Intervista a Delphine Horvilleur, rabbina di Francia.
Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari.
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Estratto dalla partecipazione di Delphine Horvilleur, rabbina, al programma "Possiamo vivere senza credere? Con Delphine Horvilleur e Kamel Daoud", organizzato da "Le Monde des Religions" e trasmesso sul sito You Tube di "Regards protestants".
[https://www.youtube.com/watch?v=M80CcatUy-A]
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La fede, la fede, è un argomento di cui detesto parlare. Può sembrarvi paradossale, come rabbino. Quando partecipo a dialoghi interreligiosi, a volte ho l'impressione di sentire parole e di non avere alcuna idea di cosa significhino. Per me, credenza e fede fanno parte di quelle parole.
Gli interlocutori, spesso cristiani, mi dicono: "Tu che sei donna di fede". Allora mi viene voglia di girarmi per vedere se stanno parlando con me o con qualcuno seduto dietro di me, perché non capisco bene cosa s’intenda con questo.
Mi evolvo in una tradizione religiosa in cui questa nozione è usata raramente, raramente trasmessa; non sappiamo esattamente come, nell'ebraismo, tradurre la parola Fede o la parola Credenza (*), perché, in realtà, non è questo il cuore del problema. D-o non è il cuore del problema nel giudaismo.
Una barzelletta ebraica narra la storia di rabbini che discutono per una notte intera sulla domanda: "D-o esiste?" e, il mattino presto, dopo ore e ore di discussione, giungono alla conclusione che no, D-o non esiste.
Poi riposano per alcune ore. Alla fine di questo loro riposo, un residente della città incontra il gruppo di rabbini per strada e chiede loro: "Dove state andando?", e i rabbini rispondono: "Stiamo andando alla sinagoga. È ora di preghiera".
L'altro dice loro: "Non capisco; avete discusso tutta la notte e avete concluso che D-o non esiste. Perché andate in sinagoga?". E i rabbini rispondono: "Che c'entra?".
Nella teologia ebraica si ritiene che la questione della fede, della credenza, non sia centrale. Ciò che conta è piuttosto: "Come agirà l'uomo?". In che modo faremo parte di un legame con il trascendente, anche se non siamo in grado di dire come si chiama questo trascendente, che forma potrà avere.
Un esempio di ciò è forse il fatto che, nell'ebraismo, non sappiamo come chiamare D-o. È un problema parlare di fede e di credenza quando non si ha nemmeno una parola per parlare di D-o.".
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Non ci sono parole per parlare di Dio.
Ci sono quattro lettere nella Torah che definiscono il nome di Dio; quello che si chiama, in un linguaggio un po’ complesso, il tetragramma e, questo tetragramma, non abbiamo alcuna idea di come si pronunci.
[Il Tetragramma ("parola di quattro lettere") è composto dalle lettere yōḏ, hē, wāw, hē ed è trascritto YHWH].
Il che è sorprendente, perché spesso si dice che gli Ebrei hanno una memoria incredibile, e sono campioni del ricordo. Si ricordano di molti momenti della loro storia, e di dettagli incredibili.
Ricordano, per esempio, cosa avveniva nel Tempio di Gerusalemme prima della sua distruzione. Ci si ricorda di come si vestiva il sommo sacerdote, in quale ordine indossava le sue vesti, quanti gradini saliva e come compiva i sacrifici e con quale dito aspergeva l'altare e quante volte. Dunque, tanti dettagli.
Ma il nome di D-o, l'abbiamo dimenticato. Non sappiamo nemmeno come pronunciarlo. In realtà, questa dimenticanza è volontaria, perché, in nessun modo, vogliamo porre termine alla sua definizione. Dal momento in cui nomini il divino, lo definisci e, se definisci qualcosa, sei in procinto di finirlo, di determinarne i contorni, di incarnarlo in un modo che è assolutamente contrario alla teologia ebraica.
Siamo in un mondo di D-o non incarnato e quasi in un mondo dal quale D-o si è ritirato. Suona profano dire questo e persino blasfemo, ma il giudaismo si evolve in un mondo in cui si vive con una forma di assenza del divino - ciò che i mistici chiamano "Tzimtzum", il ritiro del divino.
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D-o si ritira e gli uomini entrano nella storia.
