Ebrei, tra cui Rabbini, principalmente di origine nordafricana, come David Ajash, e i famosi cabalisti Chaim Yosef David Azulay, noto come il Chidah, l'enigma, dalle iniziali del suo nome, e il filosofo Elia Benamozegh. Per inciso, mio ​​nonno Alfredo Sabato Toaff, Rabbino di Livorno nella prima metà del Novecento, fu un discepolo di Benamozegh.

A.C. Nell'era di internet, non è facile immaginare i rapporti, le modalità di circolazione delle idee, gli scambi tra gli Ebrei nordafricani, le Comunità Ebraiche italiane, le yeshivot in Palestina e, in lontananza, quelle più aperte del mondo ebraico francese, o la predicazione di un ebreo ottomano come Sabbatai Zevi. Di là dagli eventi del libro, puoi descrivere la natura e i modi di quegli scambi?

A.T. Gli shadarim, come erano chiamati gli inviati delle yeshivot di Terra Santa (Gerusalemme, Hebron e Safed), vennero in Italia per raccogliere fondi, preferendo le Comunità sefardite più ricche e numerose, come Livorno, Ferrara e Venezia. La cultura francese, la sua lingua e la sua letteratura attirarono e influenzarono gli intellettuali ebrei livornesi, molti dei quali erano di origine marocchina, tunisina o algerina e talvolta scrivevano le loro opere in francese. Elia Benamozegh non fu un caso isolato, come sappiamo.

A.C. Poi, come oggi, uno degli strumenti più formidabili per la circolazione delle idee è il libro. David Ajash torna in Italia per pubblicare un libro. Non si trattava di un'impresa commerciale ma di un modo per esprimere il suo specifico rapporto con l'ebraismo. Stampare un libro ebraico significava ricevere l'imprimatur, se non proprio il permesso, dal rabbinato, oltre che trovare una notevole somma per far fronte alle spese di stampa. In quegli anni gli editori/stampatori livornesi erano un collegamento fondamentale tra i vari mondi di cui parli...

A.T. Il nonno di David Ajash, Jehudah, si era trasferito da Algeri a Livorno, rimanendo in città per un paio d'anni, dall'inizio del 1756 alla fine del 1757, e pubblicando sette opere sulla Kabbalah e sul rituale. Anche il padre di David, Moisé Giacobbe, aveva curato un testo liturgico stampato a Livorno nel 1790 e ripubblicato qualche anno dopo dallo stampatore Lazzaro Sadun. A Livorno c'erano a quell’epoca cinque tipografie ebraiche, gestite congiuntamente da Ebrei e da Cristiani. Una di queste, “Tipografia Sadun e Molco” stampò Kol David di David Ajash, “la voce di David”, il commento cabalistico alla Haggadah di Pesach, che reca un ringraziamento ai generosi sostenitori del libro, gli imprenditori triestini Vita Sabato Vivanti e Clemente Minerbi.

A.C. Per pubblicare il suo libro, Ajash deve accettare di apportare rilevanti modifiche imposte dal rabbinato.

Il pretesto è che la sua descrizione/interpretazione del rituale di Pesach enfatizza aspetti che il mondo cattolico poteva interpretare come premonitori o confermanti il ​​dogma della trinità. Ajash accetta di modificare il testo ma cade in una trappola. Le critiche e i pregiudizi nei suoi confronti (unitamente all'insufficiente erudizione dei suoi censori) impediscono la lettura serena del suo libro, e quindi la sua circolazione. In questo, sono evidenti i parallelismi con gli eventi che hanno accompagnato la pubblicazione del tuo Pasque di Sangue (Passover of Blood). Un autore ebreo (Rabbino, figlio di un Rabbino) deve per forza essere vincolato dalle considerazioni che un libro sia "buono per gli Ebrei" prima di pubblicarlo? Che cosa pensi ti abbia insegnato la polemica intorno a Pasque di Sangue? Cos'altro ci suggerisce Il Rinnegato, a questo proposito?

 

A.T. Questa è una domanda insidiosa, cui non è facile rispondere. David Ajash fu costretto a modificare il suo testo, piegandosi alle pressioni, o meglio, alle imposizioni dei tre Rabbini, membri della commissione dei permessi e dei divieti, issur ve'hetter, che fungeva da vero e proprio organo di censura. Essi decidevano quali libri erano idonei alla pubblicazione, quali erano vietati e quali dovevano essere parzialmente o radicalmente modificati per essere stampati.

Voglio fare riferimento a una storia personale della quale sono stato protagonista mio malgrado e della quale porto ancora le cicatrici. È noto il linciaggio mediatico cui sono stato sottoposto in seguito alla pubblicazione di Pasque di Sangue nel febbraio 2007; pertanto non è qui il caso di riassumere. I censori erano generalmente i cosiddetti “giusti”, che in rari casi avevano letto il libro e lo avevano giudicato per sentito dire. Tuttavia, la triste vicenda ha rafforzato nella mia mente quello che credo sia il dovere di un intellettuale serio e indipendente: coerenza e fedeltà ai princìpi in cui crede, senza piegarsi alle pressioni, agli espedienti o alle facili vie d'uscita dai vincoli.

