Convegno Internazionale del Rito Scozzese Antico Accettato
(Contributo del Sovrano Gran Commendatore Joan Francesc Pont Clemente Supremo Consiglio Massonico di Spagna)
La tolleranza sembrava una virtù diffusa e generalmente condivisa sino a quando gli eventi di Parigi dell’inizio e della fine dell’anno 2015 (oltre a quelli che hanno sparso il terrore in alcune città del mondo) non hanno reso necessaria la ristampa di centinaia di migliaia di esemplari del “Trattato sulla Tolleranza” di Voltaire. O la rilettura della “Lettera sulla Tolleranza” di Locke. In sostanza, gli atti violenti ed atroci che sono costati la vita di molte persone in Europa e in altre parti del mondo, in alcuni casi molto vicino ai nostri luoghi di residenza, hanno toccato i nostri cuori proprio a causa della loro vicinanza e della loro crudeltà. E si è trattato di un monito, perché in realtà la violenza degli uni contro gli altri è una realtà quotidiana che noi vogliamo evitare di percepire. Ma essa esiste, che lo si voglia o no, e in quanto uomini e donne di buona volontà, desiderosi che la fraternità regni sulla terra, essa ci pone interrogativi e ci obbliga non solo a respingerla ma anche a ricercarne le radici ed a ricercare le vie che dovrebbero un giorno condurci a raggiungere l’ideale del “vivere insieme”.
In ogni epoca, la pace è stata una semplice pausa tra due guerre. I principi non cessavano di combattersi tra loro sino a che non avessero sottomesso il nemico o sino a quando non avevano più la forza di continuare a lottare. La pace era un’anomalia e la guerra, invece, uno stile di vita. Tutt’al più, la pace era il risultato dello strapotere di un impero. Solo con Emmanuel Kant si inizia a parlare di una filosofia della pace e solo dopo la fine della Seconda Guerra mondiale la pace è divenuta uno scopo primario e impregna, letteralmente, le fondamenta sulle quali il Trattato di Roma inizia il lungo periplo in cammino verso la costruzione dell’Unione europea. Dopo il 1945, si ricerca la pace partendo dal concetto di una Società che possa essere condivisa da tutti.
Nondimeno, viene usato ancor oggi il termine “pacifisti” per indicare quelle persone per le quali la pace è il primo dei valori umani. La pace non è un valore scontato. Solo sul suolo europeo abbiamo vissuto recentemente episodi di guerra in Ucraina e il ricordo della distruzione dell’ex-Yugoslavia e della guerra scatenata dall’odio, ancora una volta, degli uni contro gli altri, è ancora particolarmente vivo. La guerra, una guerra nella quale nemmeno noi siamo innocenti, ci appare oggi in tutta la sua durezza, quando i rifugiati di questa guerra tentano di scalare i muri della nostra fortezza. La guerra è ancora una realtà in numerose zone del mondo e le minacce di nuove guerre sono latenti nella politica delle nazioni.
No, nel mondo attuale del XXI secolo non possiamo affermare che il “vivere insieme” sia una realtà. Gli esseri umani riescono a vivere insieme solo se chiusi nella loro tribù, nel loro quartiere o nella loro nazione, e anche con difficoltà – fatto che analizzeremo più avanti. “Vivere insieme” non significa condividere in qualche modo il medesimo spazio, o rispettare le frontiere, o chiudere gli occhi di fronte a quanto succede al di fuori del ristretto orizzonte del nostro vivere quotidiano. “Vivere insieme” significa condividere la medesima nozione universale di umanità e contribuire alla creazione di una coscienza sociale parimenti universale, sulla quale possa poggiare uno spazio politico comune fondato sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, uno spazio nel quale si imponga un controllo efficace di tutela e protezione.
La pace unita al “vivere insieme” non può scaturire che dalla cultura dei diritti umani.
Se noi non siamo a tutt’oggi ancora riusciti a ottenere una pace durevole, se continuiamo a ucciderci uno con l’altro per una bandiera, per credo religiosi, per interessi o limiti territoriali, come possiamo pensare di riuscire a passare ad una tappa qualitativamente più difficile? Come potremo “vivere insieme” con i nostri vicini se accettiamo con assoluta naturalezza che la guerra e la fame falcino ogni giorno innumerevoli vite umane? Il lassismo morale nei confronti della sopravvivenza dell’odio in paesi lontani ci consente di mantenere un livello di odio più o meno intenso, più o meno esplicito, nei confronti di coloro che ci circondano e che noi consideriamo diversi.
