Avevo più o meno due anni e mezzo quando entrai in cucina caracollando, mi aggrappai alla tovaglia per non cadere e, scivolando a terra, trascinai insieme a me la tovaglia, le tazze della colazione e la caffettiera napoletana che mia madre aveva appena capovolto al centro della tavola. Porto ancora sul petto il segno di quella ustione da acqua bollente, che su un corpo così piccolo era molto estesa e che oggi, su un torace adulto, resta una traccia di memoria discreta ma profonda.
Ho avuto tempo per familiarizzarci e ora non ci bado più, ma quando ero bambino mi rifiutavo di andare in piscina per non dover esibire una parte di me che mi faceva vergognare, e d’estate mi ingegnavo per evitare la spiaggia o almeno per tenere su la maglietta nonostante il sole di Ischia. Nell’adolescenza, invece, scherzavo sulla cicatrice prima ancora che qualcuno mi chiedesse come me la fossi procurata: una granata al fronte, dicevo, o spiritosaggini del genere. Dei circa due metri quadri di pelle che posseggo, per un tempo non trascurabile della mia vita mi sono preoccupato solo di un fazzoletto di venti centimetri di lato, non conforme al modello di epidermide che avevo in mente. E il resto?
Chissà che oggi, nel dedicare la XVIII edizione di Torino Spiritualità a esplorare la vasta significatività della pelle non ci sia in me l’impulso a risarcire con la dovuta attenzione le decine e decine di centimetri di tessuto che diligentemente hanno marcato il mio punto di inizio e di fine rispetto al mondo, e che io a lungo ho trascurato. Può darsi, anche se mi sembra di poter individuare con precisione il momento in cui mi è parso valesse la pena di mettersi a lavorare sul tema pelle. È accaduto nel corso della passata edizione del festival, secondo una dinamica che in questi anni si è verificata spesso: ascolti un ospite parlare e a un certo punto ti colpisce con una frase, un riferimento, un pensiero che ti fanno dire: “questo me la devo proprio ricordare”.
Scintille, che però a lungo andare possono rischiarare la sagoma di un nuovo tema da esplorare. E dunque è andata così: durante la sua lezione, la rabbina francese Delphine Horvilleur ha fatto riferimento a una pagina di Nudità e pudore, saggio da lei scritto alcuni anni prima e pubblicato in Italia da Qiqajon, la casa editrice della comunità di Bose. In quella pagina Horvilleur si soffermava su una questione che i commentatori ebrei della Bibbia hanno rivestito – e il verbo non è usato a sproposito – di molteplici ipotesi: che tipo di indumento era la tunica di pelle citata nella Genesi, quella cucita da Dio in persona per coprire Adamo ed Eva all’uscita dall’Eden? Pelle di animale? Di quale? Del serpente, che a quel punto della vicenda non era più tanto ben visto?
Secondo alcuni passaggi dello Zohar, capolavoro della mistica ebraica evocato dalla rabbina Horvilleur, una delle risposte – in effetti suggestiva – potrebbe essere questa: la tunica cucita da Dio per Adamo ed Eva altro non era che la pelle stessa dell’uomo. Nell’Eden, quindi, l’essere umano era luminosamente a- dermico, trasparente a se stesso e al suo Signore, ma quando l’armonia si infrange e la creatura deve lasciare il Giardino ecco che ha bisogno di coprirsi con qualcosa che la separi dal mondo e, avvolgendola, definisca i suoi limiti: una frontiera tra sé e il resto, sigillo di uno stato fusionale svanito.
Stato fusionale che, se dalla Genesi ci spostiamo a un altro “inizio”, mi sembra di ritrovare non dissimile nella condizione del neonato. Appena venuto al mondo, il bambino ha una coscienza assai rudimentale del proprio corpo: non sa dove inizi, non sa dove finisca, non sa che la pelle delle braccia che lo avvolgono e dei palmi che lo accarezzano non sono la sua pelle, ma una pelle altrui, l’altro da sé. Lo capirà dopo, e se potrà imparare le coordinate del proprio spazio corporeo sarà in buona parte grazie a quella pelle non sua, che percorrendo amorevolmente i suoi confini estremi glieli avrà rivelati. Insomma, una costruzione di identità personale che passa attraverso l’inatteso manifestarsi di un’epidermide che ci delimita.
Proprio come accaduto ai nostri progenitori biblici che, da diafani che erano, si ritrovano di colpo definiti e “opachi”: la condizione edenica di creature senza pelle, trasparenti l’uno all’altra e al loro creatore, perduta per sempre.
Simbolicamente, potremmo scorgere in questa narrazione scritturale anche una sorta di indicazione etica sui modi di stare al mondo: più la pelle è spessa – incallita da strati di indifferenza, cinismo, egolatria – più ci si allontana dall’originaria compiutezza dell’essere umano; mentre una pelle sottile, in quanto armatura meno divisiva, ci rende partecipi del reale e ci fa più vicini a una mirabile compiutezza, che è trasparenza empatica, relazione sempre esposta al bene quanto al male. Con tutto ciò che tale estroversione può comportare in termini di spiazzamenti, vulnerabilità, arricchimenti e trasformazioni.
