Mémoire
"L'ipocrita ha meno parole, l'impostore è loquace, cerca le moltitudini da ingannare" (def.: Oxford Languages).
Hanno finto di essere qualcosa - e qualcuno - che non erano. Uomini e donne, cosa hanno cercato di ottenere fabbricandosi una nuova identità e quale obiettivo sono riusciti a raggiungere? Perché hanno deciso di indossare una maschera? Si discute molto sul modo in cui la Shoah possa essere rappresentata, con la progressiva scomparsa degli ultimi testimoni di quel momento storico. La questione più urgente riguarda soprattutto il problema dei limiti della rappresentazione. Limiti che alcuni recenti casi di falsa testimonianza hanno valicato. Il falso testimone della Shoah Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levi, Binjamin Wilkomirski, Misha Defonseca, Bernard Holstein rappresentano casi clamorosi di identità rubate. Le loro false memorie hanno infranto il confine tra realtà e finzione e hanno funzionato come testimonianze, anche se non autentiche, come storie, perché rispondenti perfettamente alle attese della società che le aveva prodotte. Hanno scritto libri, sono stati invitati in occasione di ricorrenze, sono stati ospiti di scuole, hanno fatto piangere e mosso a commozione allievi e insegnanti, concedendosi a interviste e ottenendone popolarità, visibilità e profitto.
E allora è necessario porsi almeno due domande: la prima, cosa può averli indotti a inventarsi un passato da sopravvissuto ai campi di concentramento; la seconda, come è possibile che nessuno, in anni di testimonianze pubbliche, abbia mai dubitato dell’autenticità dei loro racconti - imponendo poi accurate indagini a posteriori per “smascherarli”.
Per rispondere alla prima domanda ci si rifà spesso alla cosiddetta “Sindrome Wilkomirski”, in cui un disturbo psichico denominato “pseudologia fantastica” si unisce al “desiderio di essere vittima”, e alla variante di tale bisogno costituita dal “desiderio di essere Ebreo”. Il nome di questa “Sindrome” deriva dallo scandalo, di ampia portata internazionale, avvenuto in Germania anni fa. Nel 1998 un giornalista smascherò come frutto di pura finzione il libro di Binjamin Wilkomirski, ‘Bruchstücke’, pubblicato tre anni prima con grande successo internazionale – e subito tradotto in quattordici lingue, tra l’altro anche in italiano con il titolo ‘Frantumi’ – in cui erano narrate le vicende di un bambino che all’età di tre anni era stato deportato da Riga nei campi di concentramento di Majdanek e quindi ad Auschwitz, per poi venir adottato da una famiglia svizzera. Considerate le traumatiche esperienze di abbandono e i ripetuti fallimenti di adozione vissuti durante l’infanzia dall’autore, che in realtà era un cittadino svizzero di nome Bruno Dössekker, i ricordi inventati dei campi di concentramento furono interpretati da molti critici come “ricordi di copertura”, attraverso i quali l’autore aveva cercato di attribuire un significato ai propri traumi rimossi, “coprendoli” con le vicende storiche più traumatiche del ventesimo secolo, cioè le vicende della persecuzione e dello sterminio degli Ebrei. Una sorta di fiaba perversa che l’individuo racconta - e si racconta - per sostenere il peso psicologico di un’esistenza “abbandonica”.
Una spiegazione simile si potrebbe applicare anche al caso di Artale che, attraverso l’invenzione della sua vita a Rostock e dell’esperienza ad Auschwitz, potrebbe avere voluto trovare una “spiegazione” per il fatto di essere stato abbandonato nell’infanzia.
Quindi, come nel caso di Wilkomirski, anche in questo caso i “ricordi del lager” potevano essere in realtà “ricordi di copertura”.
Ma alla spiegazione psicologica del “Caso Wilkomirski” è necessario aggiungere altri elementi culturali, che servono a inquadrare l’origine e, almeno in parte, anche il successo di una simile falsa testimonianza.
Il testimone della Shoah ha conosciuto infatti, dal Processo Eichmann (1961) in poi, una progressiva rivalutazione, che ha portato alla sua ‘sacralizzazione’, soprattutto grazie a nuove possibilità mediatiche di raccolta e registrazione delle testimonianze. Da qui è derivato quel fenomeno che Javier Cercas, autore di un romanzo documentario (L’impostore), su un’altra falsa testimonianza riguardante l’imprigionamento in un campo di concentramento di un sindacalista spagnolo, ha chiamato “il ricatto del testimone”.
La nuova aura e il prestigio che caratterizzano il testimone della Shoah, nell’era del testimone, uniti alla quasi certezza che nessuno oserebbe mai mettere in discussione il contenuto di una testimonianza così traumatica, sono indubbiamente all’origine della comparsa di numerosi falsi testimoni della Shoah – con relativo danno, poiché recano argomenti a sostegno delle tesi del negazionismo.
Per riconoscere il carattere non autentico e contraffatto di certe testimonianze sarebbe stato sufficiente ascoltare un sano istinto e osservare la costruzione retorica di racconti miranti a coinvolgere emotivamente il lettore e l’ascoltatore e tali da indurre a rinunciare a qualsiasi critica razionale. L’utilizzo di tutti i luoghi comuni della letteratura concentrazionaria, oltre all’impiego di quella che è stata definita ‘pornografia della Shoah’, avrebbe potuto rivelare il kitsch della rappresentazione, smascherandone la falsità estetica e di contenuto. Ma il “ricatto del testimone” ha impedito a lungo una simile analisi ‘stilistica’.
Se affrontare il problema dei falsi testimoni è indispensabile per sottrarre l'argomento alla strumentalizzazione del negazionismo, così è indispensabile affrontare chi fa della ‘pornografia’, chi vuol far piangere, con un moto di affetti non filtrato, non messo in forma, e con un pathos esagerato, per sfuggire al fascino perverso che la visione del male assoluto provoca in certe menti malate e soprattutto per affrontare la Memoria in un mondo calato in un presente ansiogeno che sembra essere senza più un passato.
©Barbara de Munari