In tal modo, non siamo riusciti a concepire il “vivere insieme” se non nella misura in cui rimaniamo “tra di noi”, segregando “l’altro”, anche se la “frontiera” è costituita solo da una strada o da un confine di quartiere. Vivere insieme, ma senza mai incontrarsi, ecco il concetto “geniale”. Proprio questo è il principio del multiculturalismo: ognuno si rifugia nella sua comunità e alcune comunità rimangono invisibili per le altre. Ogni pecora segue il suo pastore, in modo tale che ogni persona appartiene in realtà alla sua truppa, senza poterne uscire, né sviluppare liberamente la propria personalità. L’individuo perde i suoi diritti a favore del suo gruppo, che lo comanda e lo guida.
Il comunitarismo è non solo la sottomissione a quello sviluppo nel quale si vuole rinchiudere la persona (apparentemente libera nel gruppo, ma a condizione che non voglia uscirne), ma è ugualmente il rifugio nel quale si cerca di sentirsi bene quando si ha paura, quando si soffre per la povertà o per la crisi o quando si ha freddo e l’unica consolazione è quella di rinchiudersi in seno alla tribù. Questo ritorno a un piccolo mondo chiuso è oggi una tentazione per quelle molte persone che ricercano nel nazionalismo, nella religione integralista o nei guru cialtroni di cui parlava Alan Watts, il riposo nella negazione del pensiero, l’alienazione della loro autonomia morale ed il rinforzarsi apparente della loro identità nella lotta contro le altre identità.
Contrariamente al terribile “vivere in disparte” del comunitarismo, anche se esso tenta di travestirsi sotto le spoglie di un falso “vivere insieme”, noi riteniamo che gli esseri umani debbano avvicinarsi l’uno all’altro per mezzo della conoscenza e dell’amore. Dobbiamo riconoscere, a tal proposito, che il Programma Erasmus dell’Unione europea per favorire lo scambio di studenti è stato e rimane uno dei maggiori contributi alla conoscenza e all’amore tra i giovani cittadini europei, ed i suoi effetti sono ormai permanenti. Le politiche pubbliche attuali volte alla conoscenza ed al riconoscimento tra i cittadini dell’Unione meritano di essere perseguite con continuità e con sempre rinnovato impulso, anche con il sostegno della società e dei governi.
La conoscenza permette di scoprire quanto sono importanti gli elementi che determinano l’uguaglianza e la dignità degli esseri umani, e parimenti permette una riflessione serena sull’esistenza di valori universali condivisi. In ogni territorio dell’Unione il “vivere insieme” deve essere il risultato dell’equilibrio tra il prevalere dell’unità intorno a questi valori condivisi e l’espressione individuale e collettiva della pluralità, suscettibile di arricchire l’insieme senza nuocere alla sua unità. Il “vivere insieme” può pertanto essere letto come un “imparare insieme”, in modo da generare un progresso interculturale. L’interculturalismo è la combinazione tra il rispetto della legge e, conseguentemente, di regole accettate da tutti, e la scoperta di tutti gli elementi positivi che esistono nelle differenti tradizioni.
La tolleranza acquisisce in un contesto interculturale il senso di filo conduttore di reciproche scoperte orientate verso una costante presa di coscienza collettiva con il risultato di distillare ciò che è comune a tutti gli esseri umani come ideale da raggiungere e perseguire, cioè l’amore per la pace e per la libertà. La tolleranza è la forza motrice della trasformazione delle diversità in caratteristiche di una società, il che riduce la portata dei disaccordi ed impedisce ad una qualsiasi cosmogonia di dominare sulle altre.
La tolleranza, contrariamente a un’idea molto diffusa, non consiste in un lassismo riguardo al rispetto di regole giuridiche né ci obbliga a sopportare modi di vita che ci urtano. Il lassismo di fronte alla legge è un incitamento a ricorrere alla legge in modo sempre più duro. La dissimulazione del disgusto per ciò che appare ai nostri occhi differente è una stupida manifestazione di suprematismo e, in sostanza, si configura come una forma di intolleranza. La tolleranza è la virtù che permette di stabilire i limiti entro i quali il pluralismo di una società può esprimersi.