A.C. Hai scritto la storia di un uomo colto, cosmopolita, pieno d’iniziativa e di risorse interiori, eppure estremamente vulnerabile e forse psicologicamente fragile. Un uomo che sembra non credere al Giudaismo quando è Ebreo, e nemmeno al Cristianesimo quando si battezza; la sua fragilità è causata dalla sua mancanza di fede?

A.T. Come dice Don Abbondio ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, il coraggio, uno da solo non se lo può dare. Così anche gli atei convinti, come Ajash, non possono dotarsi di fede, se non applicandola come intonaco ornamentale quando sembra loro che ciò possa essere d'aiuto.

A.C. Per molto tempo, in Italia, come in molti altri paesi, gli Ebrei hanno abbracciato la Massoneria. La loggia che descrivi nel romanzo comprende (come molte in realtà) non solo Ebrei e atei, ma anche Cattolici praticanti e persino membri del clero. Uno degli argomenti a favore del fascino della Massoneria per gli Ebrei era la sua componente anticlericale. Inoltre, il suo sistema di sostegno reciproco era percepito come prezioso dagli Ebrei, il cui status all'interno della società cristiana era spesso precario. Hai altre spiegazioni per la grande adesione degli Ebrei alla Massoneria del XIX secolo, e pensi che oggi, in una certa misura, questo fascino persista ancora?

A.T. Nella mia giovinezza, a Livorno, ricordo molti massoni, anche tra i Rabbini e tra coloro che frequentavano regolarmente le funzioni in via Micali. Leggendo gli epitaffi sulle lapidi del cimitero dei Lupi, il Cimitero Ebraico di Livorno, in alcuni casi troviamo espliciti riferimenti all'appartenenza del defunto alla Massoneria. L'adesione ebraica alle logge massoniche aveva le sue radici, di là da motivazioni anticlericali, nella convinzione, ampiamente condivisa, che l'Ebraismo, nella sua interpretazione cabalistica, parlasse lo stesso linguaggio della Massoneria. Condivideva con la Massoneria i suoi valori e gli ideali di umanità e di sostegno reciproco, e un sistema organizzativo simile. Essere massone non era in contrasto con la fede ebraica, ma la confermava, aggiornandola e rendendola più pregnante. Oggi ho la netta impressione che la Massoneria appartenga al passato, per gli Ebrei in particolare.

A.C. C'è molto sul rapporto padre/figlio nel romanzo e sulla forza e difficoltà di comunicazione tra generazioni. Da ragazzo, con un gesto protettivo nei confronti del padre Moisé, David provoca la morte violenta di un prete massone che lo aveva minacciato. Il figlio maggiore di David, che si chiama anche lui Moisé, accetterà il compito di riportare il padre battezzato all'Ebraismo, ma non potrà mai capirlo o perdonarlo. Potresti approfondire la visione del romanzo sulla complessità del rapporto tra padre e figlio?

A.T. Oltre che porre in luce il rapporto tra padre e figlio, io direi che il romanzo intende sottolineare i legami, sia manifesti sia sottesi, all'interno della famiglia.

Di là dalle sue tensioni e dai suoi inevitabili contrasti, la famiglia è vista come un'unica entità, comprese le generazioni passate, che influenza il presente e aiuta a comprenderlo nei suoi vari aspetti. Di conseguenza, esistono una responsabilità reciproca all'interno della famiglia e un senso di appartenenza che ne caratterizzano l’aspetto, anche nei momenti più difficili e problematici. Così, gli Ajash sono sempre consapevoli dei legami indistruttibili che uniscono tutti loro: Moisé, suo padre David, e i loro antenati, giunti a Livorno dall'Algeria.

A.C. In mare, tra Salonicco e la Palestina, in mezzo a una tempesta, quando il naufragio sembra inevitabile, il reprobo David Ajash estrae un potente amuleto massonico e calma i venti e le onde. L'episodio ricorda la storia di Giona, forse il profeta più anticonformista della Torah e del Corano. Talismani, amuleti, simboli massonici, pensiero magico. Con l'avvento della scienza e dell'Illuminismo, tutto questo fu messo da parte sia dagli Ebrei sia dalla società occidentale. Eppure, parte di questo ha lasciato un vuoto che difficilmente riusciamo a colmare. Vuoi commentare?

A.T. L'uso del pensiero magico, dei talismani e degli amuleti portafortuna sembra essere stato accantonato dagli Ebrei nel mondo occidentale. Ma non è così semplice come sembra, o almeno non è sempre così. Nella mia casa di Tel Aviv, come prima a Roma, tre amuleti cabalistici in ebraico sono appesi al muro, e appartenevano a mio padre e un tempo a mio nonno. Uno, in particolare, lo porto sempre con me in tutti i miei viaggi. Non so se mi protegge, ma amo credere che lo faccia.

 

[Traduzione dall’inglese a cura di Barbara de Munari, 6 maggio 2022]