D-o non è nella piena presenza, ed è perché è sentito insieme come una presenza e come un'assenza, come un indicibile, un indefinibile, qualcosa di cui non si sa parlare, che gli uomini entrano nella storia.
Se D-o occupasse ogni posto, non avremmo nessun posto dove agire. La religiosità è la via attraverso la quale gli uomini passano alla storia raccontandosi storie sacre. È così che definirei la Credenza.
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Credere, al limite, non è più credere, è mettersi in cammino. Abramo è un credente nella misura in cui cessa di credere. Smette di credere nelle tradizioni della sua terra natale ed è chiamato a partire, lascia la fede dei suoi padri. È nomade, attraversa paesi, diviene Ebreo.
Questo è il significato proprio della parola Ebreo: colui che passa, che attraversa. In questo senso, credere è mettersi in movimento, è non credere più in ciò in cui si credeva, è strapparsi da qualcosa.
Le istituzioni religiose troppo spesso l’hanno dimenticato, sostenendo una sorta di "sedentarizzazione" della fede.
Abramo ha perso volontariamente la propria identità, non è più lo stesso di prima. E questo si ripete dopo, perché l'Egitto è un luogo che abbiamo lasciato e in cui non torneremo più. Gesù incarna la partenza da una famiglia biologica per andare verso un destino spirituale. E l'Islam inizia a contare il tempo dal momento in cui Maometto si mette in cammino. Abbiamo scelto eroi che dicono: "Non credo più a ciò in cui si credeva prima di me".
Pertanto, la domanda che ogni credente dovrebbe porsi è: "Che cosa significa essere loro eredi?". Essere loro eredi, in linea di principio, non significa obbedire ciecamente a ciò che essi hanno ordinato, ma essere in grado di riprodurre il loro gesto.
Essere un figlio di Abramo significa essere capaci di fare, un po', ciò che egli fece nei confronti di suo padre, cioè mettersi in cammino.
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Tutti i fondamentalismi condividono un'ossessione per la vita sedentaria dell'età dell'oro.
Quello che disturba è che gli intermediari - l'establishment religioso - sono i paladini della riproduzione identica. Sono persone che dicono: "Soprattutto, stabilitevi nelle vostre convinzioni, non muovetevi dal mondo e dalle narrazioni che sono state fissate, irrigidite e codificate prima di voi".
La "narrazione" per eccellenza di tutti i fondamentalismi è quella che consiste nel dire: "Era molto meglio prima! Torniamo all'età dell'oro del buon vecchio tempo antico, che è stato turbato o alterato dal nostro incontro con l'Occidente, con gli altri, con le donne, etc.. È inquietante vedere come tutti i fondamentalismi condividano un'ossessione per la "sedentarietà" dell'età dell'oro.
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(*) NdT: Nell'ebraismo, la nozione di emunà, è spesso tradotta, erroneamente, come fede in D-o, fede, fedeltà. La parola ebraica, emunà, che riassume i concetti di gratitudine, adesione e fiducia, viene tradotta di solito con fede, a patto però di sgombrare il campo da qualsiasi idea di credenza, scelta da confermare o salto nel buio, concetti che appartengono tutti ad altre tradizioni. Emunà appartiene alla stessa area semantica di amèn, la parola con cui tipicamente si risponde alle espressioni di benedizione e che esprime sostegno e conferma, non credenza. Per la Bibbia e per i primi rabbini, emunà connota l'accettazione con tutta la propria anima, la totale adesione. Questo è molto di più di quanto faremmo per la pura e semplice fede in un'idea.
Delphine Horvilleur, rabbino.
Dopo aver interrotto gli studi di medicina presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, Delphine Horvilleur ha studiato giornalismo a Parigi e successivamente ha intrapreso studi rabbinici a New York.
Ha lavorato come giornalista, tra l'altro, nella redazione di France 2 e come corrispondente per una radio comunitaria a New York.
Dopo aver terminato, durante il suo soggiorno a New York, gli studi rabbinici presso l'Ebraico Union College, appartenente al movimento riformista, è stata nominata rabbino all'età di 34 anni, nel 2008, nel Movimento Ebraico Liberale di Francia.
È Direttore editoriale di Tenou’a, Rivista di pensiero ebraico, e autrice di numerose opere.