I limiti menzionati non possono non nascere che dalla cultura dei diritti dell’uomo e non dalla pretesa del primato di una cultura in particolare, di una religione o di un modo di vivere su altre culture, religioni o modi di vivere. I limiti devono trovare le loro radici nella coscienza sociale, nel nostro caso, la coscienza sociale europea, al di là di obsoleti miti nazionali, e devono essere limiti concepiti per la pratica effettiva della libertà.
L’Europa deve confermare una volta di più il proprio impegno nei confronti dei diritti umani ed essere coerente con essi quando si tratti di stabilire limiti che connotano la tolleranza come una virtù che favorisce uno spazio di libertà.
Una piega molto pericolosa consiste nel ridurre la cultura dei diritti umani alla condizione di una cosmogonia come le altre (ad esempio, le cosmogonie religiose). Anche se è vero che una parte dei diritti dell’uomo trova la propria origine nel meglio di alcune dottrine scaturite da credenze religiose, non è meno vero che tutte le religioni hanno dovuto (o dovrebbero) subire una restrizione della propria sfera di influenza, per permettere l’autonomia politica della Società. È quanto ha fatto la maggior parte delle costituzioni politiche adottate a partire dal XIX secolo ed è quanto deve fare l’Unione europea, erede del costituzionalismo nazionale dei suoi Stati membri, definita oggi, magnificamente, come uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia.
La giustizia è ciò che ci obbliga, oggi, nel quadro della nostra cultura dei diritti umani, a essere una terra di asilo.
La mia proposta per “vivere insieme” implica di operare una distinzione tra “nocciolo” e “involucro” di un mondo organizzato attorno al concetto di cittadinanza.
Il “nocciolo” comprende i valori ed i princìpi che costituiscono il modo di organizzare una coesistenza generalmente accettata ed è il risultato di una storia che, nata nella schiavitù e nella servitù, mira a rendere possibile per tutti l’emancipazione. L’emancipazione come liberazione da ogni tipo di catene materiali o filosofiche, come l’accesso all’educazione, alla salute e a condizioni di vita decenti, al rispetto – infine – della libertà di coscienza.
L’Unione europea che progredisce, se pure lentamente, verso la costruzione di una repubblica europea, trova le proprie radici nel secolo dei Lumi, nelle rivoluzioni del XIX secolo, nella definizione di Stato come Stato sociale nel XX secolo e nella sfida di promuovere la fraternità federale nel corso del XXI secolo. In questa direzione proposta, che trova notevoli rappresentanti tra i pensatori più illustri, la determinazione giuridica di valori condivisi che illuminino il nostro sistema politico e la validità dei suoi princìpi unificatori deve essere realizzata concretamente e permanentemente nella Costituzione europea.
Un “nocciolo” forte di valori e di princìpi – tra i quali si distingue il principio di laicità come frutto della virtù della tolleranza – permette l’esistenza pacifica e ricca di un’ “involucro” nel quale, per quanto riguarda questi princìpi, si sviluppano liberamente le diverse opinioni e forme di vita.
Le relazioni tra “nocciolo” e “involucro” poggiano su una mutabilità molto limitata del “nocciolo” e su un’assoggettamento dell’ “involucro”, in tutte le sue manifestazioni polimorfe, al contenuto del “nocciolo”.
In quest’ottica, appare evidente che il pluralismo dell’ “involucro” è un elemento positivo che contribuisce, tramite l’apporto dei valori universali che ne discendono, alla definizione di un “nocciolo” forte e stabile, motore di coesione sociale e garante dell’esercizio di diritti individuali e sociali inalienabili. Il ruolo dell’Unione europea nella definizione, diffusione e protezione del “nocciolo” è irrinunciabile.
La tolleranza, ripetiamo, è l’olio che lubrifica i meccanismi di relazione tra le opzioni ed i modi di vita plurali dell’ “involucro” e l’unità del “nocciolo”.
È superfluo sottolineare che il nostro modello di coesistenza, descritto come una tensione creativa tra “involucro” e “nocciolo”, se pure non senza conflitti potenziali, rappresenta una risposta complessa a un problema complesso. Intendiamo dire con ciò che una politica europea per il XXI secolo deve raccogliere la sfida della gestione della complessità. Parimenti, noi consideriamo come avversari del nostro modello coloro che propugnano progetti semplici e semplificatori, i quali spesso non sono altro che l’espressione più o meno esplicita di una volontà egemonica.
Noi accordiamo il primato solo alla cultura dei diritti umani.
Joan Francesc Pont Clemente
(traduzione dal francese di Barbara de Munari)