Come accade con tutti i film che raccontano di quell’evento atroce che è l’Olocausto, anche La chiave di Sarah è una testimonianza reale, offerta prima su carta e poi sullo schermo; qui si narra del rastrellamento del Velodromo d’Inverno.
L’evento narrato fa riferimento agli arresti in massa compiuti dalla polizia nazista francese il 16 e 17 luglio del 1942.
A differenza delle atrocità accadute sul suolo tedesco, questi arresti francesi non furono voluti da Hitler, ma furono attuati su iniziativa dello stesso esercito francese, solo dopo autorizzati da Adolf Eichmann, il funzionario tedesco braccio destro di Hitler e maggiore responsabile delle deportazioni degli Ebrei.
Il Velodromo d’Inverno era una pista ciclabile adibita per le gare di ciclismo, divenuto poi luogo del terrore durante l’occupazione nazista.
Nell’estate del 1940 – quando la Francia fu divisa nella parte settentrionale e in quella meridionale – i francesi dovettero sottostare a un censimento, per capire quanti Ebrei costituissero la popolazione.
Il 4 Luglio, René Bousquet, capo della polizia del governo di Vichy, incontrò i capi delle SS tedesche affinché questi ultimi vedessero le condizioni dei campi di internamento creati nelle zone di Parigi.
Due anni più tardi, nel 1942, ebbe inizio l’operazione Vento di Primavera. Furono innanzitutto catturati i bambini ebrei, in seguito gli adolescenti, fino ad arrivare agli uomini e alle donne di massimo quarant’anni.
Furono arrestate, in soli due giorni, più di tredicimila persone che furono messe nel Velodromo d’Inverno, in attesa di essere deportate nei campi di concentramento esistenti.
Il Velodromo fu trasformato: senza cibo, le finestre furono sigillate, i bagni furono dimezzati e fu messo a disposizione un unico rubinetto dell’acqua.
Molti Ebrei francesi cercarono di fuggire, senza successo.
Molti dei fuggitivi furono trucidati; dei tredicimila arrestati, solo poco più di cento persone sopravvissero ai campi di concentramento; circa cento si suicidarono all’interno del Velodromo.
È una pagina della storia francese che ha scosso l’opinione pubblica: una Francia che ha sterminato la sua stessa popolazione e che, per decenni, non ha mai chiesto scusa per il ruolo della polizia o per il suo coinvolgimento in queste atrocità.
Si dovrà aspettare il 1995 perché il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, ammettesse la colpa della nazione, affermando che era arrivato il momento di riconoscere i propri peccati e, benché potesse essere inutile, chiedere scusa a tutte quelle persone morte solo perché Ebrei.
Il film La chiave di Sarah è tratto dall'omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay (titolo originale Elle s’appelait Sarah) ed è ambientato nel 1942, quando gli Ebrei parigini furono arrestati dalla polizia nazista.
Tra i prigionieri c'era anche la bambina Sarah Starzynski, che aveva chiuso il fratellino a chiave in uno sgabuzzino, affinché non fosse catturato dai nazisti.
Sessant’anni dopo, alla giornalista Julia Jarmond viene affidato proprio un servizio su quel rastrellamento, e così la donna si metterà sulle tracce di Sarah, forse ancora viva.
“Se una storia viene raccontata, non può più essere dimenticata”.
Questo dice Julia, che vuole ripercorrere – mossa da una forza e da una convinzione più grandi di lei e della sua storia personale, almeno a fino a quel punto – un orrore così grande, visto e rivissuto attraverso gli occhi di una bambina, Sarah, e del suo personale orrore, della sua vita spezzata, della sua famiglia mutilata, della sua infanzia cancellata.
Sarah che sopravvive, ma che non può più vivere.
Sarah che sopravvive, ma che inizia lentamente e inavvertitamente a morire quando apre quell’armadio e ritrova il fratellino.