Ma a ben guardare la pelle non è solo “opacità” che copre e nasconde. Anzi. L’epidermide rivela moltissimo di ciò che siamo: è archivio intimo, mappa e memoria, al punto che ogni traccia sulla nostra pelle – una ruga, un neo, un’impronta digitale, la mia cicatrice, un tatuaggio – è la marca di un’individualità, il palinsesto visibile che ci portiamo addosso. E non sarà un caso se in molte narrazioni essere privati dell'epidermide significa al tempo stesso essere privati della propria identità.
Nelle Metamorfosi di Ovidio il sileno Marsia è punito da Apollo con la tortura dello scorticamento e al culmine dello strazio esclama: perché mi strappi da me stesso? Di supplizio in supplizio, strappato da sé stesso è anche il martire San Bartolomeo, che Michelangelo rappresenta nel Giudizio Universale mentre stringe nella mano l’involucro penzolante della sua stessa pelle. Impressionante, ma meno della versione marmorea che si può contemplare nel Duomo di Milano, una figura di muscoli e tendini scoperti, avvolta in un drappeggio che a osservare meglio è un mantello di pelle scuoiata. Ma lasciamo da parte San Bartolomeo e osserviamo altri santi. Scopriremo un modo meno cruento di essere “strappati da sé stessi”: l’estasi. Etimologicamente estasi significa stare al di fuori di sé,
trascendersi, in un movimento che varca il confine naturale e ci porta letteralmente oltre l’abito della nostra pelle, a incontrare qualcosa che ci supera.
Tutto ciò per dire che se da un punto di vista puramente anatomico la pelle può sembrare l’organo più esteso ma meno complesso – quantomeno a un profano come me –, da un punto di vista sociale, psicologico, narrativo, simbolico e spirituale è invece quanto mai articolato: avvolge la persona, la incarna, la definisce, la distingue, la mette in relazione con gli altri e con il mondo fuori, perché è lì sulla pelle che la vita viene a incontrarci.
Ma in questo suo essere soglia, l’epidermide rinvia anche alla nostra interiorità. Quando, per dare conto di un’emozione profonda, diciamo che la tal cosa “ci ha toccati” stiamo alludendo proprio a questo: a una porosità che connette il fuori al dentro, a una membrana esterna che affonda e si imprime nel mondo interiore, e lo nutre. Diceva il poeta Paul Valéry che nell’uomo non c’è nulla di più profondo della pelle. Ossia, è nel confine estremo che riveliamo meglio ciò che siamo, perché è sulla superficie che le cose si espongono davvero alla luce. Sarà per questo, forse, che ancora oggi c’è chi suppone di poter leggere interi destini nelle linee di una mano.
E a proposito di mani... scrivevo poco fa del Giudizio Universale. Se ora voltiamo le spalle all’altare della Sistina e alziamo gli occhi al centro della volta ci troviamo a osservare quel frammento di spazio che separa il dito di Adamo dal dito di Dio. C’è chi legge nel mancato sfioramento la potenza del libero arbitrio: anche se Dio si protende, sta all’uomo scegliere se estendere l’ultima falange e chiudere il circuito affinché il divino circoli nella materia. Sia come sia, ciò che qui interessa è che il dito esita e lo spazio non si colma. Quanto doveva essere spavalda, invece, la falange di San Tommaso per insinuarsi tra i lembi di pelle lacera di Gesù.
Per come ce lo mostra Caravaggio, il discepolo sembra addirittura intento a frugare nella piaga per sincerarsi che non ci sia inganno, sempre più dentro alla pelle che è, appunto, quanto di più profondo ci sia. Due attitudini opposte, la ritrosia di Adamo e la spudoratezza di Tommaso, ma in fondo lo stesso messaggio: l’esperienza spirituale ha bisogno della mediazione tattile del corpo, e la sensibilità fine di cui è capace la punta delle mie dita serve anche a trovare il divino. Perché non ci rivolgiamo a un Dio distante, ma l’abbiamo sempre di fronte; e se capita di non vederlo può darsi che non sia perché è troppo lontano, ma perché è troppo vicino, a portata di pelle.
Sul finire degli anni Quaranta Curzio Malaparte scriveva: «Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la
propria pelle. [...] È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c'è che la pelle che conta, ormai» (La pelle, Adelphi, 2010).
Cambiano le guerre, mutano le circostanze ma il concetto mantiene la sua attualità. Non c’è che la pelle, la pelle tesa e perfetta che non ne vuole sapere di invecchiare, la pelle violata dalla ferita e la pelle sintetica, la pelle sottile, spessa, arrossata, ornata, tatuata, ustionata, la pelle specchiante degli ausili touch, la pelle coperta, quella impudica, quella che cambia, la pelle degli altri, la pelle uguale, la pelle diversa. Per questo è importante ragionarci su, e vale la pena farlo anche puntando a un orizzonte spirituale in cui “salvarsi la pelle” e “salvarsi l’anima” siano lembi che possono infine toccarsi.
Armando Buonaiuto, curatore del festival Torino Spiritualità.
©DoppioZero, luglio 2022