Sarah che, nonostante quanto incontrerà negli anni successivi, fortuna, bellezza, e amore, cerca, da allora, inconsapevolmente, la morte.
Sarah che decide, senza saperlo, di andare volutamente incontro alla morte, camminando sulla battigia e allontanandosi lentamente tra le acque del mare.
Sarah che quel mare lo attraversa, il mare che dovrebbe simboleggiare la madre e la vita, e il ritorno al suo grembo, per recarsi in una terra lontana da tutto, dare alla luce un figlio e percorrere infine l’ultimo miglio della sua vita – per ritornare in un altro grembo, quello della morte.
Spesso capita che non si riesca a vivere con il senso di colpa per essere vivi: di fronte ad orrori troppo grandi per essere razionalmente compresi, percepiamo il fatto di essere ancora vivi come una colpa.
Secondo Karl Jaspers la colpa metafisica è dovuta a una “solidarietà la quale fa sì che ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza. Il fatto che uno è ancora in vita costituisce per lui una colpa incancellabile”.
Naturalmente non esiste una colpa collettiva, né delittuosa, né morale, né metafisica.
Solo il singolo può essere accusato.
E certamente non è questa la colpa di Sarah, che pure si sente responsabile di qualcosa il cui peso ritiene di potere eliminare solo attraverso la purificazione della morte, la sua.
Nulla al mondo potrà cancellare la percezione di angoscia impotente provata di fronte al dominio di un essere umano su un proprio simile, ma con il potere distruttivo di un semi-dio. Sentimenti che si radicano e che maturano.
Più il tempo passa – come avviene per Sarah nel film – e più aumenta lo sgomento, l’intollerabilità di ciò che si è vissuto: “Sul mio avambraccio sinistro ho tatuato il numero di Auschwitz; si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo” – così scrisse Jean Améry, internato ad Auschwitz.
Bisogna trovare le parole per narrare quello che è accaduto ma le parole non sembrano poter assolvere il compito tremendo del raccontare la negazione stessa dell’essere umano: eppure è vero anche che se una storia viene raccontata, non può più essere dimenticata. Mai più.
È proprio grazie alla sua attività di giornalista che Julia Jarmond smette di essere estranea al contesto violento e crudele di quell’epoca. È fin dall’inizio curiosa, quasi tormentata da un qualcosa che sente presente ma che contemporaneamente le sfugge ad ogni passo e, accanto a questo, nasce in lei un forte senso di delusione e di smarrimento.
Cercando di raccogliere testimonianze, Julia si scopre contrariata davanti alla perdita di memoria del popolo parigino: nessuno ricorda, nessuno vuole ricordare.
Tutto ruota attorno all’importanza di ricordare.
Julia si fa portavoce di quel senso di umanità che implora di non essere mai perso come punto di riferimento, che protesta contro la semplicità del dimenticare, contro la facilità di insabbiare i propri crimini per sentirsi meno colpevoli.
Julia – la cui vita, dopo l’incontro con Sarah, non sarà più la stessa – è turbata dall’indifferenza, dal quasi disprezzo nei confronti della storia, dall’ipocrisia, e cerca in tutti i modi di far aprire gli occhi ai personaggi che la circondano, sordi all’eco della memoria, anche se viene spontaneo chiedersi quanto possa servire ricordare, quanto valga per le vittime non cadere nell’oblìo, dopo aver attraversato il peggiore degli inferni, quanto questo possa rallegrare i loro spiriti privati del puro senso d’umanità.
Eppure, comunque e nonostante, le ultime due righe del diario di Sarah, ritrovato da Julia, nella parte finale della narrazione, ci dicono:
Zakhor. Al Tichkah.
(Ricorda. Non dimenticare mai).
©Barbara de Munari
A questo link il film, in italiano, LA CHIAVE DI SARA:
https://www.youtube.com/watch?v=Uo1DCWaE3W8
A questo link, la recensione audio: